[Redditolavoro] Su la testa! Scioperi e picchetti crescono nel farwest della logistica lombarda' uscito su Senza Censura N.31 -marzo 2010

Vittoria OLIVA huambos at virgilio.it
Sat Mar 13 14:56:49 CET 2010


mi è piaciuta e l'ho messa sul blog!
  ----- Original Message ----- 
  From: SLAI Cobas Cremona 
  To: redditolavoro at lists.ecn.org ; il pane e le rose ; vivalabase ; infoslai ; ferrovierinlotta at yahoogroups.com ; red link 
  Sent: Saturday, March 13, 2010 1:06 PM
  Subject: [Redditolavoro] Su la testa! Scioperi e picchetti crescono nel farwest della logistica lombarda' uscito su Senza Censura N.31 -marzo 2010


  SENZA CENSURA N. 31
  marzo 2010



  Su la testa!

  Scioperi e picchetti crescono nel far west della logistica lombarda



  Dopo la vittoria alla Fiege-Borruso di Brembio, un operaio che è qui presente mi ha detto questa frase: “finalmente siamo riusciti ad alzare la testa”. 

  Io, per parlare di Brembio, parlerò solo di questa frase, cercando di tirare i punti essenziali e le cose importanti che credo dobbiamo ricordare per sempre. 

  Finalmente siamo riusciti ad alzare la testa. 

  “Finalmente”: finalmente si dice quando c’è una speranza, un sogno, lo vuoi realizzare ma non riesci, ci provi ma non riesci mai. 

  Però quando ci riesci dici: “finalmente”! “Siamo”: non ha detto “sono riuscito”, ha detto “siamo riusciti”. Siamo vuol dire noi, vuol dire unità, vuol dire che quel sogno non era solo suo ma anche di altri, e anche di tutti noi. 

  “Riusciti”: vuol dire che puoi anche perdere, hai perso tante volte, però questa volta sei riuscito. Quando “si riesce”, si cercano i motivi del perché “sono riuscito”. Sono riusciti perché si sono ribellati, hanno voluto cambiare le loro condizioni di vita, non hanno accettato lo sfruttamento. 

  “Alzare” è un movimento: da una situazione giù, siamo saliti sopra facendo la lotta tutti insieme. Quando si fa la lotta si sale di livello. Di questo salire di livello ha bisogno tutta la classe operaia. Bisogna salire di livello così puoi riuscire. Se tu stai lì non riuscirai mai; se sei solo, non riuscirai mai, se siamo divisi rimaniamo sempre giù. Quando siamo uniti saliamo un po’ sopra e per questo quando per esempio vai a fare una trattativa riesci a dire ad un padrone che ha i miliardi: questo che fai per me fa schifo, lo dobbiamo cambiare, non accetto queste condizioni. Vuol dire che sei salito di livello. 

  “La testa”: vuol dire intelligenza, vuol dire pensare per esempio. Dice (credo) Descartes: “io penso quindi sono”; quindi facendo la lotta ed essendo riuscito prima ero nullo, non ero nessuno, adesso sono, sono qualcuno, sono in una classe che ha alzato la testa, che ha ottenuto il rispetto. Siamo riusciti tutti ad alzare la testa, facciamo in modo di non abbassarla mai».

  (Da un intervento in assemblea di un operaio di una cooperativa in appalto presso un deposito logistico di Turate)



        N
       
  el numero 28 di SC abbiamo cercato di fornire un quadro delle lotte che stanno interessando il settore della logistica lombarda, attraverso l’esperienza vincente degli operai della Bennet di Origgio. 

  Torniamo sull’argomento perché come concludevamo in quell’articolo, la parola d’ordine “fare come a Origgio” si è concretizzata in una serie di scioperi, picchetti, vertenze che hanno interessato altre cooperative in appalto presso importanti magazzini logistici della cintura milanese. Attraverso una breve cronistoria degli episodi più salienti (1), vogliamo ripercorrere questo ciclo di lotte sforzandoci di evidenziarne alcuni nodi essenziali che possono fornire elementi di dibattito intorno alla capacità di diffusione, alle modalità e alla composizione di classe che ne è protagonista (2). 

  In quest’ottica conviene fare qualche passo indietro, più precisamente al 2005, quando cominciò ad emergere all’ortomercato di Milano la situazione drammatica dei lavoratori; una realtà caratterizzata dal ricorso massiccio al lavoro nero, e dall’utilizzo sempre più intenso di imprese e cooperative spuntate come funghi specializzate nella fornitura di manodopera, per lo più immigrata, a costi bassissimi. 

  La SO.GE.MI, società che gestisce il mercato ortofrutticolo per conto del comune di Milano, per bieco interesse tollera una situazione completamente senza regole dove sono all’ordine del giorno caporalato, licenziamenti arbitrari, ritmi e carichi insostenibili, continue intimidazioni. Situazione in cui è avvenuto anche un attentato contro un delegato alla sicurezza. Stanchi di subire questo inferno (3), un gruppo di lavoratori (Movimento Autonomo Lavoratori Ortomercato) muove i primi passi attraverso volantini di denuncia, raccolta di firme, scioperi, attorno ai quali comincia a consolidarsi un tessuto sociale formato principalmente da altri lavoratori, studenti, compagni del movimento, sindacati di base (su tutti lo SLAI COBAS). 

  Questo connubio di esperienze, sommato alla determinazione dei lavoratori, contribuisce a tenere alta l’attenzione sull’ortomercato con una serie di mobilitazioni che si susseguiranno fino all’estate 2008 (4). 

  Aldilà dei risultati conseguiti (la situazione all’ortomercato è ancora gravissima) qualcosa comincia a muoversi. Va pian piano delineandosi la componente avversaria: un intreccio di multinazionali, cooperative fantasma, organizzazioni mafiose coperte dalle istituzioni a vari livelli. Parallelamente inizia a svilupparsi un embrione di movimento che coglie l’importanza della posta in gioco e la necessità di supportare nella pratica, e non di sostituire, proletari immigrati che di fronte al nulla da perdere optano decisamente verso la lotta. 

  Anche perché altre situazioni simili stanno esplodendo: è il caso della DHL a Corteolona, una big della logistica internazionale che deve gli altissimi fatturati, alla faccia della crisi, all’utilizzo, tramite le solite cooperative, di manodopera sottopagata, vessata, ricattata, in questo caso con l’evidente complicità della CISL. Due scioperi con relativo blocco delle merci, hanno provocato la reazione di capetti, ruffiani, e sgherri del genere che con violenze e minacce tentano inutilmente di interrompere il picchetto. 

  Anche alla DHL la partita è ancora aperta, ma la battaglia di Corteolona ha lanciato un sasso che verrà raccolto dagli operai della Bennet di Origgio. Come abbiamo detto, lì sappiamo com’è andata; ci interessa piuttosto fare alcune considerazioni. Quella che è scesa in campo è fondamentalmente una componente immigrata, un mosaico di culture, storie ed esperienze assai diverse: nordafricani, pakistani, srilankesi, rumeni, eritrei, sudamericani, ecc., di prima come di terza generazione, segnati da un’esistenza continuamente in bilico tra una pseudo-integrazione e la minaccia di espulsione, passando per l’internamento nei CIE. Molti di loro, fuori dalle dinamiche di partito o sindacato confederale, anzi constatatane la completa inutilità, hanno affidato le loro speranze alla lotta cercando e trovando una sponda sindacale e di movimento determinanti per la tenuta e la continuità di un cammino aspro, ma alla fine (l’unico) vincente. Inoltre, quello che va sedimentandosi è un movimento che tende ad allargarsi e a rafforzarsi ad ogni picchetto: una sorta di passaparola sotterraneo si alimenta da deposito a deposito, circola per le strade o sul web, man mano che le azioni di lotta costringono i padroni a trattare, o a fare concessioni. 

  Così, se ad Origgio sono serviti 7 picchetti per conseguire risultati notevoli, viste le condizioni precedenti, agli operai della Fiege-Borruso di Brembio ne è bastato uno (si è concluso con una carica della celere con l’arresto di un sindacalista dello SLAI e di un operaio, subito rilasciati dopo un presidio di protesta), mentre alla Bennet di Turate è stata sufficiente la minaccia dello sciopero. 

  E’ un dato di fatto che anche in altre cooperative della logistica cresce il numero di quelli che vogliono organizzarsi per difendere la propria dignità e i propri diritti, ma quello che più conta, è che tra mille difficoltà scelgono di farlo fuori da iniziative simboliche o di facciata, fuori da logiche caritatevoli o di rassegnazione. 

  Hanno capito che per ottenere qualcosa bisogna far male ai padroni e stanno mirabilmente sperimentando come far male, tanto che i padroni se ne sono accorti e all’ultimo presidio: il 12 febbraio ci sono voluti un centinaio di sbirri per far passare i camion a scaricare le merci alla GLS di Cerro Lambro, poliziotti e carabinieri in tenuta anti-sommossa che non hanno esitato a caricare più volte gli operai per liberare il cancello dal blocco. Un innalzamento repressivo che seppure scontato, anche per le dimensioni della GLS, rappresenta un chiaro segnale per le mobilitazioni future (5). In questo contesto, dalle giornate di lotta a Brembio, c’è una decisa tendenza a strutturarsi in modo più stabile e permanente come comitato d’appoggio alle lotte nella logistica. 

  Quella che segue è l’intervista ad un lavoratore di una cooperativa in appalto a un deposito di Turate.



  Quali sono stati i passaggi decisivi della vostra lotta a Turate? Quali risultati avete ottenuto in concreto?

  Dopo il licenziamento di un operaio per motivi futili, dal momento che c’erano già stati licenziamenti facili e tutti noi avevamo sfiducia nei sindacati confederali, questo ragazzo si è rivolto allo SLAI-COBAS. Avevamo saputo dell’esperienza di Origgio, un’esperienza vincente, quindi abbiamo continuato la solidarietà, iscrivendoci allo SLAI COBAS e con lo scopo di far rientrare il nostro compagno al lavoro. 

  Eravamo stanchi di assistere al licenziamento di tanti nostri compagni senza poter fare niente, per i soliti motivi, ad esempio per aver tardato o prolungato la pausa di qualche minuto. Così abbiamo deciso di fermare questi licenziamenti facili e abbiamo iniziato le trattative; siamo entrati in stato di agitazione, ma ancor prima di fare lo sciopero l’azienda ha preferito trattare e abbiamo ottenuto il rientro di questo operaio. 

  Altri tre operai licenziati ingiustamente si sono rivolti a noi e siamo riusciti a fare rientrare anche loro. Poi abbiamo deciso che non si poteva stare zitti sugli altri problemi che riguardavano la cooperativa: abbiamo cercato di ottenere più tutela economica, sulla sicurezza, sulla salute. Tra le altre cose, abbiamo mandato via un capetto che trattava le persone con linguaggio offensivo e maleducato, una volta ci siamo fermati tutti costringendo la cooperativa ad allontanarlo altrove, visto che maltrattava gli operai. 

  Sono piccole vittorie che ci hanno spinto ad andare avanti per cercare di tutelarci anche su altre cose, come fare chiarezza sulla busta paga: tra operai si è visto che non pagavano tutte le ore, o le malattie, quindi anche su questo ci siamo mossi per fare qualcosa, per mettere a posto le cose come dovevano essere, abbiamo deciso di affrontarle tutti uniti.



  Come hai sottolineato prima, gli scioperi e i picchetti alla Bennet di Origgio si sono dimostrati un’arma vincente. Credi che abbiano influito sulle lotte che sono seguite a Turate, a Brembio, a Cerro Lambro, ecc?

  Noi siamo venuti a sapere di Origgio innanzitutto perché geograficamente è vicino a Turate, circa 5 km, poi anche perché trovandosi tra amici si parla, ci si racconta come vanno le cose; quando da noi ci sono stati dei problemi abbiamo cercato di capire quale fosse il sindacato giusto. Abbiamo guardato anche su internet e c’era l’esperienza di Origgio, così abbiamo contattato quei ragazzi che ci hanno spiegato quante cose erano cambiate da loro. 

  Quando gli abbiamo raccontato la nostra situazione, ci hanno detto che anche da loro era così, ma che sono riusciti a cambiarla: questo è stato importante per farci capire che eravamo sulla strada giusta. 

  Quegli scioperi sono serviti, eccome. Sono serviti per svelare lo sfruttamento che c’è nelle cooperative (molti dicono: “io non sapevo che lì succedessero queste cose, pensavo che andasse tutto bene...”). 

  Questi scioperi sono un’opportunità per gli operai a dire le cose come stanno realmente, a denunciare le irregolarità, le illegalità, lo sfruttamento, e soprattutto a creare solidarietà da parte di altri lavoratori.



  Che idea ti sei fatto della CGIL, visto il suo doppio ruolo: formalmente a difesa dei lavoratori, in realtà in diversi casi a capo delle cooperative dove si lavorava a condizioni disumane? E sull’attività sindacale in genere?

  Basti pensare che il presidente della nostra cooperativa è un’ex sindacalista della CGIL: come si fa ad andare a chiedere alla CGIL di far rispettare i nostri diritti quando chi li calpesta è uno di loro? Io lavoro lì da quasi tre anni; lavoratori che ci sono da più anni di me mi hanno raccontato che quando si sono rivolti alla CGIL (o a CISL e UIL) per le trattative, si creava subito amicizia tra loro e i dirigenti. Il presidente, i capi, e all’interno non cambiava mai niente; quindi hanno perso fiducia in questo sindacato, lo considerano la mano destra del padrone. Per questo per molto tempo siamo stati lontani da CGIL, CISL e UIL, perché sappiamo che anche se vengono non cambiano niente. 

  Invece, dopo aver visto l’esperienza vincente di Origgio ci siamo detti: forse c’è un altro tipo di sindacato in Italia che può aiutarci ad uscire dai nostri problemi. Da allora posso dire che fare attività sindacale aiuta moltissimo, a cominciare dalla giusta retribuzione, perché sei di fronte ad una paga misera rispetto al costo reale della vita. 

  Ma non è solo un problema economico, è anche un problema di dignità della vita: come operaio vali un po’ di più, non vieni maltrattato come prima. Anche sul piano della salute non permettiamo più che si facciano turni insostenibili o lavori molto pesanti o ad una certa velocità. L’attività sindacale aiuta anche come informazione perché tanti lavoratori non conoscono i propri diritti. 

  Quando tu non sai i tuoi diritti, non li chiedi. Incontrandoti con altre realtà in lotta, altri operai che fanno già questa attività sindacale, conosci i tuoi diritti e li puoi rivendicare.



  Personalmente abbiamo partecipato ad alcuni dei recenti scioperi e abbiamo constatato l‘efficacia dei picchetti per raggiungere gli obbiettivi della lotta. Ci puoi parlare dei momenti di lotta che non vediamo, quelli che avvengono all’interno del posto di lavoro?

  Oltre alle lotte all’esterno, c’è innanzitutto una lotta che ogni lavoratore anche individualmente deve fare all’interno: deve rifiutare di essere maltrattato, di vendere la propria salute e la propria dignità. Ci sono lavoratori che sono ricattati e purtroppo sono costretti a vendere la propria salute e dignità. Abbiamo cercato di far capire che dignità e salute non sono in vendita. Questo lo facciamo ogni giorno all’interno del posto di lavoro perché alcuni lavoratori hanno paura, hanno bisogno di fiducia. 

  Ad esempio, per fare fronte ai lavori e ai turni insostenibili abbiamo creato una commissione formata da un lavoratore per ogni reparto in cui si parla di che cosa si può fare per evitare di rovinare la salute con un dato tipo di lavoro: sappiamo che se è fatto in un certo modo non danneggia la salute. Nella commissione gli operai danno un’opinione su come va svolto il lavoro: rotazioni per certe attività e disponibilità di lavoratori a sostituirne altri per non fare troppi straordinari che sono massacranti. 

  Rispetto al rapporto con i cosiddetti responsabili (capetti) abbiamo ribadito la nostra ferma opinione: non si grida più perché non siamo degli animali. Se ci sono dei problemi se ne discute, si parla. Se un responsabile grida o usa un linguaggio offensivo, viene subito fermato fino al punto di organizzare uno sciopero. Anche se per adesso non è stato necessario perché i responsabili hanno abbassato la cresta.



  Sempre ai picchetti, non è passato inosservato il fatto che la stragrande maggioranza dei lavoratori coinvolti è immigrata. Credi che le modalità e gli obbiettivi delle lotte in corso nella logistica abbiano unito i lavoratori o prevale comunque la comunità di appartenenza?

  I nostri obbiettivi cerchiamo di raggiungerli tutti insieme, a prescindere dalla razza o dalla religione. I padroni, i capi, cercano di dividere i lavoratori perché hanno paura dell’unità tra gli operai. La conflittualità tra di noi crea debolezza, si crea la cosiddetta guerra tra poveri: facciamo la guerra tra di noi e loro ci sfruttano come vogliono. 

  Grazie a queste lotte abbiamo capito che la divisione non fa altro che indebolirci, ci fa fare passi indietro, peggiora ulteriormente le nostre condizioni.



  Per molti immigrati la questione del lavoro è strettamente legata al permesso di soggiorno: questa realtà fa affiorare situazioni limite, come la rivolta dei braccianti di Rosarno, o le centinaia di immigrati non in regola rinchiusi nei lager conosciuti come CIE. Quali sono le vostre riflessioni in proposito?

  Di questo livello parliamo poco, è un problema politico più che sindacale. Queste cose, se da una parte ci rendono tristi, dall’altra ci danno anche coraggio. Vedere la situazione di operai come a Rosarno, situazione dove ci sono solo doveri e non diritti ci rende coraggiosi; vuol dire che dobbiamo lottare, pretendere il rispetto dei nostri diritti, informarci ancora di più per non trovarci anche noi a quei livelli. 

  Le cose che facciamo qui le facciamo anche per la società in generale, non si devono verificare un giorno situazioni del genere anche in Lombardia solo perché siamo stati zitti. 



  Vorrei concludere con una domanda un po’ personale. Tu sei in Italia ormai da diversi anni, ma ti chiedo se ti ricordi qualche esperienza di lotta vissuta direttamente o indirettamente nel tuo paese di origine, il Marocco, e le differenze che hai riscontrato rispetto all’Italia…

  Mi ricordo, per esempio, di quando ero all’università: gli studenti si riunivano, cercavano di organizzare delle lotte. Lì ho cominciato a capire che l’essere umano deve avere degli obbiettivi, dei valori per cui vale la pena vivere, per cui vale la pena combattere e alzare la voce. Non solo nella singola realtà, ma anche a livello nazionale ed internazionale. 

  Ho visto ad esempio le manifestazioni che ci sono state dopo l’invasione del Kosovo, o le manifestazioni che ci sono state durante le guerre in Palestina o in Iraq e questo ti rimane dentro: che ne vale la pena denunciare queste realtà. 

  A differenza che qui in Italia, però ho anche visto che da noi le lotte vengono represse molto duramente. Nelle manifestazioni sparano i proiettili di gomma e anche dopo che sono finite, compiono arresti casa per casa alla ricerca dei più attivi, anche se non hanno partecipato a quelle manifestazioni. Ad ogni modo le lotte ci sono anche lì e fanno quel che possono per cambiare lo stato di cose. 

  Ultimamente ho sentito dire che c’è più democrazia anche in quei paesi, io lo spero. Ogni cittadino deve avere il diritto di esprimere la sua opinione. Se tutti noi abbiamo sempre la stessa opinione la vita è brutta…



  Note:

  (1) Senza contare i micro-episodi per cui molti lavoratori  si sono rivolti ai sindacati confederali, senza ottenere alcun risultato rispetto a rivendicazioni anche minime.

  (2) Rimandiamo al numero successivo un’analisi più dettagliata sulle cooperative della logistica lombarda, i loro rapporti con le grandi aziende multinazionali del settore, gli intrecci con le organizzazioni mafiose che controllano il territorio.

  (3) I lavoratori dell’ortomercato da tempo denunciavano i gravi problemi legati alla sicurezza, culminati nella morte di un operatore tranciato da un camion il 15 luglio 2005.

  (4) Da segnalare la produzione di un video autoprodotto, dal titolo “Società alla frutta”, che ripercorre lo sciopero dei lavoratori dell‘ortomercato del 7 ottobre 2007. Sulla vicenda dell’ortomercato sono seguite nel 2008 due interrogazioni parlamentari, un’interpellanza in consiglio regionale, una in consiglio comunale, ma come era prevedibile non è cambiato nulla.

  (5) Per i dettagli sulle agitazioni a Turate, Brembio, Cerro Lambro si può consultare il sito dello SLAI COBAS MILANO, all’indirizzo.



  http://www.senzacensura.org/


  ---------- Messaggio inoltrato ----------
  Da: <info at senzacensura.org>
  Date: 13 marzo 2010 09.34
  Oggetto: E' uscito Senza Censura N.31 - marzo 2010
  A: info at senzacensura.org


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