[Ezln-it] Intervento di Raúl Zibechi su Etica e Politica‏ - parte prima

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Wed May 11 22:50:37 CEST 2011


Scambio epistolare su Etica e Politica

L'etica ha bisogno di un luogo altro per mettere radici e fiorire
Raúl Zibechi



Febbraio 2011:

Don Raúl: Saluti. Abbiamo letto alcuni dei tuoi ultimi scritti e 
pensiamo di essere in sintonia. Per questo vogliamo invitarti ad unirti e
 a portare il tuo contributo sul tema Etica e Politica. Un abbraccio. 
SupMarcos

Su invito del SCI MArcos, dall'Uruguay, Raúl Zibechi si unisce con questa lettera allo scambio epistolare su Etica e Politica.



Lettera all'EZLN



Marzo 2011

Per: Subcomandante Insurgente Marcos - Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

Da: Raúl Zibechi.

Un abbraccio alle compagne e ai compagni zapatisti da questo angolo 
del continente sudamericano. E un abbraccio di cuore a quelle bambine e a
 quei bambini che subiscono la guerra dell'alto, quella guerra alla cui 
direzione vanno alternandosi conservatori e progressisti, destre e 
pseudo sinistre che in comune hanno la propria avversione - e timore- a 
tutti quelli che stanno in basso. Che solamente vengono considerati come
 masse passive nei loro cortei, che adesso chiamano manifestazioni, e 
soprattutto nel sacrosanto giorno in cui si accorre alle urne.

Man mano che il mondo, il nostro continente e i nostri differenti modi 
di stare in basso sono sempre più colpiti dalle molteplici guerre di 
quelli in alto - la guerra della fame a causa della speculazione sugli 
alimenti, la guerra del silenzio informativo per cancellarci, la guerra 
delle politiche sociali per addomesticarci, e la guerra-guerra di 
pallottole e cannoni per eliminare ammazzando - diventa urgente 
tracciare "frontiere" tra i più svariati "noi" e "loro", anche a rischio
 di trovarci con qualche sorpresa sgradita.

Di fronte ad ogni salto in avanti della rivolta mondiale di quelli in 
basso, quando moltitudini armate di pietre si scontrano con elicotteri 
d'attacco e cacciabombardieri, arriva il momento di chiedersi: da quale 
parte? con chi? Domande a cui si può solo rispondere con il cuore e il 
più elementare senso di solidarietà umana, anche se tutti i giorni 
vediamo quelli che occupano i piedistalli in alto fare calcoli di 
guadagni e perdite, con mediocri motivazioni utili a spiegare qualsiasi 
cosa perché alcune parole, come diceva León Felipe della giustizia, 
valgono di meno, infinitamente meno della piscia dei cani.

Quando migliaia e i milioni di persone conquistano le strade, come 
fecero nel gennaio 1994 in Messico e al Río de la Plata nel dicembre 
2001, non bisogna far altro che festeggiare, accompagnare, lasciare le 
faccende del momento e uscire con loro condividendo allegria e dolore. 
"E dopo?", era la domanda che ci facevano a bruciapelo intelligenti 
analisti e dirigenti di sinistra. Dopo, non si può sapere. L'unica cosa 
che possiamo dire è: adesso, e basta.

Mentre le acque sono calme, i margini per la speculazione si allargano 
fino a diventare oceani di discorsi; parole e ancora parole possono 
essere pronunciate una dopo l'altra, una e un'altra volta, perché non 
sono legate a fatti, azioni, decisioni, impegni. Sono, diciamo, parole. 
Come quelle del politico in alto, che rispondono al capriccio e 
all'interesse individuale.

Ma quando le acque si increspano, quando le onde esplodono in 
mareggiata, niente resta al proprio posto. I tempi per il calcolo e la 
speculazione lasciano il passo a risposte quasi automatiche, ed è lì 
dove ciascuno risponde secondo i valori che ha coltivato man mano. Nelle
 crisi, come nei naufragi, ci sono solo vie d'uscita collettive, per il 
semplice fatto che l'opzione individuale non contiene tutti. Questa è la
 prima lezione che stanno rispolverando le ribellioni che scuotono il 
mondo.



Un sistema in disfacimento



Possiamo fare tutti gli sforzi intellettuali necessari a comprendere 
quello che sta accadendo nel mondo. Raccogliere dati, classificarli, 
analizzarli, rapportarli, sottoporli a verifica, e così via fino a 
circoscrivere alcune ipotesi su ciò che chiamiamo crisi sistemica, che 
assomiglia sempre più a un caos sistemico.

Come capire la crisi del sistema? Dicono che ci sono leggi economiche 
che mostrano tendenze e segnali inequivocabili del fatto che stiamo 
entrando in un periodo nel quale il capitale incontra limiti per la sua 
accumulazione. E ci sono altre teorie che dicono che la caduta del 
capitalismo è inevitabile e che il mondo unipolare, cioè il mondo basato
 sull'egemonia di un solo paese, gli Stati Uniti, non è più sostenibile.

Secondo alcuni, e possiamo sbagliarci, quella che chiamiamo crisi 
sistemica, non è né più né meno che un Ya Basta! collettivo, contundente
 e generalizzato di quelli in basso in tutti gli angoli del mondo. Crisi
 è: quando donne e giovani, bambini e bambine, contadini e operai, 
indigeni e studenti, non non tollerano oltre e le loro battaglie si 
fanno così forti che quelli in alto, i padroni del capitale, cominciano a
 portare i soldi in posti più sicuri. E quello che provocano è un casino
 gigantesco nel quale i capitalisti giocano a togliersi i soldi l'un 
l'altro, perché quelli in basso non si lasciano più derubare e sfruttare
 tanto facilmente.

Giovanni Arrighi e Beverly Silver, nel loro lavoro che abbraccia cinque secoli di storia del capitalismo, "Caos e governo del mondo",
 dicono che questa crisi ha una caratteristica ben diversa da tutte 
quelle precedenti. Adesso la lotta di quelli in basso è così potente che
 da sola fa entrare in crisi il sistema. Così è successo in tutta 
l'America latina dal Caracazo del 1989 fino alla seconda guerra del gas 
in Bolivia nel 2005 e alla comune di Oaxaca nel 2006. Non sono state le 
"leggi oggettive" a mettere in crisi la forma di dominio, ma le persone 
nelle strade che hanno sconvolto il modello neoliberista.

Ciò che chiamiamo crisi sistemica sembra un uragano che ci colpisce 
tutti e tutte. Non c'è popolo o gruppo sociale che sia al sicuro, e 
molti degli strumenti che hanno saputo costruire nel corso dei secoli di
 resistenza sono diventati inutili. Non solo le prime organizzazioni 
"storiche" di quelli in basso, ma anche una parte delle più giovani, i 
cosiddetti movimenti sociali si sono trasformati poco a poco in 
obiettivi essi stessi, in gruppi guidati dalla logica della 
sopravvivenza. Per inerzia o per quel che sia, una parte di quanto 
inventato per resistere non sta servendo a resistere in questo periodo 
in cui tutto si scompone. Perfino il nostro mondo si sta disgregando. 
Per questo siamo costretti a reinventare i nostri attrezzi di resistenza
 e i nostri mondi.

Che dire delle teorie, le ideologie, le analisi scientifiche. Le 
previsioni dei "narratori" sociali e politici assomigliano a quei 
bollettini meteorologici dove l'unica cosa cosa che azzeccano è dire a 
che ora spuntano il sole e la luna e tutto il resto è incerto. I 
"narratori" sociali, come si addice, non si fanno carico dei propri 
pronostici. Non mettono il corpo insieme alle analisi.

Cosa fa un marinaio quando le mappe di navigazione si mostrano 
sbagliate, quando le bussole e gli orologi e i sestanti non segnano più 
con la precisione di un tempo? E cosa fanno i ribelli sociali quando non
 ci si può aspettare più niente dallo Stato e dalle istituzioni, dai 
partiti e dalle organizzazioni che parlano di cambiamento e rivoluzione 
ma in realtà stanno cercando il miglior modo di accomodarsi in questo 
mondo?

Possiamo confidare nell'etica come supporto e guida dei nostri 
movimenti, delle nostre scelte e come machete per aprire sentieri?



È possibile unire etica e politica



Gli zapatisti propongono di aprire un dibattito su etica e politica. 
"È possibile portare l'Etica nella guerra?", ci chiede il Subcomandante 
Insurgente Marcos nella sua lettera a Luís Villoro. Possiamo allargare 
la domanda alla politica. Etica e politica possono andare assieme? La 
risposta non è così evidente.

Come sarebbe? C'è chi pensa di mettere qualche dose di etica in qualcuno
 dei partiti che occupano ministeri? E alla Camera dei deputati e dei 
senatori? Quanta? Fino a riempire quante pagine di discorsi? Quale 
dovrebbe essere la dosi necessaria di etica per rimuovere decenni di 
pratiche guidate dal calcolo meschino dei benefici quantificati in 
incarichi, viaggi e compensi straordinari? È evidente che là in alto 
l'etica è il convitato di pietra o argomento di conversazione. Sono due 
dimensioni che vivono in mondi diversi e che non possono dialogare né 
capirsi.

Una notte fredda del 1995, il comandante Tacho si rivolse alla folla 
nella piazza di San Andrés per spiegare quello che avevano discusso quel
 giorno con i rappresentanti del governo durante alcune trattative che 
alla fine sfociarono negli Accordi di San Andrés. "Ci hanno chiesto di 
spiegare cos'è la dignità", disse, provocando un terremoto di risate. 
Con l'etica accade qualcosa di simile. È o non è, ma non può essere 
spiegata, anche se ho visto intere biblioteche di libri con la pretesa 
di analizzarla.

L'etica ha bisogno di un luogo altro per mettere radici e fiorire. E 
quel luogo è in basso e a sinistra, lì dove è nato poco a poco un altro 
modo di fare politica, dove la parola è intrecciata alla vita e la vita è
 fatta di realtà che fanno male, né grandi né piccoli, le realtà 
quotidiane di quelli in basso. Questa politica altra, quella che nasce 
nel sottosuolo per restarci, la politica che non cerca scale per 
arrivare in alto ma ponti per arrivare ad altri in basso, e con tutti 
quelli in basso cerca di costruire un mondo diverso, questa politica è 
etica, e solo lei può esserlo.

La barca della politica dell'alto, che è la stessa politica di quelli 
che vogliono arrivare in alto, vicino al timone ha un bussola enorme che
 punta sempre verso un nord che si chiama pragmatismo o realismo. Che è 
l'arte di giocare con gli elementi esistenti, con la "correlazione delle
 forze" (il frustino più usato delle sinistre in alto), con la reale 
realtà. Il pragmatico e realista misura con maggiore esattezza la 
congiuntura, la sventra per levarle tutto il succo possibile, per 
giocare con lei il gioco di sistemare le pedine degli scacchi sulla 
scacchiera per i propri interessi nel miglior modo possibile. (Si noti 
che il politico in alto non fa differenza tra politica ed economia, e 
utilizza gli stessi concetti in entrambi gli ambiti).

Il politico pragmatico e realista, quando si sollevano i popoli, quando 
contro i proiettili e i cannoni del tiranno ci mettono il corpo, non si 
turba per il sangue sparso. Si limita a calcolare a chi può beneficiare e
 a chi nuocere la caduta del tiranno e il trionfo degli insorti.

Fa i suoi calcoli, con lo stesso fervore e la stessa ripugnante indifferenza con cui conta i voti elettorali.

Rinuncia, per tanto, a creare un mondo nuovo. Che non può essere la 
semplice disposizione delle pedine esistenti, ma un'altra cosa, un altro
 gioco. Amministrare le cose che esistono, giocare con le pedine del 
sistema, implica l'accettare le regole del sistema e quelle regole si 
chiamano, in secondo luogo, elezioni. In primo, sottostare alla violenza
 dell'alto, quello che chiamano monopolio-della-violenza-legittima. (Gli
 zapatisti lo subiscono quotidianamente, è violenza tout court, e non 
vale la pena dilungarsi ora). La politica altra, la politica etica, 
rifiuta le pedine e le regole del gioco che vuole farci giocare la 
politica dell'alto.

Con quali pedine la politica altra prepara il gioco del nuovo mondo?

Nella politica altra, la politica dal basso e a sinistra, non ci sono 
pedine né gioco, a meno che metterci il corpo si chiami gioco.

(parte prima)

(traduzione a cura di rebeldefc at autistici.org - http://www.caferebeldefc.org/)
 		 	   		  
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