[Redditolavoro] TERNI UNA DELLE 13 STAZIONI DEL CALVARIO DEL “CARCERE DURO”

clochard spartacok at alice.it
Sat Jun 26 23:03:13 CEST 2010


Ovviamente, i radicali leggono le cose dal loro punto di vista, interclassista, disancorato dal sistema socio-economico, fiduciosi nella possibilità di ripristinare lo stato di diritto ecc. Malgrado tutto ciò, risultano simpatici e dalla parte giusta quando intervengono su questi temi.
Ciao

e




TERNI UNA DELLE 13 STAZIONI DEL CALVARIO DEL “CARCERE DURO” 


Il carcere di Terni è il più piccolo e colorato del circuito penale riservato ai detenuti “speciali”. Detenuti “normali”, strappati all’ozio quotidiano, hanno dipinto di tutto, muri di divisione tra un reparto e l’altro, corridoi di passaggio, blocchi grigi di cemento armato. Sulle pareti del corridoio che dalla matricola porta all’interno del carcere sono raffigurati da una parte un’isola tropicale e dall’altra un paesaggio sottomarino. Il colore è arrivato fin dentro la sezione dei 41 bis con figure geometriche che corrono lungo le pareti sotto il soffitto dell’unico piano, stretto e basso come un sommergibile, dove un tempo sorgeva la sezione femminile. All’ingresso c’era una volta anche un grande albero di mimosa, che è subito morto quando la sezione femminile è stata chiusa per essere ristrutturata come carcere di massima sicurezza. Terni è una delle tredici stazioni del calvario del “carcere duro”, dove un appartenente alla specialissima comunità del 41 bis può capitare ancora di fermarsi. È lì che ho visto la prima volta Vincenzo Stranieri. Era l’estate del 2002. Io e Maurizio Turco esploravamo le piste di un circuito allora sconosciuto, un circuito che avremmo scoperto un po’ alla volta. Una sorta di segreto di Stato copriva la materia: né il Ministero della Giustizia né il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avevano voluto – “per motivi di sicurezza” – rivelarci dove erano state allestite le sezioni per detenuti sottoposti all’articolo 41 bis. Sapevamo solo che il Direttore del Dap Tinebra aveva detto in Parlamento: “Mai al di sotto di Secondigliano“. Se i detenuti pericolosi erano al 90 per cento originari di luoghi sotto Secondigliano, era giusto che le sezioni speciali dove rinchiuderli fossero tutte al di sopra. Per noi era comunque un riferimento e poteva essere il punto di partenza del nostro viaggio all’inferno, perché gli stessi detenuti che avremmo incontrato nel corso delle visite ci avrebbero via via aiutati a completare la mappa e a conoscere la realtà della detenzione speciale in Italia (da quel giro di visite ispettive è nato poi il libro-inchiesta Tortura Democratica). Un’operazione “pericolosa”, perché svelando le carceri del 41 bis – ci aveva ammonito il DAP – avremmo messo in pericolo la sicurezza pubblica. Alla fine del viaggio contammo tredici sezioni del 41 bis, compreso il reparto del Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di Pisa dove erano ricoverati detenuti malati a cui non restava molto da vivere. Solo dopo la pubblicazione del libro avremmo scoperto che, in realtà, le sezioni del circuito speciale erano quattordici. Nel carcere di Belluno era stata allestita una singolarissima sezione destinata a ospitare un singolarissimo detenuto sottoposto a una singolarissima versione del 41 bis: l’ex boss della camorra Raffaele Cutolo, ristretto lì da chissà quanto tempo, dimenticato da Dio e dagli uomini. “Ristretto” per modo di dire, considerato lo spazio a disposizione e il trattamento davvero “speciale” che gli avevano riservato. Comunque, dopo la nostra visita, quel supercarcere per un uomo solo è stato chiuso, e il detenuto trasferito altrove. Nell’inferno del carcere duro esiste un girone più infernale degli altri che va sotto il nome di Area Riservata. Consiste di due o tre celle allestite in una piccolissima sezione dislocata lontano da quella “normale” del 41 bis, di solito al piano terra e nella parte meno areata e illuminata della prigione. Il “passeggio” di questi detenuti più “speciali” degli altri è una sorta di gabbia di cemento armato di due metri per cinque, alta tre metri e coperta in cima da una pesante rete metallica a maglie molto strette. Aree Riservate a chi? A una dozzina di prigionieri “eccellenti” del calibro di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola… e a pochi altri malcapitati, detenuti dallo scarso rilievo criminale che dopo lunga e accurata selezione sono stati destinati dal Dap a fare compagnia ai “capi di Cosa Nostra” da quando i giudici costituzionali hanno riconosciuto anche a loro il diritto all’aria in comune e alla socialità. Il caso di Salvatore Savarese è clamoroso. Una storia infinita di entra-ed-esci molto comune per i piccoli camorristi: Savarese era stato messo nell’Area Riservata di Marino del Tronto insieme a Totò Riina nell’aprile del 2001, proveniente dal carcere di Trani dove era detenuto (non in 41 bis) dal ‘99 per un residuo pena di tre anni. Quando l’ho incontrato aveva praticamente finito di scontare la pena e non si capacitava del fatto che uno come lui, il carcerato forse meno pericoloso d’Italia, fosse stato messo insieme al pericolo pubblico numero uno in un isolamento pressoché totale e alle condizioni più severe del carcere duro mai riservate a un detenuto italiano. A fare l’ora d’aria nel box di cemento con la rete sopra non ci andava mai e nemmeno a fare socialità nella cella del “capo” di Cosa Nostra, “perché con tutte quelle telecamere era come andare nella casa del Grande Fratello“. Al momento della nostra visita, il carcere di Terni non aveva l’Area Riservata e Vincenzo Stranieri faceva l’ora d’aria con un gruppo di sei detenuti (oggi possono essere al massimo cinque), in un passeggio di 10 metri per 20, con muri di cemento e, sopra, la solita rete a chiudere i detenuti come in un pollaio. Alla finestra della cella, oltre alla fila di sbarre c’era anche una rete, e un’altra rete anche alle sbarre del cancello. Quando si trovava a Cuneo era peggio, perché lì gli sbarramenti alle finestre del 41 bis erano quattro: una prima fila di sbarre vere e proprie, poi una seconda fila sempre di sbarre, ancora una rete metallica a maglie molto fitte e, infine, un pannello di plastica opaca attaccato alla finestra dall’esterno. Questo pannello, che fa passare poca aria e poca luce e di cui ho visto in altre sezioni varianti realizzate con fasce di ferro o di vetro applicate una sopra l’altra a formare una sorta di tapparella leggermente inclinata in alto e verso l’esterno, è detto “gelosia”. Non so da dove derivi il nome, ma il concetto mi sembra quello di modi e tempi passati, come quando si pensava di difendere l’onore familiare con la cintura di castità o di garantire la sicurezza sociale con le finestre a “bocca di lupo”. Marchingegni e sistemi medioevali che sopravvivono oggi solo in quei “monumenti” della lotta alla mafia che sono le sezioni del 41 bis, anche se non hanno nessun serio senso pratico, che voglia essere di sicurezza o di deterrenza, di contrasto alla mafia o di legittima difesa, ma solo il valore simbolico ed effettivo di una ordinaria e continua afflizione. 

Avere un solo colloquio al mese, due ore d’aria al giorno, al massimo due pacchi di viveri ogni trenta giorni, il fornellino solo per scaldare vivande e non per cucinarle… quale ragione ha ai fini della sicurezza? Il concetto di sicurezza è poi così aleatorio che varia da sezione a sezione, a discrezione del direttore che stabilisce che cosa entra o non entra nel “suo” carcere. Tempo fa, ad esempio, a Spoleto erano pericolosi i fagioli, a Terni i sigari anche se fumati all’aria, a Parma le uova e le banane “altrimenti i detenuti si fumano le bucce“. All’Aquila era consentito un giaccone imbottito da indossare durante l’inverno, un “privilegio” negato ai detenuti di Viterbo e di Novara. Da una parte i libri non contano nei dieci chili mensili di pacchi della famiglia, da un’altra parte fanno peso. Il walkman per studiare le lingue è consentito in una sezione e vietato in un’altra, mentre l’uso del computer per chi studia informatica è interdetto dappertutto. Che cosa c’entra con la lotta alla mafia il fatto che i detenuti in 41 bis non possano lavorare né frequentare corsi scolastici? Possono studiare solo da autodidatti, senza l’ausilio di insegnanti o professori. Ciò nonostante, non sono pochi quelli che sono riusciti a laurearsi o a scrivere libri come Vincenzo Stranieri. Per alcuni, è stato un modo di espiare la pena senza perdere il lume della ragione, per altri un tentativo di “evadere”… una pratica ai limiti della tortura. Innocenti evasioni, ma anche una dimostrazione che il carcere, che per molti si rivela essere l’università del delitto, per alcuni può essere università vera e occasione di un autentico riscatto. Sui laureati al “carcere duro” non esistono notizie e dati ufficiali, ma di molti casi posso parlare per conoscenza diretta. Nell’estate del 2002, durante il giro cella-a-cella nelle sezioni del 41 bis, li avevo visti curvi sui libri e alle soglie della laurea. Alcuni li ho scoperti o rivisti dopo con qualche segno dell’età in più e un “pezzo di carta” in tasca. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ritenuti ancora i potenti boss del quartiere Brancaccio di Palermo, in attesa del “fine pena: mai” si sono laureati, il primo in biologia molecolare, il secondo in matematica. Pietro Aglieri, l’ex capo del mandamento di Santa Maria del Gesù, si è laureato in Storia della Chiesa. Antonino Mangano, nonostante i suoi quindici anni di “carcere duro”, un carcinoma al rene e vari cicli di chemioterapia, ha trovato l’entusiasmo per studiare e laurearsi in Lettere e Filosofia. Guerino Avignone aveva fatto undici esami quand’era fuori alla Facoltà di Economia e Commercio e gli altri li ha finiti dentro senza computer e calcolatrice, vietati al 41 bis. Carlo Marchese, un palermitano affiliato alla stidda nissena, aveva ripreso gli studi dopo essere finito nel circuito speciale con l’ergastolo e ne è uscito laureato in giurisprudenza con centodieci e lode. Anche Giuseppe Gullotti si è laureato in giurisprudenza dopo sette anni di “carcere duro” e una tesi proprio sull’art. 41 bis della legge penitenziaria. Antonio Libri si è laureato in sociologia, come pure Ferdinando Cesarano che ha superato gli esami previsti dal programma, i primi di nascosto e sotto stretta sorveglianza svolti in facoltà, gli altri in carcere in videoconferenza. Anche Salvatore Benigno si è laureato in videoconferenza: per la discussione della tesi in Ortopedia undici professori della Facoltà di Medicina si sono spostati nell’aula-bunker del tribunale di Palermo, dove il detenuto è apparso attraverso un monitor dal supercarcere dell’Aquila. Esperti di mafia e di galere sono convinti che questi detenuti non abbiano cambiato mentalità. Se la materia preferita è Legge è perché “vogliono capire dov’è che hanno sbagliato” oppure perché “sperano di uscire un giorno e, grazie a una più accurata conoscenza dei codici, evitare di finire di nuovo dentro”. In carcere non si considera mai la possibilità che un detenuto cambi registro, si sospetta sempre che pensi solo a come farla franca, e per ciò simula buona condotta. Nel nostro giro cella-a-cella del 41 bis abbiamo incontrato e parlato con circa 640 detenuti. A ognuno di loro abbiamo dedicato mediamente dieci minuti della nostra visita. Vincenzo Stranieri deve essere stato di poche parole se di quell’incontro sette anni fa, a Terni, ho potuto annotare soltanto che aveva 42 anni ed era in 41 bis dal luglio 1992, cioè da quando il “carcere duro” è stato istituito, come risposta dello Stato alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove furono massacrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel giro di una notte, circa trecento ‘mafiosi’ furono trasferiti a Pianosa e all’Asinara così come li avevano sorpresi dall’Ucciardone e in altre carceri: in pigiama, in mutande e in ciabatte. Il Ministero di Grazia e Giustizia non ha mai spiegato i criteri in base ai quali furono compilate le liste dei detenuti da trasferire sulle isole. È facile immaginare che nella fretta di dare una risposta – di dare comunque una risposta – alle stragi mafiose, la Direzione Generale delle prigioni non abbia avuto il tempo di esaminare i fascicoli, le sentenze, i mandati di cattura, il grado di pericolosità dei detenuti, al fine di decidere chi di loro veramente meritasse il girone infernale della massima sicurezza. Sta di fatto che finirono al carcere duro detenuti della più varia estrazione e pericolosità sociale: incensurati e pregiudicati, indagati e rinviati a giudizio, ammessi ai benefici penitenziari ed ergastolani, addirittura persone a piede libero che si erano consegnate alle autorità appena il processo era passato in giudicato. Quasi tutti quelli che hanno avuto la sfortuna di finire in quella prima e sommariamente compilata lista di 17 anni fa, poi ci sono rimasti perché dal 41 bis si esce “solo nei casi in cui i detenuti collaborano con la giustizia“, come prevede la norma penitenziaria speciale che “legalizza” una pratica che da noi si chiama “carcere duro” ma nel diritto internazionale si configura come tortura. E sono “tortura” non solo “dolore o sofferenze forti”, quali pure sono stati inflitti all’inizio a mafiosi veri e presunti deportati all’Asinara e a Pianosa, ma anche le “pressioni” che in particolari condizioni di detenzione si esercitano nei confronti di detenuti fatti oggetto di visite in cella eufemisticamente definite “colloqui investigativi”. 

I racconti e i ricordi di Vincenzo Stranieri pubblicati in questo libro sono la più gratuita, unilaterale, disinteressata e, perciò, autentica dichiarazione di dissociazione dal suo passato. Però la semplice dissociazione non basta per venire fuori dal 41 bis, come dimostrano i casi di molti detenuti che – come il boss di Manduria – hanno rotto con il loro passato senza fare proclami o fare i pentiti. Per uscire dal carcere duro occorre “la dissociazione a rischio della vita“, come è scritto nei decreti ministeriali di assegnazione al 41 bis. “Non risulta avere dato segni di ravvedimento o manifestato volontà di collaborare con la giustizia“, è scritto nelle “note informative” degli organi giudiziari e investigativi che si ripetono come fotocopie di decreto in decreto. Queste note dovrebbero provare l’attualità e la concretezza della pericolosità sociale del detenuto ma, spesso, spuntano fuori da archivi polverosi e ormai datati di polizia e procuratori, e valgono molto di più della più recente sentenza di Corte di Assise. Porre l’aggressore in condizioni di non nuocere, di non minacciare più la nostra vita, la nostra sicurezza, è un obiettivo prioritario per tutti. Ma dopo aver visitato le sezioni di massima sicurezza e conosciuto il vissuto della comunità del 41 bis reale, mi chiedo se lo Stato italiano stia realizzando davvero questo obiettivo o non stia piuttosto vendicandosi di fatti orribili come quelli di Capaci e Via D’Amelio. Il vetro divisorio delle sale colloqui è la parte per il tutto di questo sistema spietato. Quel vetro mostra e nasconde anche il paradosso, la propaganda e la realtà del regime speciale. Fatto apposta per interrompere i collegamenti dei mafiosi con l’esterno, il 41 bis è stato reiterato per cinque, dieci, quindici, diciotto anni (chi è entrato nel ‘92 e da allora non è più uscito, si è visto prorogare la misura 30 volte!), perché permanevano ancora i collegamenti con l’esterno. Si vuole dare a intendere all’opinione pubblica che in questo modo, come ha detto un Ministro dell’Interno, “è stata calata una saracinesca” tra la mafia dentro e quella fuori. Se l’obiettivo fosse davvero quello di combattere la mafia, il vetro divisorio verrebbe eliminato all’istante. E li si farebbe comunicare, i “mafiosi” dentro con quelli fuori: sarebbero colloqui “interessanti” per chi davvero volesse investigare per prevenire reati o smantellare traffici criminali. Nei decreti ministeriali di assegnazione al 41 bis i familiari e le loro visite sono chiaramente indicati come la fonte principale del pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ma quel vetro blindato è in realtà il vetro dello scandalo di un’Antimafia retorica e crudele. Se rimane ancora lì non è per impedire i collegamenti con l’esterno, ma per distruggere definitivamente quel che resta di rapporti e affetti familiari. Padri, madri, mogli e figli – che già devono fare mille chilometri di viaggio per andare a visitare una volta al mese il parente detenuto – fanno poi un’ora di colloquio via citofono in una sorta di acquario sotto una telecamera. “È la morte bianca. Siamo dei sepolti vivi“, mi ha detto un detenuto. “In questo cimitero chiamato 41 bis hanno costruito una lapide di vetro attraverso la quale i nostri cari vengono ogni tanto a vederci e a piangere la nostra scomparsa.” “Se vuoi conoscere davvero un Paese, visitane le prigioni“, ammoniva Voltaire. Un giretto nelle sezioni del 41 bis può essere sicuramente più istruttivo del più documentato e radicale saggio sullo Stato di non-Diritto e non-Democrazia che connota – da sessant’anni – il regime italiano. L’ultimo giro di vite al meccanismo del “carcere duro” è stato imposto a luglio del 2009 con la norma del “pacchetto sicurezza” che riduce a tre – e della durata massima di un’ora ciascuno – i colloqui mensili con i difensori. Considerato che i detenuti in 41 bis provengono quasi tutti dal meridione e sono seguiti da avvocati meridionali, e considerato che le sezioni del carcere duro si trovano, invece, quasi tutte al Nord, alla fine, per fare tre ore di colloquio ci vogliono tre giorni, oltre a quelli che occorrono per il viaggio. Il diritto alla difesa dei detenuti in 41 bis è sempre stato un principio raro, che è diventato del tutto inesistente da quando i processi si fanno in videoconferenza: giudici e accusatori da una parte, in un’aula di tribunale, imputati da tutta un’altra parte, in una saletta del 41 bis davanti a un monitor, un microfono e una telecamera. Come nei film americani il rito è quello accusatorio: accusa e difesa sulla stessa panca, testimoni interrogati e controinterrogati, anche se la giuria popolare non è proprio come quella americana… è bellissimo! Se non fosse, però, che al 41 bis il protagonista del “film”, che rischia la pena di morte civile, non è in Corte d’Assise, ma in una cella di massima sicurezza a seguire il suo caso in televisione. È un processo virtuale, alla fine del quale la pena è comminata non all’imputato ma ad un telespettatore. A ben vedere, quelli del 41 bis sono prigionieri, non in un circuito differenziato, ma di un circolo vizioso, perfetto per chi accusa e inesorabile con chi si deve difendere. Il meccanismo è tipico dei sistemi autoreferenziali (e auto legittimanti): sei un presunto mafioso e quindi vai in 41 bis; in 41 bis il processo lo fai non in aula ma in videoconferenza; con le videoconferenze è impossibile difendersi e vieni condannato; una volta condannato sei un mafioso a tutti gli effetti. E quindi rimani in 41 bis. Cataldo Terminio, detenuto dal ‘92 e al “carcere duro” dal ‘98, prima del 41 bis aveva vinto molti processi, poi con le videoconferenze ha cominciato a perderli. “Non riesco a far fare al mio avvocato una domanda a chi mi accusa che il pentito se ne è già andato“, mi ha detto. “Il 41 bis serve a produrre pentiti da cui poi non ci si può difendere per via delle videoconferenze“. Antonio Cordì, detenuto in 41 bis dal ‘99 e condannato all’ergastolo, mi aveva raccontato: “Alla fine del processo di primo grado ho aspettato che il presidente mi desse la parola. Non lo ha fatto e allora l’ho chiesta io; l’ufficiale di Polizia Giudiziaria che era con me nella saletta mi ha detto che quando la corte sarebbe rientrata mi avrebbero fatto parlare; ha telefonato al cancelliere d’aula ma i giudici si erano già ritirati in camera di consiglio e ne sono usciti con la sentenza. Tenuto conto che non sono mai stato interrogato in tutte le fasi del processo, non ho potuto rendere neanche le mie dichiarazioni finali!“. 

Antonio Cordì non ha fatto in tempo a espiare granché del suo “fine pena: mai”, perché è morto prematuramente nell’agosto del 2007. Non so se poteva essere salvato, un anno e mezzo prima, quando gli fu diagnosticato un tumore al polmone. So solo che quando c’era la speranza di salvarlo non è stato curato. Quando è stato ricoverato era in condizioni talmente gravi da non poter essere operato. Quando è diventato un malato terminale è rimasto sempre un carcerato… perché la morte era prevista “a breve termine” e non “nell’immediato”, come ha scritto un magistrato di sorveglianza di Napoli. Ero parlamentare e feci di tutto per evitare che Antonio Cordì morisse da solo, come un cane, al 41 bis. Non si trattava più di salvare una vita, ma di salvare il salvabile, rendere meno infame l’irreparabile: consegnarlo all’affetto dei suoi cari per i giorni che gli erano rimasti. Quando Clemente Mastella gli revocò il “carcere duro” e il magistrato si decise a sospendere la pena, fu restituito alla famiglia un uomo quasi morto. Infatti morì poche ore dopo l’arrivo a Locri, a casa sua – meno male – e non in una cella del 41 bis. Quello di Cordì non è un caso isolato. In Tortura Democratica abbiamo documentato storie di detenuti infartuati, colpiti da ictus, malati di cancro, paralizzati o costretti sulla sedia a rotelle. Alcuni sono poi morti in cella, o in ospedale, o a casa loro, dove erano stati mandati a finire gli ultimi giorni di vita. Chissà quanti potevano essere salvati se il male fosse stato preso in tempo o se fossero stati curati come si deve. Il fatto è che dal 41 bis si può uscire solo in due modi: o da “infami” o da morti. Non so quanti “pentiti” ha prodotto il 41 bis, so solo che in questi 18 anni di “carcere duro” quelli che ne sono usciti – come si suol dire – coi piedi davanti, morti di infarto, di cancro, di ictus o suicidi, non sono stati pochi. Il 18 maggio scorso, nel corso della festa del corpo di polizia penitenziaria, il ministro della giustizia Angelino Alfano ha celebrato il netto aumento dei detenuti sottoposti al regime di carcere duro. Nel 2008, quando si insediò l’attuale governo, erano 564, lo scorso anno 616, oggi sono 671, di cui 3 donne: 576 appartengono ad associazioni a delinquere di stampo mafioso e, tra questi, 258 sono gli affiliati alla Camorra e 209 a Cosa Nostra. Ovviamente, è tutto merito del “governo”, ma anche la “opposizione” plaude a questo sistema di “lotta alla mafia”.  Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciotto anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto. Già sento l’eco della Grande Obiezione: va bene “nessuno tocchi Caino” ma chi difende Abele? Chi pensa ai parenti delle vittime alle quali sono stati negati i più elementari diritti umani, ai magistrati e ai poliziotti di scorta massacrati, ai sequestrati tenuti prigionieri in un buca nel terreno, al bambino sciolto nell’acido? Chi li difende, chi ci pensa…Non capisco l’obiezione. Il nostro “Nessuno tocchi Caino” è un monito: non mette in discussione la “profondità del male” inflitto da chi attenta alla vita “innocente”, ma solo ricorda e mette in guardia dalla banalità del male di una risposta uguale (giusta) e contraria, che consideri la vita “colpevole”, dannata per sempre. In discussione non è chi siano loro, i “colpevoli”, cosa abbiano fatto o cosa potranno ancora fare. In discussione siamo noi “innocenti”, noi Stato, noi società civile: chi siamo e come ci comportiamo, che cosa rischiamo di divenire se neghiamo loro quei diritti umani fondamentali che loro hanno negato alle proprie vittime. È proprio di fronte a casi estremi di emergenza ed efferatezza che si misura la forza di uno Stato. E la forza sta innanzitutto nel Diritto, che è il limite invalicabile che stabiliamo di porre a noi stessi e alla nostra sacrosanta istanza di rivalsa e legittima difesa, ma è anche la distanza irriducibile che decidiamo di mettere tra noi e chi attenta alla nostra vita e alla nostra sicurezza. Limite e distanza che fanno la differenza, costituiscono la cifra della nostra umanità e della nostra civiltà. 

Sergio D’Elia 




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