<div dir="ltr"><h1 class=""><span style="color:rgb(204,0,0)">Il fronte dei contratti sullo sfondo del plebiscito d'autunno</span></h1><img src="cid:ii_ijt7oiby1_1527617f6d423248" height="245" width="471"><br><br><br>Lo scorso settembre, Renzi
e il padronato hanno provato a ridefinire le regole che determinano
salari e organizzazione del lavoro (turni, ritmi e tempi). Di fronte al
protrarsi della Grande Crisi, cioè, hanno sperato di generalizzare il
“modello Marchionne”, tentando così di rilanciare competitività e
esportazioni. Lo sganciamento della FCA (ex FIAT) dal contratto
nazionale di lavoro, infatti, nonostante l’articolo 8 del buon Sacconi
(Dgls 138 del 2011, la possibilità di derogare nei contratti aziendali
anche a norme di legge) è rimasta sino ad oggi un caso esemplare nelle
grandi imprese (sostanzialmente unico, ad eccezione della grande
distribuzione: le catene nazionali e internazionali di iper e
supermercati, come Auchan, Carrefour, Coop, Ikea, ecc.). Ancor più raro
nell’insieme del sistema produttivo. Il capitale italiano, infatti,
preferisce procedere in un quadro condiviso, considerato il permanere di
un significativo tasso di sindacalizzazione (superiore ad un terzo dei
lavoratori e lavoratrici, rispetto ad una media UE intorno al 20%,
concentrato nelle medie e grandi imprese); l’ancora maggior penetrazione
dell’associazionismo imprenditoriale; la significativa presenza di
imprese private a partecipazione pubblica (ENI, ENEL, Poste, ecc).
Preferisce cioè imporre un modello generale di relazioni sindacali, che
le garantisca un certo comando, invece di destrutturarlo nella scia di
Marchionne e Sacconi.
<br>
<br>A settembre sembrava arrivato questo momento. La chiusura delle
mobilitazioni contro il Jobs act (primavera 2015), lo spegnimento estivo
dell’imprevisto grande movimento della scuola, l’incapacità di
rilanciare una minima conflittualità persino sui contratti del pubblico
impiego (bloccati dal 2010), avevano infatti creato un evidente vuoto di
iniziativa sindacale. Un vuoto che permetteva quindi di rilanciare
l’offensiva, grazie all’assestamento politico del governo (dopo la
relativa sconfitta elettorale alle amministrative di giugno) e grazie
alla stessa modifica dei rapporti di forza tra le classi ottenuti nel
corso dell’anno precedente (crescita della rassegnazione nel mondo del
lavoro). Come lo scorso autunno (annuncio del Jobs Act), è quindi
partita una manovra a tenaglia.
<br>Renzi ha dato fuoco alle polveri con una campagna mediatica contro
il diritto di sciopero (vicenda del Colosseo), facendo circolare
l’ipotesi di un imminente normativa sul passaggio del diritto di
sciopero da individuale a collettivo (dichiarabile solo ed
esclusivamente se una significativa percentuale di dipendenti lo
avessero approvato in uno specifico referendum). Ed ha proseguito
prospettando l’intervento del governo sul modello contrattuale (anche di
carattere legislativo), se non si fosse realizzata una rapida
convergenza delle parti sociali per estendere gli accordi aziendali (in
stile, appunto, Marchionne).
<br>Il padronato (Confindustria) ha quindi colto l’occasione per
proporre la riduzione dei livelli contrattuali, da due (nazionale e di
aziendale) ad uno (nazionale o locale, a libera scelta): in pratica
istituzionalizzando le deroghe, con le grandi e le medie aziende che
inevitabilmente si sarebbero costruite il proprio personale quadro di
riferimento, e le PMI che avrebbero adottato un CCNL ridotto a quadro
normativo e salariale essenziale. Inoltre ha prospettato l’erogazione
degli aumenti sotto forma di welfare aziendale (assicurazione sanitarie e
previdenziali, asili nido e buoni pasti, ecc): elemento subito ripreso
dal governo, che ha introdotto nella Legge di stabilità la
decontribuzione totale su questi elementi del salario (nessuna
tassazione!). In questo quadro, infine, Confindustria ha annunciato
l’intenzione di non rinnovare i contratti in scadenza (chimici,
metalmeccanici, alimentaristi, ecc) sino alla definizione di un nuovo
modello: una vera e propria dichiarazione di guerra, con l’intenzione di
chiudere l’offensiva prima possibile!
<br>
<br>Con l’avanzare dell’autunno il quadro è però mutato. Un cambiamento
maturato nonostante il perdurare dello sbandamento sindacale, con la
convocazione di due passeggiate romane sostanzialmente fallimentari: il
corteo FIOM del 21 novembre - il meno partecipato della sua recente
storia; quello del 28 novembre dei pubblici e della scuola
(CGIL-CISL-UIL), di poco superiore a quello della FIOM e molto, molto,
molto al di sotto dei trentamila dichiarati dalle Confederazioni (un
numero già molto basso per il carattere del corteo e l’insieme di
lavoratori e lavoratrici coinvolti). Diversi i fattori che probabilmente
hanno consigliato prudenza: l’approfondimento degli squilibri economici
mondiali (guerra monetaria, rallentamento cinese, recessioni nei BRICS,
ecc); la precipitazione dei conflitti mediorientali (IS, Libia,
attentati di Parigi); la crisi dei profughi e della UE; le divisioni nel
fronte padronale, tra settori in difficoltà per la lunga depressione,
interessati ad un rapido recupero dei margini di profitto a spese del
lavoro, e settori che stanno cavalcando il ribasso dell’euro e quindi
rilanciando volumi produttivi per l’esportazione, preoccupati dal
rischio di ripresa di una conflittualità sociale e operaia; il rilancio
politico delle altre due destre populiste (Lega e M5S); la prospettiva
di un nuovo e difficile voto amministrativo per il PD (Roma, Milano,
Napoli, ecc).
<br>Governo e padronato, in ogni caso, hanno fatto un passo indietro. Le
dichiarazioni di Renzi sono sfumate nel tempo. Nel contempo, in 24 ore
si è firmato il rinnovo dei chimici (categoria di Squinzi, presidente di
Confindustria, con una consolidata tradizione concertativa): con un
rapido blitz è evaporata la minaccia di tener bloccati i contratti e
nello stesso tempo la proposta di un unico livello contrattuale. In
cambio, CGIL CISL e UIL hanno lasciato mano libera sui contratti di
secondo livello: bilateralità, welfare, flessibilità salariale in caso
di crisi (riduzione del costo del lavoro). La strategia padronale, cioè,
è sembrata cambiare: nel quadro di un ricostituito confronto sindacale,
ci si proponeva di ottenere il logoramento progressivo del contratto
nazionale, attraverso uno spostamento sul secondo livello degli aumenti
salariali e di un pieno controllo dell’organizzazione del lavoro.
<br>
<br>CGIL CISL e UIL hanno registrato questo cambio di passo. Nel giro di
pochi mesi, hanno definito una propria proposta complessiva per un
nuovo sistema di relazioni industriali (documento del 14 di gennaio,
approvato dagli Esecutivi riuniti). Nel perenne inseguimento di un
grande patto dei produttori, hanno cioè pensato di stabilizzare questa
fragile intesa costruendo un modello contrattuale generale. Una doppia
illusione: primo, l’illusione di trovare un terreno di grande mediazione
tra lavoro e capitale in una fase depressiva (con una riduzione dei
volumi produttivi, del salario globale, dei diritti sociali); secondo,
l’illusione di tracciare una trincea, nel pieno di una grande crisi,
senza difenderla nel conflitto. CGIL CISL e UIL, infatti, hanno
semplicemente pensato di realizzare, come nei chimici, uno scambio.
<br>Nel secondo livello, hanno pienamente assunto gli obbiettivi
padronali. Tali contratti, infatti, secondo il loro modello devono
essere un “fattore di competitività ed un volano di sviluppo economico”:
devono garantire la crescita della produttività, competitività,
efficienza, qualità e innovazione organizzativa. Cioè, la loro funzione è
sostanzialmente quella di garantire gli interessi dell’impresa. Di più:
sul lato salariale, si concede un ruolo rilevante al welfare
contrattuale e anche la durata quadriennale dei contratti (come una
volta, certo, ma senza rinnovi biennali: in pratica si stabilizza nel
medio periodo il costo del lavoro, con un conseguente contenimento degli
stipendi). Non solo: si promette la cogestione delle crisi
(licenziamenti) e della formazione (riqualificazione su obiettivi
aziendali, ma nel quadro del fondo salariale dei lavoratori e delle
lavoratrici), arrivando persino a preludere ad una partecipazione
sindacale al capitale, in stile tedesco (comitati di gestione) o
americano (proprietà di quote azionarie). Il tutto certificato da un
rilancio per via legislativa del Testo unico del 10 gennaio: l’accordo
sulla rappresentanza che garantisce l’impossibilità di scioperare contro
gli accordi, anche se non li si condivide; la non agibilità sindacale e
l’incandidabilità nelle RSU se non si condivide questa regola; la
disciplina delle RSU elette, pena loro decadenza automatica. Essendo
stato firmato oramai da due anni, e non essendo mai entrato in funzione
per le sue difficoltà di attuazione per via pattizia, si garantisce
sulla sua effettività, chiedendo tutti insieme di introdurlo per Legge!
<br>In concreto, questo documento delinea una capitolazione nei luoghi
di lavoro, soffocando di fatto l’indipendenza sindacale in quel
contesto, comprimendo cioè le possibilità di una sua azione autonoma dal
capitale, dagli interessi imprenditoriali dell’azienda. Nel contempo,
traccia una sottile trincea sul piano nazionale e generale: mantiene il
CCNL ed un ruolo del sindacato nella contrattazione nazionale del
salario. Certo, i contratti nazionali saranno fortemente ridotti nel
numero, limitati ad un “sistema generale di regole basilari”. Ma
rimangono, con una “funzione di primaria fonte normativa e di centro
regolatore dei rapporti di lavoro”. Inoltre, dovranno comprendere tutti i
lavoratori e lavoratrici (contrattazione inclusiva, eliminando
sperequazioni tra le diverse tipologie precarie e contrattuali presenti
in uno stesso luogo di lavoro). Soprattutto, questo sistema dovrà
garantire una “crescita dei salari – non solo riferita alla tutela del
potere d’acquisto - che si rivolga alla generalità delle lavoratrici e
dei lavoratori”, conseguendo anche gli obbiettivi macroeconomici del
“rilancio della domanda interna e della produttività”. A questo scopo,
vengono indicati due indici di riferimento (per i diversi livelli
contrattuali): uno relativo alle dinamiche macroeconomiche (PIL), uno
agli andamenti settoriali. Inoltre, si prova a utilizzare questo
terreno, quello dei contratti, per tamponare gli elementi più deleteri
del Jobs Act: libertà di licenziamento, demansionamento e telecontrollo.
Si prospetta infatti di introdurre nei CCNL normative sui licenziamenti
disciplinari, “per aggiornarli secondo il principio della
proporzionalità tra mancanza e sanzione”; si ipotizza una
regolamentazione sulle mansioni; si propongono prassi condivise di
utilizzo degli strumenti tecnologici di controllo, “escludendo comunque
l’utilizzo dei dati per fini disciplinari”.
<br>Un documento, quindi, che nella doppia illusione di una strategia
fallimentare (il grande accordo di fase con il capitale), introduce
anche alcuni aspetti che contraddicono governo e padronato, la loro
ricerca di un pieno controllo del salario e dell’organizzazione del
lavoro. Questi aspetti contraddittori presentano però un problema: la
totale assenza di un percorso di mobilitazione. Questo modello è pensato
esclusivamente nell’ottica di un rapido accordo con il padronato: non è
una piattaforma che identifica interessi, che delinea una strategia di
difesa, che costruisce una vertenza generale e nazionale. È
semplicemente una proposta di scambio, che decade nel momento stesso in
cui è rifiutata. Questi elementi contraddittori, cioè, sono solo
dichiarazioni astratte di principio. Al contrario, le concessioni agli
interessi imprenditoriali (il quadriennio, il welfare, la cogestione
delle crisi, il Testo unico del 10 gennaio) diventano inevitabilmente il
terreno da cui riparte l’ulteriore sfondamento padronale.
<br>
<br>Questa non è un’analisi astratta delle tattiche sindacali: è una
cronaca degli avvenimenti concreti. Appena CGIL CISL e UIL hanno varato
il proprio documento, Federmeccanica ha infatti aperto la propria
offensiva. Fabio Storchi, il suo presidente, anche nel quadro del
prossimo rinnovo dei vertici confindustriali, ha denunciato
pubblicamente sia il contratto dei chimici, sia il documento di CGIL
CISL e UIL. Nella loro piattaforma il CCNL è solo un quadro di
riferimento vuoto, con la definizione di un salario minimo di garanzia
(un tetto minimo degli stipendi, comprensivo di tutte le voci e di tutte
le sue componenti ad ogni livello: in concreto interessa solo il 5% dei
lavoratori e delle lavoratrici della categoria); gli aumenti si
concentrano quindi solo sul secondo livello (comunque sulla base di un
tetto massimo nazionale, che non possa capitare di conquistare qualcosa
in più dove si ha maggior potere contrattuale!) e sostanzialmente solo
attraverso il welfare. Non a caso Sacconi gioisce, e indica questo come
il terreno concreto di costruzione del nuovo modello contrattuale. Entro
fine gennaio si esauriranno gli incontri con FIOM FIM e UILM e si
capirà la determinazione di Federmeccanica. In ogni caso, Confindustria
ha per il momento declinato (per l’ennesima volta) la proposta di patto
dei produttori di CGIL CISL e UIL. L’elezione del suo nuovo presidente a
maggio determinerà poi il suo futuro atteggiamento.
<br>
<br>I contratti sono quindi il nuovo fronte su cui si stanno misurando i rapporti tra le classi nel nostro paese.
<br>A questo appuntamento la CGIL e la FIOM arrivano disarmati. La CGIL
perché tutta concentrata sull’unità ritrovata e sulla ricerca del
"grande accordo". La FIOM perché è al suo traino. Dopo aver deciso
congiuntamente di chiudere la battaglia sul Jobs Act, dopo aver passato
l’estate a litigare sulla coalizione sociale ed i futuri gruppi
dirigenti confederali (conferenza d’organizzazione), Landini e Camusso
hanno trovato una nuova intesa proprio sul modello contrattuale. La FIOM
ha appoggiato il documento di CGIL CISL e UIL. Di più: ha riagganciato
convintamente FIM e UILM, nella speranza che in quel quadro si potesse
rapidamente chiudere il contratto dei metalmeccanici. Su questa linea ha
chiuso il Comitato Centrale dei primi di gennaio reprimendo la
minoranza interna (vicenda Destradis e delegati/e FCA, di cui abbiamo
dato notizia nei giorni scorsi) e prospettato una rapida soluzione
positiva sul fronte contrattuale. Anche la FIOM, quindi, rimane senza
nessuna prospettiva concreta di lotta, leccandosi le ferite del fallito
corteo di novembre e della sua difficile situazione
economico-organizzativa.
<br>Questa è la grave responsabilità di questo gruppo dirigente. La
ripresa del conflitto, nella guerra di movimento fra classi che è
determinata dalla Grande Crisi, è essenziale. Loro ci hanno rinunciato.
Chi si ferma, però, sperando in una tregua o nel riposo della trincea, è
rapidamente accerchiato.
<br>
<br>Il prossimo autunno si voterà il plebiscito costituzionale sul
governo Renzi. Se la svolta bonapartista sarà completata, la forza
accumulata dal governo sarà subito scagliata proprio contro lavoratori e
lavoratrici, contro i loro diritti, contro le loro organizzazioni.
Riprendendo quel programma antioperaio annunciato lo scorso settembre
(normativa antisciopero, sistema contrattuale per legge, ecc.). Questa
battaglia referendaria, quindi, non può e non deve avvenire nel vuoto
delle lotte sociali, nell’arretramento sul fronte contrattuale. Perché i
due termini della questione sono intrecciati: difesa democratica contro
la svolta bonapartista, difesa di classe contro lo sfondamento
padronale sul salario globale - diretto, indiretto e sociale. Per
vincere in autunno sarà necessario convincere milioni di lavoratori e
lavoratrici ad andare a votare, e votare no: contro una riforma
costituzionale autoritaria, contro un governo che difende esclusivamente
gli interessi dei padroni. Per reggere contro l’offensiva padronale,
per difendere stipendi e diritti nei luoghi di lavoro, per mantenere un
reale contratto nazionale, è necessario sconfiggere oggi Federmeccanica,
ma domani anche Renzi, la sua torsione autoritaria e la sue politiche
padronali.
<br><b>Per entrambi questi obiettivi, allora, deve esser condotta oggi la
lotta dei lavoratrici e dei lavoratori. Su questo ci impegneremo come
PCL, con le nostre limitate forze. Nella minoranza della CGIL, della
FIOM e nei sindacati di base, dove militano i nostri compagni e le
nostre compagne. Sostenendo ogni lotta e ogni resistenza, nei territori e
nei luoghi di lavoro. Facendo appello a tutta la sinistra sociale,
politica e sindacale, perché su questi obbiettivi si mobiliti al più
presto, costruendo un grande fronte unico di resistenza, contro il
governo e contro il padronato.
</b><h5 class=""><span style="color:rgb(255,0,0)"><font size="4">Partito Comunista dei Lavoratori</font></span></h5><p><img style="margin-right: 0px;" src="cid:ii_ijt7pbtm2_15276188c254e6f9" height="141" width="141"><br></p><p><a href="http://www.pclavoratori.it">www.pclavoratori.it</a> - <a href="mailto:info@pclavoratori.it">info@pclavoratori.it</a><br></p><p><br></p><br></div>