[Redditolavoro] Il fronte dei contratti sullo sfondo del plebiscito d'autunno

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Mon Jan 25 01:05:28 CET 2016


Il fronte dei contratti sullo sfondo del plebiscito d'autunno
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Lo scorso settembre, Renzi e il padronato hanno provato a ridefinire le
regole che determinano salari e organizzazione del lavoro (turni, ritmi e
tempi). Di fronte al protrarsi della Grande Crisi, cioè, hanno sperato di
generalizzare il “modello Marchionne”, tentando così di rilanciare
competitività e esportazioni. Lo sganciamento della FCA (ex FIAT) dal
contratto nazionale di lavoro, infatti, nonostante l’articolo 8 del buon
Sacconi (Dgls 138 del 2011, la possibilità di derogare nei contratti
aziendali anche a norme di legge) è rimasta sino ad oggi un caso esemplare
nelle grandi imprese (sostanzialmente unico, ad eccezione della grande
distribuzione: le catene nazionali e internazionali di iper e supermercati,
come Auchan, Carrefour, Coop, Ikea, ecc.). Ancor più raro nell’insieme del
sistema produttivo. Il capitale italiano, infatti, preferisce procedere in
un quadro condiviso, considerato il permanere di un significativo tasso di
sindacalizzazione (superiore ad un terzo dei lavoratori e lavoratrici,
rispetto ad una media UE intorno al 20%, concentrato nelle medie e grandi
imprese); l’ancora maggior penetrazione dell’associazionismo
imprenditoriale; la significativa presenza di imprese private a
partecipazione pubblica (ENI, ENEL, Poste, ecc). Preferisce cioè imporre un
modello generale di relazioni sindacali, che le garantisca un certo
comando, invece di destrutturarlo nella scia di Marchionne e Sacconi.

A settembre sembrava arrivato questo momento. La chiusura delle
mobilitazioni contro il Jobs act (primavera 2015), lo spegnimento estivo
dell’imprevisto grande movimento della scuola, l’incapacità di rilanciare
una minima conflittualità persino sui contratti del pubblico impiego
(bloccati dal 2010), avevano infatti creato un evidente vuoto di iniziativa
sindacale. Un vuoto che permetteva quindi di rilanciare l’offensiva, grazie
all’assestamento politico del governo (dopo la relativa sconfitta
elettorale alle amministrative di giugno) e grazie alla stessa modifica dei
rapporti di forza tra le classi ottenuti nel corso dell’anno precedente
(crescita della rassegnazione nel mondo del lavoro). Come lo scorso autunno
(annuncio del Jobs Act), è quindi partita una manovra a tenaglia.
Renzi ha dato fuoco alle polveri con una campagna mediatica contro il
diritto di sciopero (vicenda del Colosseo), facendo circolare l’ipotesi di
un imminente normativa sul passaggio del diritto di sciopero da individuale
a collettivo (dichiarabile solo ed esclusivamente se una significativa
percentuale di dipendenti lo avessero approvato in uno specifico
referendum). Ed ha proseguito prospettando l’intervento del governo sul
modello contrattuale (anche di carattere legislativo), se non si fosse
realizzata una rapida convergenza delle parti sociali per estendere gli
accordi aziendali (in stile, appunto, Marchionne).
Il padronato (Confindustria) ha quindi colto l’occasione per proporre la
riduzione dei livelli contrattuali, da due (nazionale e di aziendale) ad
uno (nazionale o locale, a libera scelta): in pratica istituzionalizzando
le deroghe, con le grandi e le medie aziende che inevitabilmente si
sarebbero costruite il proprio personale quadro di riferimento, e le PMI
che avrebbero adottato un CCNL ridotto a quadro normativo e salariale
essenziale. Inoltre ha prospettato l’erogazione degli aumenti sotto forma
di welfare aziendale (assicurazione sanitarie e previdenziali, asili nido e
buoni pasti, ecc): elemento subito ripreso dal governo, che ha introdotto
nella Legge di stabilità la decontribuzione totale su questi elementi del
salario (nessuna tassazione!). In questo quadro, infine, Confindustria ha
annunciato l’intenzione di non rinnovare i contratti in scadenza (chimici,
metalmeccanici, alimentaristi, ecc) sino alla definizione di un nuovo
modello: una vera e propria dichiarazione di guerra, con l’intenzione di
chiudere l’offensiva prima possibile!

Con l’avanzare dell’autunno il quadro è però mutato. Un cambiamento
maturato nonostante il perdurare dello sbandamento sindacale, con la
convocazione di due passeggiate romane sostanzialmente fallimentari: il
corteo FIOM del 21 novembre - il meno partecipato della sua recente storia;
quello del 28 novembre dei pubblici e della scuola (CGIL-CISL-UIL), di poco
superiore a quello della FIOM e molto, molto, molto al di sotto dei
trentamila dichiarati dalle Confederazioni (un numero già molto basso per
il carattere del corteo e l’insieme di lavoratori e lavoratrici coinvolti).
Diversi i fattori che probabilmente hanno consigliato prudenza:
l’approfondimento degli squilibri economici mondiali (guerra monetaria,
rallentamento cinese, recessioni nei BRICS, ecc); la precipitazione dei
conflitti mediorientali (IS, Libia, attentati di Parigi); la crisi dei
profughi e della UE; le divisioni nel fronte padronale, tra settori in
difficoltà per la lunga depressione, interessati ad un rapido recupero dei
margini di profitto a spese del lavoro, e settori che stanno cavalcando il
ribasso dell’euro e quindi rilanciando volumi produttivi per
l’esportazione, preoccupati dal rischio di ripresa di una conflittualità
sociale e operaia; il rilancio politico delle altre due destre populiste
(Lega e M5S); la prospettiva di un nuovo e difficile voto amministrativo
per il PD (Roma, Milano, Napoli, ecc).
Governo e padronato, in ogni caso, hanno fatto un passo indietro. Le
dichiarazioni di Renzi sono sfumate nel tempo. Nel contempo, in 24 ore si è
firmato il rinnovo dei chimici (categoria di Squinzi, presidente di
Confindustria, con una consolidata tradizione concertativa): con un rapido
blitz è evaporata la minaccia di tener bloccati i contratti e nello stesso
tempo la proposta di un unico livello contrattuale. In cambio, CGIL CISL e
UIL hanno lasciato mano libera sui contratti di secondo livello:
bilateralità, welfare, flessibilità salariale in caso di crisi (riduzione
del costo del lavoro). La strategia padronale, cioè, è sembrata cambiare:
nel quadro di un ricostituito confronto sindacale, ci si proponeva di
ottenere il logoramento progressivo del contratto nazionale, attraverso uno
spostamento sul secondo livello degli aumenti salariali e di un pieno
controllo dell’organizzazione del lavoro.

CGIL CISL e UIL hanno registrato questo cambio di passo. Nel giro di pochi
mesi, hanno definito una propria proposta complessiva per un nuovo sistema
di relazioni industriali (documento del 14 di gennaio, approvato dagli
Esecutivi riuniti). Nel perenne inseguimento di un grande patto dei
produttori, hanno cioè pensato di stabilizzare questa fragile intesa
costruendo un modello contrattuale generale. Una doppia illusione: primo,
l’illusione di trovare un terreno di grande mediazione tra lavoro e
capitale in una fase depressiva (con una riduzione dei volumi produttivi,
del salario globale, dei diritti sociali); secondo, l’illusione di
tracciare una trincea, nel pieno di una grande crisi, senza difenderla nel
conflitto. CGIL CISL e UIL, infatti, hanno semplicemente pensato di
realizzare, come nei chimici, uno scambio.
Nel secondo livello, hanno pienamente assunto gli obbiettivi padronali.
Tali contratti, infatti, secondo il loro modello devono essere un “fattore
di competitività ed un volano di sviluppo economico”: devono garantire la
crescita della produttività, competitività, efficienza, qualità e
innovazione organizzativa. Cioè, la loro funzione è sostanzialmente quella
di garantire gli interessi dell’impresa. Di più: sul lato salariale, si
concede un ruolo rilevante al welfare contrattuale e anche la durata
quadriennale dei contratti (come una volta, certo, ma senza rinnovi
biennali: in pratica si stabilizza nel medio periodo il costo del lavoro,
con un conseguente contenimento degli stipendi). Non solo: si promette la
cogestione delle crisi (licenziamenti) e della formazione (riqualificazione
su obiettivi aziendali, ma nel quadro del fondo salariale dei lavoratori e
delle lavoratrici), arrivando persino a preludere ad una partecipazione
sindacale al capitale, in stile tedesco (comitati di gestione) o americano
(proprietà di quote azionarie). Il tutto certificato da un rilancio per via
legislativa del Testo unico del 10 gennaio: l’accordo sulla rappresentanza
che garantisce l’impossibilità di scioperare contro gli accordi, anche se
non li si condivide; la non agibilità sindacale e l’incandidabilità nelle
RSU se non si condivide questa regola; la disciplina delle RSU elette, pena
loro decadenza automatica. Essendo stato firmato oramai da due anni, e non
essendo mai entrato in funzione per le sue difficoltà di attuazione per via
pattizia, si garantisce sulla sua effettività, chiedendo tutti insieme di
introdurlo per Legge!
In concreto, questo documento delinea una capitolazione nei luoghi di
lavoro, soffocando di fatto l’indipendenza sindacale in quel contesto,
comprimendo cioè le possibilità di una sua azione autonoma dal capitale,
dagli interessi imprenditoriali dell’azienda. Nel contempo, traccia una
sottile trincea sul piano nazionale e generale: mantiene il CCNL ed un
ruolo del sindacato nella contrattazione nazionale del salario. Certo, i
contratti nazionali saranno fortemente ridotti nel numero, limitati ad un
“sistema generale di regole basilari”. Ma rimangono, con una “funzione di
primaria fonte normativa e di centro regolatore dei rapporti di lavoro”.
Inoltre, dovranno comprendere tutti i lavoratori e lavoratrici
(contrattazione inclusiva, eliminando sperequazioni tra le diverse
tipologie precarie e contrattuali presenti in uno stesso luogo di lavoro).
Soprattutto, questo sistema dovrà garantire una “crescita dei salari – non
solo riferita alla tutela del potere d’acquisto - che si rivolga alla
generalità delle lavoratrici e dei lavoratori”, conseguendo anche gli
obbiettivi macroeconomici del “rilancio della domanda interna e della
produttività”. A questo scopo, vengono indicati due indici di riferimento
(per i diversi livelli contrattuali): uno relativo alle dinamiche
macroeconomiche (PIL), uno agli andamenti settoriali. Inoltre, si prova a
utilizzare questo terreno, quello dei contratti, per tamponare gli elementi
più deleteri del Jobs Act: libertà di licenziamento, demansionamento e
telecontrollo. Si prospetta infatti di introdurre nei CCNL normative sui
licenziamenti disciplinari, “per aggiornarli secondo il principio della
proporzionalità tra mancanza e sanzione”; si ipotizza una regolamentazione
sulle mansioni; si propongono prassi condivise di utilizzo degli strumenti
tecnologici di controllo, “escludendo comunque l’utilizzo dei dati per fini
disciplinari”.
Un documento, quindi, che nella doppia illusione di una strategia
fallimentare (il grande accordo di fase con il capitale), introduce anche
alcuni aspetti che contraddicono governo e padronato, la loro ricerca di un
pieno controllo del salario e dell’organizzazione del lavoro. Questi
aspetti contraddittori presentano però un problema: la totale assenza di un
percorso di mobilitazione. Questo modello è pensato esclusivamente
nell’ottica di un rapido accordo con il padronato: non è una piattaforma
che identifica interessi, che delinea una strategia di difesa, che
costruisce una vertenza generale e nazionale. È semplicemente una proposta
di scambio, che decade nel momento stesso in cui è rifiutata. Questi
elementi contraddittori, cioè, sono solo dichiarazioni astratte di
principio. Al contrario, le concessioni agli interessi imprenditoriali (il
quadriennio, il welfare, la cogestione delle crisi, il Testo unico del 10
gennaio) diventano inevitabilmente il terreno da cui riparte l’ulteriore
sfondamento padronale.

Questa non è un’analisi astratta delle tattiche sindacali: è una cronaca
degli avvenimenti concreti. Appena CGIL CISL e UIL hanno varato il proprio
documento, Federmeccanica ha infatti aperto la propria offensiva. Fabio
Storchi, il suo presidente, anche nel quadro del prossimo rinnovo dei
vertici confindustriali, ha denunciato pubblicamente sia il contratto dei
chimici, sia il documento di CGIL CISL e UIL. Nella loro piattaforma il
CCNL è solo un quadro di riferimento vuoto, con la definizione di un
salario minimo di garanzia (un tetto minimo degli stipendi, comprensivo di
tutte le voci e di tutte le sue componenti ad ogni livello: in concreto
interessa solo il 5% dei lavoratori e delle lavoratrici della categoria);
gli aumenti si concentrano quindi solo sul secondo livello (comunque sulla
base di un tetto massimo nazionale, che non possa capitare di conquistare
qualcosa in più dove si ha maggior potere contrattuale!) e sostanzialmente
solo attraverso il welfare. Non a caso Sacconi gioisce, e indica questo
come il terreno concreto di costruzione del nuovo modello contrattuale.
Entro fine gennaio si esauriranno gli incontri con FIOM FIM e UILM e si
capirà la determinazione di Federmeccanica. In ogni caso, Confindustria ha
per il momento declinato (per l’ennesima volta) la proposta di patto dei
produttori di CGIL CISL e UIL. L’elezione del suo nuovo presidente a maggio
determinerà poi il suo futuro atteggiamento.

I contratti sono quindi il nuovo fronte su cui si stanno misurando i
rapporti tra le classi nel nostro paese.
A questo appuntamento la CGIL e la FIOM arrivano disarmati. La CGIL perché
tutta concentrata sull’unità ritrovata e sulla ricerca del "grande
accordo". La FIOM perché è al suo traino. Dopo aver deciso congiuntamente
di chiudere la battaglia sul Jobs Act, dopo aver passato l’estate a
litigare sulla coalizione sociale ed i futuri gruppi dirigenti confederali
(conferenza d’organizzazione), Landini e Camusso hanno trovato una nuova
intesa proprio sul modello contrattuale. La FIOM ha appoggiato il documento
di CGIL CISL e UIL. Di più: ha riagganciato convintamente FIM e UILM, nella
speranza che in quel quadro si potesse rapidamente chiudere il contratto
dei metalmeccanici. Su questa linea ha chiuso il Comitato Centrale dei
primi di gennaio reprimendo la minoranza interna (vicenda Destradis e
delegati/e FCA, di cui abbiamo dato notizia nei giorni scorsi) e
prospettato una rapida soluzione positiva sul fronte contrattuale. Anche la
FIOM, quindi, rimane senza nessuna prospettiva concreta di lotta,
leccandosi le ferite del fallito corteo di novembre e della sua difficile
situazione economico-organizzativa.
Questa è la grave responsabilità di questo gruppo dirigente. La ripresa del
conflitto, nella guerra di movimento fra classi che è determinata dalla
Grande Crisi, è essenziale. Loro ci hanno rinunciato. Chi si ferma, però,
sperando in una tregua o nel riposo della trincea, è rapidamente
accerchiato.

Il prossimo autunno si voterà il plebiscito costituzionale sul governo
Renzi. Se la svolta bonapartista sarà completata, la forza accumulata dal
governo sarà subito scagliata proprio contro lavoratori e lavoratrici,
contro i loro diritti, contro le loro organizzazioni. Riprendendo quel
programma antioperaio annunciato lo scorso settembre (normativa
antisciopero, sistema contrattuale per legge, ecc.). Questa battaglia
referendaria, quindi, non può e non deve avvenire nel vuoto delle lotte
sociali, nell’arretramento sul fronte contrattuale. Perché i due termini
della questione sono intrecciati: difesa democratica contro la svolta
bonapartista, difesa di classe contro lo sfondamento padronale sul salario
globale - diretto, indiretto e sociale. Per vincere in autunno sarà
necessario convincere milioni di lavoratori e lavoratrici ad andare a
votare, e votare no: contro una riforma costituzionale autoritaria, contro
un governo che difende esclusivamente gli interessi dei padroni. Per
reggere contro l’offensiva padronale, per difendere stipendi e diritti nei
luoghi di lavoro, per mantenere un reale contratto nazionale, è necessario
sconfiggere oggi Federmeccanica, ma domani anche Renzi, la sua torsione
autoritaria e la sue politiche padronali.
*Per entrambi questi obiettivi, allora, deve esser condotta oggi la lotta
dei lavoratrici e dei lavoratori. Su questo ci impegneremo come PCL, con le
nostre limitate forze. Nella minoranza della CGIL, della FIOM e nei
sindacati di base, dove militano i nostri compagni e le nostre compagne.
Sostenendo ogni lotta e ogni resistenza, nei territori e nei luoghi di
lavoro. Facendo appello a tutta la sinistra sociale, politica e sindacale,
perché su questi obbiettivi si mobiliti al più presto, costruendo un grande
fronte unico di resistenza, contro il governo e contro il padronato. *Partito
Comunista dei Lavoratori


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