[Redditolavoro] Non una di meno: al movimento delle donne servono le lavoratrici

Partito Comunista dei Lavoratori pclavoratoribologna at gmail.com
Mon Mar 6 00:08:23 CET 2017


Non una di meno: al movimento delle donne servono le lavoratrici

Al movimento 'Non una di meno' si prospetta un passaggio importante; dovrà
avere il coraggio di assumere la prospettiva del rovesciamento di questa
società, di questi rapporti di produzione, di questo sfruttamento domestico
e lavorativo. Poiché disperdersi in rivendicazioni parziali e non
sradicando alla radice la causa dell’oppressione patriarcale e dello
sfruttamento capitalista farà perdere a noi donne e a tutte le soggettività
oppresse la possibilità concreta di conoscere un altro mondo.


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Nelle giornate del 4-5 febbraio a Bologna si è svolta l’assemblea nazionale
autorganizzata di 'Non una di meno' per continuare la scrittura del “piano
nazionale femminista contro la violenza” e definire le modalità dello
sciopero globale transnazionale dell’8 marzo, cui l’Italia aderisce insieme
ad altri quaranta paesi. L’incontro si è svolto su otto tavoli tematici, in
cui sono stati individuati gli otto punti da inserire nel documento comune
in vista dello sciopero.

Tuttavia le modalità di gestione della discussione e i risultati del tavolo
'Lavoro e welfare' sono apparsi a nostro avviso poco democratici.
Non condividiamo l’atteggiamento prevenuto delle organizzatrici
dell’assemblea nei confronti delle donne appartenenti a un partito politico
marxista, come se l'organizzarsi politicamente e avere una collocazione
nella politica generale non possa appartenere anche alle donne, o come se
le rivendicazioni femministe non abbiano legami con le scelte politiche
attuate fino ad ora. E soprattutto non condividiamo la delegittimazione
della prospettiva che il femminismo non possa integrarsi con un progetto di
radicale trasformazione della società, con la prospettiva cioè
dell’abbattimento del capitalismo e la fondazione di una società nuova dove
non vige il principio dell’oppressione di una classe sull’altra, dell’uomo
sulla donna e dell’uomo sull’ambiente.

Siamo rimaste inoltre basite dall’aggressività mostrata verso alcune
compagne che ponevano all’attenzione dell’assemblea alcune rivendicazioni
importanti per le donne e totalmente assenti nelle proposte delle
organizzatrici dell’assemblea, proprio sul tema del lavoro. I rilievi alle
lacune rivendicative, emerse anche dal dibattito del giorno 4, sono stati
stigmatizzati come strumentali e facenti parte del movimento operaio –
quindi “maschili” – e totalmente omessi nel report del giorno dopo. Il
report, peraltro, non contiene affatto tutte le posizioni esposte, ma una
sintesi (vagamente censoria) che le stesse organizzatrici si sono rifiutate
di emendare in assemblea, e che per di più non è stato votato.
Il punto centrale che è emerso dal tavolo è il reddito di cittadinanza - o
di autodeterminazione, come viene definito - assieme a un non meglio
precisato salario minimo europeo ispirato al modello americano (15 dollari
orari), che potrebbero essere un boomerang: un salario minimo su cui il
padronato potrebbe attestarsi, livellando al ribasso le paghe generali,
soprattutto se la rivendicazione del salario non viene unita alla battaglia
per l’abolizione di tutte le leggi sulla precarietà, dai voucher alle
infinite varietà di lavoro sommerso e non pagato. Il reddito di
cittadinanza, slegato quindi dalla condizione lavorativa, non garantisce
autonomia, ma al contrario, dati i rapporti reali tra i sessi e le classi,
prospetta maggiori probabilità di rinchiudere le donne in casa vincolandole
definitivamente a sostituire i servizi sociali nel lavoro di cura. Dunque
non cambierebbe nulla della società che lo eroga, ma anzi potrebbe
aggravare lo stato di cose esistenti; non influenza i rapporti sociali di
sfruttamento e oppressione delle donne, ma al contrario rischia di
istituzionalizzarli.

In secondo piano, o totalmente assenti, sono alcune rivendicazioni che
pongono al centro il lavoro e la battaglia dentro ai luoghi di lavoro come
terreno effettivo di autodeterminazione delle donne: la parità salariale,
l’introduzione di un salario garantito per chi è in cerca di occupazione,
il ripristino della scala mobile dei salari e delle pensioni, il
rafforzamento degli ammortizzatori sociali, la lotta contro lo
smantellamento della legge 104, la lotta alle vergognose forme di
schiavismo a cui sono sottoposte alcune categorie di lavoratrici (badanti,
braccianti...), la fine degli incentivi statali alle aziende che
delocalizzano o chiudono attraverso accordi e tavoli istituzionali. Tutte
queste istanze si ricollegano alla generale battaglia per la
redistribuzione del lavoro fra tutti e tutte, e la conseguente riduzione
dell’orario di lavoro a parità di paga con la prospettiva della
socializzazione del lavoro di cura: l’unica vertenza che consenta a tutti,
e soprattutto a tutte, di definire in piena libertà la forma delle proprie
relazioni sentimentali e sessuali, senza subordinarsi ai vincoli imposti
dal bisogno materiale.

Anche le modalità dello sciopero dell’8 marzo, che si vuole si svolga su
due piani, quello "produttivo" e quello "riproduttivo", non sono veramente
efficaci.
Sul piano produttivo, Non una di meno non ha costruito una vera
interlocuzione con i sindacati, producendo la possibilità di organizzare lo
sciopero su una piattaforma rivendicativa articolata in termini di difesa
dei salari e dei diritti delle lavoratrici. Ci si è fermate alla richiesta
di un loro appoggio, ma rifiutandosi essenzialmente di condividerne la
gestione, cosa che non ha impedito ai sindacati di base di aderire anche se
con modalità non unificanti, mentre ha dato sponda alla maggioranza della
CGIL di lasciare il tutto nel vago e di non assumersi la sua responsabilità
per la riuscita dello sciopero, con risultati che non saranno di grande
impatto, malgrado la posizione favorevole dell’area di opposizione interna
“Il sindacato è un’altra cosa” e la convocazione dello sciopero da parte
della FLC. Dati questi presupposti, si tratta di uno sciopero che temiamo
non darà i frutti che avrebbe potuto, e che non darà un segno di reale
contrapposizione all’oppressione nei luoghi di lavoro e al capitalismo. Le
donne che lavorano faranno fatica a capire perché scioperare senza
rivendicazioni in merito ai loro diritti perduti, o per aumenti salariali e
miglioramento delle condizioni di lavoro. Perché questo non le fa avanzare
di un passo verso quella indipendenza economica necessaria alla liberazione
dalla violenza e dalla schiavitù lavorativa e domestica.
Ancora meno efficace ci sembra lo "sciopero riproduttivo", che riguarda
tutte quelle donne estromesse dal mondo della produzione capitalista che
svolgono attività domestiche, di cura e assistenzialistiche a titolo
gratuito al posto dello Stato, oltre a casalinghe, disoccupate, studentesse
ecc. Per aderire ideologicamente allo sciopero, queste donne per un giorno
non si dovrebbero occupare della cura di anziani e bambini e lavori
domestici. In molti casi sarà difficile che qualcun'altro in famiglia lo
faccia al loro posto, a meno che non dispongano di un sostegno maschile
“democratico”, perché certamente a farlo non sarà lo Stato borghese, che ha
scaricato sulle loro spalle una enorme quantità di lavoro invisibile
risparmiando ingenti quantità di denaro.
L’evento simbolico non modifica né mette in discussione i rapporti reali.

Noi crediamo che sia invece necessario costruire una piattaforma politica
che rivendichi l’abolizione delle leggi e normative sui servizi sociali che
sono attualmente scaricati sulle donne (la sussidiarietà, le leggi
regionali sulla cura dei malati e degli anziani, il taglio degli
investimenti sulla scuola dell’infanzia...) così come delle controriforme
della sanità che tolgono esami e screening per una vasta gamma di patologie
femminili, tolgono finanziamenti ai centri antiviolenza e trasferiscono
fondi ai consultori confessionali, riducendo i servizi dei consultori
pubblici, tra l’altro trasformati, questi ultimi, in ambulatori di servizi
di base, dove le donne sono semplicemente “utenti”. Ma vogliamo combattere
anche contro i finanziamenti a pioggia di fondi ad asili e scuole
paritarie, tutte confessionali, dove si formano bambini e bambine a misura
di un mondo bigotto e misogino. È dunque di una società realmente laica che
le donne e tutte le soggettività oppresse necessitano, una società liberata
dagli interessi della Chiesa cattolica. In questo senso la battaglia per
l’emancipazione femminile si inscrive in un processo rivoluzionario di
rottura con la morale e con l’organizzazione economica e politica della
società attuale, che prospetti come passaggio imprescindibile l’abolizione
unilaterale del Concordato fra Vaticano e Stato, l’abolizione di tutti i
privilegi fiscali, giuridici, normativi, assicurati alla Chiesa cattolica,
a partire dalla truffa dell’8 per mille e dall’insegnamento religioso
confessionale nella scuola pubblica.

Al movimento Non una di meno si prospetta dunque un passaggio importante:
dovrà avere il coraggio di assumere la prospettiva del rovesciamento di
questa società, di questi rapporti di produzione, di questo sfruttamento
domestico e lavorativo. Poiché disperdersi in rivendicazioni parziali e non
sradicando alla radice la causa dell’oppressione patriarcale e dello
sfruttamento capitalista farà perdere a noi donne e a tutte le soggettività
oppresse la possibilità concreta di conoscere un altro mondo.
Non una marea, ma mille rivoli che in queste condizioni non potranno
mettere veramente in discussione chi oggi vive sullo sfruttamento delle
donne.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione di genere


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