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<BODY bgColor=#ffffff>
<DIV>Ovviamente, i radicali leggono le cose dal loro punto di vista,
interclassista, disancorato dal sistema socio-economico, fiduciosi nella
possibilità di ripristinare lo stato di diritto ecc. Malgrado tutto ciò,
risultano simpatici e dalla parte giusta quando intervengono su questi
temi.</DIV>
<DIV>Ciao</DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV>e</DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV>TERNI UNA DELLE 13 STAZIONI DEL CALVARIO DEL “CARCERE DURO”
<DIV class=meta> </DIV>
<DIV class=entry>
<P><STRONG><A
href="http://www.ternimagazine.it/23296/giustizia/intervniene-lassociazione-nessuno-tocchi-cainoterni-una-delle-13-stazioni-del-calvario-del-carcere-duro.html/attachment/platos_cave_b"
rel="attachment wp-att-23297"></A></STRONG></P>
<P><SPAN><STRONG>Il carcere di Terni</STRONG> è il più piccolo e colorato del
circuito penale riservato ai detenuti “speciali”. Detenuti “normali”, strappati
all’ozio quotidiano, hanno dipinto di tutto, muri di divisione tra un reparto e
l’altro, corridoi di passaggio, blocchi grigi di cemento armato. Sulle pareti
del corridoio che dalla matricola porta all’interno del carcere sono raffigurati
da una parte un’isola tropicale e dall’altra un paesaggio sottomarino. Il colore
è arrivato fin dentro la sezione dei 41 bis con figure geometriche che corrono
lungo le pareti sotto il soffitto dell’unico piano, stretto e basso come un
sommergibile, dove un tempo sorgeva la sezione femminile. All’ingresso c’era una
volta anche un grande albero di mimosa, che è subito morto quando la sezione
femminile è stata chiusa per essere ristrutturata come carcere di massima
sicurezza. Terni è una delle tredici stazioni del calvario del “carcere duro”,
dove un appartenente alla specialissima comunità del 41 bis può capitare ancora
di fermarsi. È lì che ho visto la prima volta Vincenzo Stranieri. <STRONG>Era
l’estate del 2002</STRONG>. Io e Maurizio Turco esploravamo le piste di un
circuito allora sconosciuto, un circuito che avremmo scoperto un po’ alla volta.
Una sorta di segreto di Stato copriva la materia: né il Ministero della
Giustizia né il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avevano voluto –
“per motivi di sicurezza” – rivelarci <STRONG>dove erano state allestite le
sezioni per detenuti sottoposti all’articolo 41 bis.</STRONG> Sapevamo solo che
il Direttore del Dap Tinebra aveva detto in Parlamento: “<EM>Mai al di sotto di
Secondigliano</EM>“. Se i detenuti pericolosi erano al 90 per cento originari di
luoghi sotto Secondigliano, era giusto che le sezioni speciali dove rinchiuderli
fossero tutte al di sopra. Per noi era comunque un riferimento e poteva essere
il punto di partenza del nostro viaggio all’inferno, perché gli stessi detenuti
che avremmo incontrato nel corso delle visite ci avrebbero via via aiutati a
completare la mappa e a conoscere la realtà della detenzione speciale in Italia
(da quel giro di visite ispettive è nato poi il libro-inchiesta <EM>Tortura
Democratica</EM>). Un’operazione “pericolosa”, perché <STRONG>svelando le
carceri del 41 bis – ci aveva ammonito il DAP – avremmo messo in pericolo la
sicurezza pubblica</STRONG>. Alla fine del viaggio contammo tredici sezioni del
41 bis, compreso il reparto del Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di
Pisa dove erano ricoverati detenuti malati a cui non restava molto da vivere.
Solo dopo la pubblicazione del libro avremmo scoperto che, in realtà, le sezioni
del circuito speciale erano quattordici. Nel carcere di <STRONG>Belluno</STRONG>
era stata allestita una singolarissima sezione destinata a ospitare un
singolarissimo detenuto sottoposto a una singolarissima versione del 41 bis:
l’ex boss della camorra <STRONG>Raffaele Cutolo</STRONG>, ristretto lì da chissà
quanto tempo, dimenticato da Dio e dagli uomini. “Ristretto” per modo di dire,
considerato lo spazio a disposizione e il trattamento davvero “speciale” che gli
avevano riservato. Comunque, dopo la nostra visita, quel supercarcere per un
uomo solo è stato chiuso, e il detenuto trasferito altrove. Nell’inferno del
carcere duro esiste un girone più infernale degli altri che va sotto il nome di
<STRONG>Area Riservata</STRONG>. Consiste di due o tre celle allestite in una
piccolissima sezione dislocata lontano da quella “normale” del 41 bis, di solito
al piano terra e nella parte meno areata e illuminata della prigione. Il
“passeggio” di questi detenuti più “speciali” degli altri è una sorta di gabbia
di cemento armato di due metri per cinque, alta tre metri e coperta in cima da
una pesante rete metallica a maglie molto strette. Aree Riservate a chi? A una
<STRONG>dozzina di prigionieri “eccellenti” del calibro di Totò Riina, Leoluca
Bagarella, Nitto Santapaola…</STRONG> e a pochi altri malcapitati, detenuti
dallo scarso rilievo criminale che dopo lunga e accurata selezione sono stati
destinati dal Dap a fare compagnia ai “capi di Cosa Nostra” da quando i giudici
costituzionali hanno riconosciuto anche a loro il diritto all’aria in comune e
alla socialità. Il caso di <STRONG>Salvatore Savarese</STRONG> è clamoroso. Una
storia infinita di entra-ed-esci molto comune per i piccoli camorristi: Savarese
era stato messo nell’Area Riservata di Marino del Tronto insieme a Totò Riina
nell’aprile del 2001, proveniente dal carcere di Trani dove era detenuto (non in
41 bis) dal ‘99 per un residuo pena di tre anni. Quando l’ho incontrato aveva
praticamente finito di scontare la pena e non si capacitava del fatto che uno
come lui, il carcerato forse meno pericoloso d’Italia, fosse stato messo insieme
al pericolo pubblico numero uno in un isolamento pressoché totale e alle
condizioni più severe del carcere duro mai riservate a un detenuto italiano. A
fare l’ora d’aria nel box di cemento con la rete sopra non ci andava mai e
nemmeno a fare socialità nella cella del “capo” di Cosa Nostra, “<EM>perché con
tutte quelle telecamere era come andare nella casa del Grande Fratello</EM>“. Al
momento della nostra visita, il carcere di Terni non aveva l’Area Riservata e
<STRONG>Vincenzo Stranieri</STRONG> faceva l’ora d’aria con un gruppo di sei
detenuti (oggi possono essere al massimo cinque), in un passeggio di 10 metri
per 20, con muri di cemento e, sopra, la solita rete a chiudere i detenuti come
in un pollaio. Alla finestra della cella, oltre alla fila di sbarre c’era anche
una rete, e un’altra rete anche alle sbarre del cancello. Quando si trovava a
Cuneo era peggio, perché lì gli sbarramenti alle finestre del 41 bis erano
quattro: una prima fila di sbarre vere e proprie, poi una seconda fila sempre di
sbarre, ancora una rete metallica a maglie molto fitte e, infine, un pannello di
plastica opaca attaccato alla finestra dall’esterno. Questo pannello, che fa
passare poca aria e poca luce e di cui ho visto in altre sezioni varianti
realizzate con fasce di ferro o di vetro applicate una sopra l’altra a formare
una sorta di tapparella leggermente inclinata in alto e verso l’esterno, è detto
“gelosia”. Non so da dove derivi il nome, ma <STRONG>il concetto mi sembra
quello di modi e tempi passati</STRONG>, come quando si pensava di difendere
l’onore familiare con la cintura di castità o di garantire la sicurezza sociale
con le finestre a “bocca di lupo”. Marchingegni e sistemi medioevali che
sopravvivono oggi solo in quei “monumenti” della lotta alla mafia che sono le
sezioni del 41 bis, anche se non hanno nessun serio senso pratico, che voglia
essere di sicurezza o di deterrenza, di contrasto alla mafia o di legittima
difesa, ma solo il valore simbolico ed effettivo di una ordinaria e continua
afflizione. </SPAN></P>
<P><SPAN
style="FONT-FAMILY: 'Times New Roman'; COLOR: black; FONT-SIZE: 11pt; mso-bidi-font-size: 10.0pt"><FONT
size=3>Avere un solo colloquio al mese, due ore d’aria al giorno, al massimo due
pacchi di viveri ogni trenta giorni, il fornellino solo per scaldare vivande e
non per cucinarle… <STRONG>quale ragione ha ai fini della sicurezza?</STRONG> Il
concetto di sicurezza è poi così aleatorio che varia da sezione a sezione, a
discrezione del direttore che stabilisce che cosa entra o non entra nel “suo”
carcere. Tempo fa, ad esempio, a Spoleto erano pericolosi i fagioli, a Terni i
sigari anche se fumati all’aria, a Parma le uova e le banane “<EM>altrimenti i
detenuti si fumano le bucce</EM>“. All’Aquila era consentito un giaccone
imbottito da indossare durante l’inverno, un “privilegio” negato ai detenuti di
Viterbo e di Novara. Da una parte i libri non contano nei dieci chili mensili di
pacchi della famiglia, da un’altra parte fanno peso. Il walkman per studiare le
lingue è consentito in una sezione e vietato in un’altra, mentre l’uso del
computer per chi studia informatica è interdetto dappertutto. <STRONG>Che cosa
c’entra con la lotta alla mafia il fatto che i detenuti in 41 bis non possano
lavorare né frequentare corsi scolastici</STRONG>? Possono studiare solo da
autodidatti, senza l’ausilio di insegnanti o professori. Ciò nonostante, non
sono pochi quelli che sono riusciti a laurearsi o a scrivere libri come Vincenzo
Stranieri. Per alcuni, è stato un modo di espiare la pena senza perdere il lume
della ragione, per altri un tentativo di “evadere”… una pratica ai limiti della
tortura. Innocenti evasioni, ma anche una dimostrazione che il carcere, che per
molti si rivela essere l’università del delitto, per alcuni <STRONG>può essere
università vera e occasione di un autentico riscatto</STRONG>. Sui laureati al
“carcere duro” non esistono notizie e dati ufficiali, ma di molti casi posso
parlare per conoscenza diretta. Nell’estate del 2002, durante il giro
cella-a-cella nelle sezioni del 41 bis, li avevo visti curvi sui libri e alle
soglie della laurea. Alcuni li ho scoperti o rivisti dopo con qualche segno
dell’età in più e un “pezzo di carta” in tasca. I fratelli Giuseppe e Filippo
Graviano, ritenuti ancora i potenti boss del quartiere Brancaccio di Palermo, in
attesa del “fine pena: mai” si sono laureati, il primo in biologia molecolare,
il secondo in matematica. <STRONG>Pietro Aglieri</STRONG>, l’ex capo del
mandamento di Santa Maria del Gesù, si è laureato in Storia della Chiesa.
Antonino Mangano, nonostante i suoi quindici anni di “carcere duro”, un
carcinoma al rene e vari cicli di chemioterapia, ha trovato l’entusiasmo per
studiare e laurearsi in Lettere e Filosofia. Guerino Avignone aveva fatto undici
esami quand’era fuori alla Facoltà di Economia e Commercio e gli altri li ha
finiti dentro senza computer e calcolatrice, vietati al 41 bis. Carlo Marchese,
un palermitano affiliato alla <EM>stidda</EM> nissena, aveva ripreso gli studi
dopo essere finito nel circuito speciale con l’ergastolo e ne è uscito laureato
in giurisprudenza con centodieci e lode. Anche Giuseppe Gullotti si è laureato
in giurisprudenza dopo sette anni di “carcere duro” e una tesi proprio sull’art.
41 bis della legge penitenziaria. Antonio Libri si è laureato in sociologia,
come pure Ferdinando Cesarano che ha superato gli esami previsti dal programma,
i primi di nascosto e sotto stretta sorveglianza svolti in facoltà, gli altri in
carcere in videoconferenza. Anche Salvatore Benigno si è laureato in
videoconferenza: per la discussione della tesi in Ortopedia undici professori
della Facoltà di Medicina si sono spostati nell’aula-bunker del tribunale di
Palermo, dove il detenuto è apparso attraverso un monitor dal supercarcere
dell’Aquila. <STRONG>Esperti di mafia e di galere sono convinti che questi
detenuti non abbiano cambiato mentalità</STRONG>. Se la materia preferita è
Legge è perché “vogliono capire dov’è che hanno sbagliato” oppure perché
“sperano di uscire un giorno e, grazie a una più accurata conoscenza dei codici,
evitare di finire di nuovo dentro”. In carcere non si considera mai la
possibilità che un detenuto cambi registro, si sospetta sempre che pensi solo a
come farla franca, e per ciò simula buona condotta. Nel nostro giro
cella-a-cella del 41 bis abbiamo incontrato e parlato con circa 640 detenuti. A
ognuno di loro abbiamo dedicato mediamente dieci minuti della nostra visita.
Vincenzo Stranieri deve essere stato di poche parole se di quell’incontro sette
anni fa, a Terni, ho potuto annotare soltanto che aveva 42 anni ed era in 41 bis
dal luglio 1992, cioè da quando il “carcere duro” è stato istituito, come
risposta dello Stato alle <STRONG>stragi di Capaci e di Via D’Amelio
</STRONG>dove furono massacrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel giro di
una notte, circa trecento ‘mafiosi’ furono trasferiti a Pianosa e all’Asinara
così come li avevano sorpresi dall’Ucciardone e in altre carceri: in pigiama, in
mutande e in ciabatte. Il Ministero di Grazia e Giustizia non ha mai spiegato i
criteri in base ai quali furono compilate le liste dei detenuti da trasferire
sulle isole. È facile immaginare che nella fretta di <STRONG>dare una risposta –
di dare <EM>comunque</EM> una risposta – alle stragi mafiose</STRONG>, la
Direzione Generale delle prigioni non abbia avuto il tempo di esaminare i
fascicoli, le sentenze, i mandati di cattura, il grado di pericolosità dei
detenuti, al fine di decidere chi di loro veramente meritasse il girone
infernale della massima sicurezza. Sta di fatto che finirono al carcere duro
detenuti della più varia estrazione e pericolosità sociale: incensurati e
pregiudicati, indagati e rinviati a giudizio, ammessi ai benefici penitenziari
ed ergastolani, addirittura persone a piede libero che si erano consegnate alle
autorità appena il processo era passato in giudicato. Quasi tutti quelli che
hanno avuto la sfortuna di finire in quella prima e sommariamente compilata
lista di 17 anni fa, poi ci sono rimasti perché dal 41 bis si esce “<EM>solo nei
casi in cui i detenuti collaborano con la giustizia</EM>“, come prevede la norma
penitenziaria speciale che “legalizza” una pratica che <STRONG>da noi si chiama
“carcere duro” ma nel diritto internazionale si configura come tortura</STRONG>.
E sono “tortura” non solo “dolore o sofferenze forti”, quali pure sono stati
inflitti all’inizio a mafiosi veri e presunti deportati all’Asinara e a Pianosa,
ma anche le “pressioni” che in particolari condizioni di detenzione si
esercitano nei confronti di detenuti fatti oggetto di visite in cella
eufemisticamente definite “colloqui investigativi”. </FONT></SPAN></P>
<P><SPAN
style="FONT-FAMILY: 'Times New Roman'; COLOR: black; FONT-SIZE: 11pt; mso-bidi-font-size: 10.0pt"><FONT
size=3>I racconti e i ricordi di Vincenzo Stranieri pubblicati in questo libro
sono la più gratuita, unilaterale, disinteressata e, perciò, autentica
dichiarazione di dissociazione dal suo passato. Però la semplice dissociazione
non basta per venire fuori dal 41 bis, come dimostrano i casi di molti detenuti
che – come il boss di Manduria – hanno rotto con il loro passato senza fare
proclami o fare i pentiti. Per uscire dal carcere duro occorre “<EM>la
dissociazione a rischio della vita</EM>“, come è scritto nei decreti
ministeriali di assegnazione al 41 bis. “<EM><STRONG>Non risulta avere dato
segni di ravvedimento o manifestato volontà di collaborare con la
giustizi</STRONG>a</EM>“, è scritto nelle “note informative” degli organi
giudiziari e investigativi che si ripetono come fotocopie di decreto in decreto.
Queste note dovrebbero provare l’attualità e la concretezza della pericolosità
sociale del detenuto ma, spesso, spuntano fuori da archivi polverosi e ormai
datati di polizia e procuratori, e valgono molto di più della più recente
sentenza di Corte di Assise. Porre l’aggressore in condizioni di non nuocere, di
non minacciare più la nostra vita, la nostra sicurezza, è un obiettivo
prioritario per tutti. Ma dopo aver visitato le sezioni di massima sicurezza e
conosciuto il vissuto della comunità del 41 bis reale, mi chiedo se lo Stato
italiano stia realizzando davvero questo obiettivo o non stia piuttosto
vendicandosi di fatti orribili come quelli di Capaci e Via D’Amelio. Il vetro
divisorio delle sale colloqui è la parte per il tutto di questo sistema
spietato. Quel vetro mostra e nasconde anche il paradosso, la propaganda e la
realtà del regime speciale. Fatto apposta per interrompere i collegamenti dei
mafiosi con l’esterno, il 41 bis è stato reiterato per cinque, dieci, quindici,
diciotto anni (chi è entrato nel ‘92 e da allora non è più uscito, si è visto
prorogare la misura 30 volte!), perché permanevano ancora i collegamenti con
l’esterno. Si vuole dare a intendere all’opinione pubblica che in questo modo,
come ha detto un Ministro dell’Interno, “<EM>è stata calata una
saracinesca</EM>” tra la mafia dentro e quella fuori. Se l’obiettivo fosse
davvero quello di combattere la mafia, il vetro divisorio verrebbe eliminato
all’istante. E li si farebbe comunicare, i “mafiosi” dentro con quelli fuori:
sarebbero colloqui “interessanti” per chi davvero volesse investigare per
prevenire reati o smantellare traffici criminali. Nei decreti ministeriali di
assegnazione al 41 <STRONG>bis i familiari e le loro visite sono chiaramente
indicati come la fonte principale del pericolo per l’ordine e la sicurezza
pubblica</STRONG>. Ma quel vetro blindato è in realtà il vetro dello scandalo di
un’Antimafia retorica e crudele. Se rimane ancora lì non è per impedire i
collegamenti con l’esterno, ma per distruggere definitivamente quel che resta di
rapporti e affetti familiari. Padri, madri, mogli e figli – che già devono fare
mille chilometri di viaggio per andare a visitare una volta al mese il parente
detenuto – fanno poi un’ora di colloquio via citofono in una sorta di acquario
sotto una telecamera. “<EM><STRONG>È la morte bianca. Siamo dei sepolti
vivi</STRONG></EM>“, mi ha detto un detenuto. “<EM>In questo cimitero chiamato
41 bis hanno costruito una lapide di vetro attraverso la quale i nostri cari
vengono ogni tanto a vederci e a piangere la nostra scomparsa</EM>.” “<EM>Se
vuoi conoscere davvero un Paese, visitane le prigioni</EM>“, ammoniva Voltaire.
Un giretto nelle sezioni del 41 bis può essere sicuramente più istruttivo del
più documentato e radicale saggio sullo Stato di non-Diritto e non-Democrazia
che connota – da sessant’anni – il regime italiano. L’ultimo giro di vite al
meccanismo del “carcere duro” è stato imposto a luglio del 2009 con la norma del
“pacchetto sicurezza” che riduce a <STRONG>tre – e della durata massima di
un’ora ciascuno – i colloqui mensili con i difensori</STRONG>. Considerato che i
detenuti in 41 bis provengono quasi tutti dal meridione e sono seguiti da
avvocati meridionali, e considerato che le sezioni del carcere duro si trovano,
invece, quasi tutte al Nord, alla fine, per fare tre ore di colloquio ci
vogliono tre giorni, oltre a quelli che occorrono per il viaggio. Il diritto
alla difesa dei detenuti in 41 bis è sempre stato un principio raro, che è
diventato del tutto inesistente da quando i processi si fanno in
videoconferenza: giudici e accusatori da una parte, in un’aula di tribunale,
imputati da tutta un’altra parte, in una saletta del 41 bis davanti a un
monitor, un microfono e una telecamera. Come nei film americani il rito è quello
accusatorio: accusa e difesa sulla stessa panca, testimoni interrogati e
controinterrogati, anche se la giuria popolare non è proprio come quella
americana… è bellissimo! Se non fosse, però, che al 41 bis il protagonista del
“film”, che rischia la pena di morte civile, non è in Corte d’Assise, ma in una
cella di massima sicurezza a seguire il suo caso in televisione. È un processo
virtuale, alla fine del quale la pena è comminata non all’imputato ma ad un
telespettatore. A ben vedere, <STRONG>quelli del 41 bis sono
prigionieri</STRONG>, non in un circuito differenziato, ma <STRONG>di un circolo
vizioso</STRONG>, perfetto per chi accusa e inesorabile con chi si deve
difendere. Il meccanismo è tipico dei sistemi autoreferenziali (e auto
legittimanti): sei un presunto mafioso e quindi vai in 41 bis; in 41 bis il
processo lo fai non in aula ma in videoconferenza; con le videoconferenze è
impossibile difendersi e vieni condannato; una volta condannato sei un mafioso a
tutti gli effetti. E quindi rimani in 41 bis. <STRONG>Cataldo Terminio</STRONG>,
detenuto dal ‘92 e al “carcere duro” dal ‘98, prima del 41 bis aveva vinto molti
processi, poi con le videoconferenze ha cominciato a perderli. “<EM>Non riesco a
far fare al mio avvocato una domanda a chi mi accusa che il pentito se ne è già
andato</EM>“, mi ha detto. “<EM>Il 41 bis serve a produrre pentiti da cui poi
non ci si può difendere per via delle videoconferenze</EM>“. <STRONG>Antonio
Cordì</STRONG>, detenuto in 41 bis dal ‘99 e condannato all’ergastolo, mi aveva
raccontato: “<EM>Alla fine del processo di primo grado ho aspettato che il
presidente mi desse la parola. Non lo ha fatto e allora l’ho chiesta io;
l’ufficiale di Polizia Giudiziaria che era con me nella saletta mi ha detto che
quando la corte sarebbe rientrata mi avrebbero fatto parlare; ha telefonato al
cancelliere d’aula ma i giudici si erano già ritirati in camera di consiglio e
ne sono usciti con la sentenza. Tenuto conto che non sono mai stato interrogato
in tutte le fasi del processo, non ho potuto rendere neanche le mie
dichiarazioni finali!</EM>“. </FONT></SPAN></P>
<P><SPAN
style="FONT-FAMILY: 'Times New Roman'; COLOR: black; FONT-SIZE: 11pt; mso-bidi-font-size: 10.0pt"><FONT
size=3>Antonio Cordì non ha fatto in tempo a espiare granché del suo “fine pena:
mai”, perché è morto prematuramente nell’agosto del 2007. Non so se poteva
essere salvato, un anno e mezzo prima, quando gli fu diagnosticato un tumore al
polmone. So solo che quando c’era la speranza di salvarlo non è stato curato.
Quando è stato ricoverato era in condizioni talmente gravi da non poter essere
operato. Quando è diventato un malato terminale è rimasto sempre un carcerato…
perché la morte era prevista “a breve termine” e non “nell’immediato”, come ha
scritto un magistrato di sorveglianza di Napoli. Ero parlamentare e feci di
tutto per evitare che Antonio Cordì morisse da solo, come un cane, al 41 bis.
Non si trattava più di salvare una vita, ma di salvare il salvabile, rendere
meno infame l’irreparabile: consegnarlo all’affetto dei suoi cari per i giorni
che gli erano rimasti. Quando Clemente Mastella gli revocò il “carcere duro” e
il magistrato si decise a sospendere la pena, fu restituito alla famiglia un
uomo quasi morto. Infatti morì poche ore dopo l’arrivo a Locri, a casa sua –
meno male – e non in una cella del 41 bis. Quello di Cordì non è un caso
isolato. In <EM><STRONG>Tortura Democratica</STRONG></EM> abbiamo documentato
storie di detenuti infartuati, colpiti da ictus, malati di cancro, paralizzati o
costretti sulla sedia a rotelle. Alcuni sono poi morti in cella, o in ospedale,
o a casa loro, dove erano stati mandati a finire gli ultimi giorni di vita.
Chissà quanti potevano essere salvati se il male fosse stato preso in tempo o se
fossero stati curati come si deve. Il fatto è che dal 41 bis si può uscire solo
in due modi: o da “infami” o da morti. Non so quanti “pentiti” ha prodotto il 41
bis, so solo che in questi 18 anni di “carcere duro” quelli che ne sono usciti –
come si suol dire – coi piedi davanti, morti di infarto, di cancro, di ictus o
suicidi, non sono stati pochi. Il 18 maggio scorso, nel corso della festa del
corpo di polizia penitenziaria, il ministro della giustizia <STRONG>Angelino
Alfano ha celebrato il netto aumento dei detenuti sottoposti al regime di
carcere duro</STRONG>. Nel 2008, quando si insediò l’attuale governo, erano 564,
lo scorso anno 616, oggi sono 671, di cui 3 donne: 576 appartengono ad
associazioni a delinquere di stampo mafioso e, tra questi, 258 sono gli
affiliati alla Camorra e 209 a Cosa Nostra. Ovviamente, è tutto merito del
“governo”, ma anche la “opposizione” plaude a questo sistema di “lotta alla
mafia”.<SPAN style="mso-spacerun: yes"> </SPAN>Al di là della
costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro
ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto
è comunque inaccettabile. <STRONG>Costringere una persona per diciotto anni di
fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e
senza affetti, senza diritti e senza speranza</STRONG>, e prevedere che da
questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno
in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra
e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che
nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di
detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del
nostro stato di Diritto. Già sento l’eco della Grande Obiezione: va bene
“nessuno tocchi Caino” ma chi difende Abele? Chi pensa ai parenti delle vittime
alle quali sono stati negati i più elementari diritti umani, ai magistrati e ai
poliziotti di scorta massacrati, ai sequestrati tenuti prigionieri in un buca
nel terreno, al bambino sciolto nell’acido? Chi li difende, chi ci pensa…Non
capisco l’obiezione. Il nostro “<STRONG>Nessuno tocchi Caino” è un
monito</STRONG>: non mette in discussione la “profondità del male” inflitto da
chi attenta alla vita “innocente”, ma solo <STRONG>ricorda e mette in guardia
dalla banalità del male di una risposta uguale (giusta) e contraria, che
consideri la vita “colpevole”, dannata per sempre</STRONG>. In discussione non è
chi siano loro, i “colpevoli”, cosa abbiano fatto o cosa potranno ancora fare.
In discussione siamo noi “innocenti”, noi Stato, noi società civile: chi siamo e
come ci comportiamo, che cosa rischiamo di divenire se neghiamo loro quei
diritti umani fondamentali che loro hanno negato alle proprie vittime. <STRONG>È
proprio di fronte a casi estremi di emergenza ed efferatezza che si misura la
forza di uno Stato</STRONG>. E la forza <STRONG>sta innanzitutto nel
Diritto</STRONG>, che è il limite invalicabile che stabiliamo di porre a noi
stessi e alla nostra sacrosanta istanza di rivalsa e legittima difesa, ma è
anche la distanza irriducibile che decidiamo di mettere tra noi e chi attenta
alla nostra vita e alla nostra sicurezza. Limite e distanza che fanno la
differenza, costituiscono la cifra della nostra umanità e della nostra civiltà.
</FONT></SPAN></P>
<P><SPAN
style="FONT-FAMILY: 'Times New Roman'; COLOR: black; FONT-SIZE: 11pt; mso-bidi-font-size: 10.0pt"><FONT
size=3>Sergio D’Elia</FONT> </SPAN></P></DIV></DIV>
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