[Redditolavoro] Fw: UNIVERSITÀ DEFORMATA e QUESTIONE SCIENTIFICA

clochard spartacok at alice.it
Tue Jul 27 16:31:20 CEST 2010


UNIVERSITÀ DEFORMATA e QUESTIONE SCIENTIFICA





----- Original Message ----- 
From: "rossana" <rossana at comodinoposta.org>
To: <neurogreen at liste.comodino.org>
Sent: Tuesday, July 27, 2010 10:36 AM
Subject: [neurogreen] UNIVERSITÀ DEFORMATA e QUESTIONE SCIENTIFICA






Mi piace mettere in relazione l'articolo di Bascetta sull'università e 
quello di Cini sulle questioni scientifiche: se le catastrofi diventano 
merce.
Bascetta domanda "E se fosse invece il mercato del lavoro a doversi 
adeguare all'università, ai suggerimenti della ricerca e della 
sperimentazione, al livello culturale della nostra società, dei suoi 
bisogni e delle sue potenzialità?"

Cini argomenta la sua posizione divergente da quella di Baracca ed 
Ernesto Burgio a proposito della manipolazione del vivente, o meglio, 
dell'appropriazione privata della conoscenza (e di tutto ciò che è 
patrimonio comune) :  "dove ci sta conducendo - parlo della popolazione 
del pianeta - il connubio sempre più stretto tra il capitale 
globalizzato e il processo di produzione e di appropriazione privata 
delle conoscenze scientifiche e delle innovazioni tecnologiche di 
«avanguardia», senza che venga posto in atto alcun controllo pubblico 
delle conseguenze materiali, economiche e sociali che esso comporta".

Quello che bisogna sottolineare fra le diverse posizioni è che i 
soggetti (tutti noi) non possono limitarsi ad una semplice denuncia (o 
riflesso) dei fenomeni perchè non si tratta solo di descrivere l'uso che 
si fa della conoscenza, ma come si presenta la realtà. E allora bisogna 
rilevare l'inversione (questa realtà non ha un carattere naturalistico 
ma è ideologia, quella della proprietà privata)  e la sua crisi, la sua 
reversibilità (contro ogni determinismo).

In un testo che parla della crisi ambientale (marea nera, meteo, ecc.), 
che è un aspetto della crisi del sistema e, di conseguenza, della 
distruzione del mondo "la crisi del clima è un crisi politica", Chris 
Hedges invoca la disobbedienza civile e la ribellione. La sua 
osservazione è che siamo prigionieri del potere delle imprese il cui 
destino sembra portare alla distruzione del mondo. La loro avidità 
trasforma in servi globali i lavoratori.
http://www.truthdig.com/report/item/calling_all_future-eaters_20100719/




di Marco Bascetta
UNIVERSITÀ DEFORMATA
Non è colpa di von Humboldt, padre dell'Università moderna europea, e 
nemmeno del Sessantotto, padre e madre di ogni vizio e dissolutezza. La 
miserabile Università italiana che miserabilmente si intende riformare 
per l'ennesima volta ha una paternità assolutamente certa: i cosiddetti 
liberisti di sinistra. Da dove proviene, se non da loro, il 
moltiplicarsi insensato dei corsi di laurea, il fiorire di 
pseudodiscipline come l' "etica aziendale" o la "consulenza filosofica"? 
La proliferazione di master e specializzazioni psichedeliche a costi 
esorbitanti? Il sistema creditizio che ha trasformato il corso degli 
studi in uno spezzatino insipido e indigesto, in una competizione 
autistica tra futuri sottoccupati? Il sistema delle laure brevi, 
destinato a produrre competenze tanto precarie quanto le occupazioni 
nelle quali (solo in teoria) sarebbero state impiegate?
E adesso i responsabili di questo disastro, ormai conclamato, i 
riformatori, i modernizzatori, i cantori della libera impresa, ci 
vengono a dire: «non vorrete conservare questa porcheria? Come dare 
torto a Tremonti e Gelmini che vogliono tagliare il costo esorbitante di 
questo baraccone, eliminare sprechi e inefficienze?». Di memoria breve, 
seppur di consulenza lunga, i liberisti di sinistra, hanno già 
dimenticato quando l'Università La Sapienza di Roma si fregiava, 
attraverso costose campagne pubblicitarie, del discutibile titolo di 
"fabbrica del sapere" e gli atenei si rincorrevano nell' inventare 
specchietti per le allodole e insegnamenti modaioli con lo scopo di 
attirare il maggior numero di studenti da formare nel tempo più breve e 
con la minor spesa possibile, mettendo in scena un ridicolo criterio di 
produttività.
Hanno rapidamente rimosso le favole sul coinvolgimento delle aziende e 
delle realtà produttive territoriali che accompagnavano il diffondersi 
capillare delle sedi universitarie fin nelle più remote provincie, 
andando incontro a un destino certo di miseria nera e di insignificanza 
culturale. Non ricordano più, i nostri riformatori, gli insulsi corsi di 
studio che avrebbero dovuto assecondare la mitica domanda delle imprese, 
riuscendo a soddisfare tutt'al più nepotismi e clientele.
Ciò che dovrebbe essere chiaro a chiunque non sia accecato 
dall'ideologia è che l'Università italiana non è stata devastata da 
un'assenza di riforme, ma da una sovrabbondanza di cattive riforme a cui 
quella della ministra Gelmini, ora approdata in Senato, va ad 
aggiungersi, veicolando inoltre l'invereconda pretesa che il taglio 
delle risorse possa essere più purificatore del loro migliore impiego, 
in un improbabile circolo virtuoso tra merito e risparmio. Non avendo 
idea alcuna della funzione dell'Università di massa nel nostro tempo, o 
meglio condividendo quella propugnata, con gli esiti che abbiamo visto, 
dai liberisti di sinistra, incapace di rubricare, secondo una diversa 
logica, la spesa e l'investimento, l'opposizione di sinistra si troverà 
a scegliere, ancora una volta, tra complicità e impotenza.
Del resto, la regola aurea, fin dai tempi di Zecchino e Berlinguer, 
ribadita ancora ieri da Mariastella Gelmini, è sempre la stessa: «il 
compito della riforma è il riavvicinamento dell'Università al mercato 
del lavoro». Obiettivo mancato per più di un trentennio nel vano 
inseguimento di una visione mitologica del sistema delle imprese e della 
sua presunta vocazione all'innovazione. Il mercato del lavoro italiano, 
capriccioso e gretto, è una fotografia del presente, forse addirittura 
una nostalgia del passato, di certo non una proiezione sul futuro. Anche 
se, nella precarizzazione del lavoro, nel taglio delle risorse, nel 
rafforzamento delle gerarchie, il riavvicinamento è certamente arrivato 
a buon punto. E se fosse invece il mercato del lavoro a doversi adeguare 
all'università, ai suggerimenti della ricerca e della sperimentazione, 
al livello culturale della nostra società, dei suoi bisogni e delle sue 
potenzialità? Per un liberista di sinistra si tratta di una bestemmia. 
Come voler imporre un artifizio alla legge di natura.



di Marcello Cini
QUESTIONE SCIENTIFICA
SE LE CATASTROFI DIVENTANO MERCE. UNA RISPOSTA
Angelo Baracca e Ernesto Burgio, nel loro articolo del 17 luglio 
intitolato «Catastrofe scientifica» criticano il mio ragionamento (il 
manifesto 10 luglio) sulle catastrofi artificiali sulla base del «fatto 
che, di fronte all'ennesima sfida di Craig Venter» io mi sarei «limitato 
a segnalare il pericolo di incidenti più o meno probabili puntando 
l'indice sulla possibile diffusione di microrganismi artificiali 
nell'ambiente».
Se mi è consentita una battuta ormai d'uso corrente, non posso, a mia 
volta, perdere l'occasione di ricordare che concentrare l'attenzione 
sull'indice di chi indica qualcosa non è proprio un indizio di 
particolare acume. Ma siccome prima di accusare un interlocutore di non 
aver capito di cosa si sta parlando bisogna avere la modestia di pensare 
che ci si è espressi male, vorrei riassumere in poche parole il nodo 
essenziale della mia argomentazione.
Il punto è che il disastro del Golfo del Messico - le cui proporzioni 
stanno diventando a tutt'oggi (25 luglio) sempre più planetarie - non è 
solo una questione di petrolio. Il «maledetto buco» è invece un indizio 
fondamentale per capire dove ci sta conducendo - parlo della popolazione 
del pianeta - il connubio sempre più stretto tra il capitale 
globalizzato e il processo di produzione e di appropriazione privata 
delle conoscenze scientifiche e delle innovazioni tecnologiche di 
«avanguardia», senza che venga posto in atto alcun controllo pubblico 
delle conseguenze materiali, economiche e sociali che esso comporta. 
«Dalle fonti di energia all'alimentazione, dalla salute ai servizi, 
dalla conoscenza ai 'prodotti finanziari speculativi' - scrivevo - 
l'adozione della logica del profitto come unica finalità delle attività 
umane - anche e sempre di più attraverso l'appropriazione privata dei 
beni materiali e immateriali comuni - non potrà non rendere il rischio 
di catastrofi una merce dotata di prezzo come le altre, invece che una 
eventualità da scongiurare attraverso un rigoroso controllo sociale».
Se non si coglie la novità - scusate la presunzione - di questo punto di 
vista, non si capisce, a questo punto, il ruolo attribuito a Venter nel 
mio ragionamento. Il collegamento fra quest'ultimo e il «maledetto buco» 
è fondamentale per almeno due motivi. Il primo è che l'immagine stessa 
di Venter - perfetta sintesi fra un magnate di Wall Street e uno 
scienziato con la testa fra le nuvole - grida in faccia al mondo che, 
piaccia o non piaccia, la «torre d'avorio» è crollata.
Certo, si può sempre dire che la conoscenza delle profondità degli 
oceani della quale la BP possiede il monopolio non è scienza ma 
tecnologia. Ma nessuno ormai va più tanto per il sottile. I confini si 
dissolvono. Agli antipodi, nemmeno la più sofisticata teoria della 
fisica contemporanea, la «teoria delle stringhe», venduta sola o 
accompagnata dalla fantascienza degli «universi paralleli» è più scienza 
in senso proprio, se è vero, come sostiene il premio Nobel (della 
fisica) Gerard 't Hoft, che non sarà mai falsificabile.
Dobbiamo rassegnarci: dei quattro imperativi istituzionali posti da 
Robert Merton alla metà del secolo scorso a fondamento dell'ethos della 
scienza moderna - l'universalismo, il comunitarismo, il disinteresse e 
il dubbio sistematico - sono rimasti soltanto alcuni brandelli e 
soltanto in qualche disciplina.
Il secondo motivo del collegamento fra il buco della BP e il batterio 
sintetico di Venter (che, ricordiamolo, aveva battuto sul tempo il 
progetto pubblico della decodifica del genoma umano) è dunque che 
entrambi mettono in evidenza l'incapacità delle istituzioni pubbliche di 
proteggere le comunità umane dai danni collettivi che possono assumere 
dimensioni planetarie anticipando, regolamentando e controllando 
l'acquisizione e l'appropriazione privata di conoscenze da immettere sul 
mercato in forma di merce.
È dunque l'acquisizione di questa capacità di controllo pubblico la 
priorità da adottare per la formazione di una cultura della 
sopravvivenza capace di far fronte alla prospettiva 
dell'intensificazione di catastrofi artificiali di entità paragonabile a 
quelle naturali che stanno verificandosi a un ritmo crescente.
Non aspettiamo che accadano senza far niente.



 di Angelo Baracca, Ernesto Burgio
Catastrofe scientifica
scientifica Dove traballa la critica di Marcello Cini alla manipolazione 
del vivente di Craig Venter
L'articolo di Marcello Cini «Una catastrofe "artificiale"» (Manifesto 10 
luglio) è una delle migliori analisi della catastrofe del Golfo. 
Tuttavia mostra a nostro avviso un limite, quando affronta il problema 
delle possibili conseguenze dell'ultima frontiera della manipolazione 
del vivente: la sfida di Craig Venter, che ha recentemente proclamato 
l'avvenuta creazione nel proprio laboratorio di un microrganismo «quasi 
nuovo». Condividiamo pienamente la denuncia di Cini della leggerezza con 
cui la comunità scientifica internazionale ha accolto e commentato 
questa notizia: e che raggiunge il culmine (tanto per non smentirci) nel 
commento addirittura entusiasta di taluni scienziati nostrani che non 
perdono mai l'occasione di utilizzare la propria autorevolezza per 
rassicurare i cittadini del Bel Paese dell'assoluta innocuità per la 
salute umana di inceneritori e Ogm e, più di recente, di una tecnologia 
vecchia, pericolosa e in netto declino come l'energia nucleare.
Il limite che riscontriamo nell'analisi di Cini consiste nel fatto che 
di fronte all'ennesima sfida di Venter, egli si limiti a segnalare il 
pericolo di "incidenti" più o meno probabili, puntando l'indice sulla 
possibile diffusione di «microrganismi artificiali» nell' ambiente. Una 
critica che ci sembra minimalista a fronte di una ricerca che aspira 
dichiaratamente a modificare interi ecosistemi (per produrre energia dai 
batteri o addirittura per ridurre l'inquinamento e fermare il global 
warming), e che riecheggia le tesi (mai provate) dell'origine di 
malattie come l'Aida o la Sars, l'aviaria o la suina da virus o 
microrganismi manipolati o addirittura "ingegnerizzati" sfuggiti per 
errore da laboratori, militari e/o industriali (il confine tra i due 
settori essendo sempre più labile, tanto per ciò che concerne il 
biotech, che la produzione di energia nucleare: non si dimentichi che 
tra i principali mecenati e sponsor delle ricerche dello stesso Craig 
Venter compare, da anni, il Dipartimento USA per l'Energia, 
straordinariamente interessato all'applicazione delle biotecnologie 
genetiche al campo della produzione di «nuove forme di energia»). E' 
importante sottolineare come la tesi dell'incidente biologico sia non 
soltanto riduttiva, ma anche fuorviante e pericolosa: trascurando di 
mettere in luce i veri intenti dei novelli apprendisti stregoni, 
impedisce di riconoscere la componente più prometeica, se non 
luciferina, dei loro esperimenti. L'utilizzo di una terminologia 
mitico-metafisica non sembra eccessiva per la sua dichiarata volontà di 
dirigere un processo bio-evolutivo antico di miliardi di anni, ma fin 
qui «imperfetto perché privo di Intelligenza» (sic!). Il delirio 
messianico di Craig Venter è diretto al cuore informatico della Natura. 
Per cui se fino ad oggi potevamo dire che l'uomo rischiava di 
trasformare in modo irreversibile la Biosfera, oggi possiamo affermare 
che la nuova meta della biologia sintetica è la trasformazione della 
Genosfera, del patrimonio genetico universale che si è formato nel corso 
di miliardi di anni di co-evoluzione biologica.
Noi riteniamo che questa sia la vera essenza e pericolosità della sfida 
lanciata da Craig Venter, e che il maggior pericolo non derivi, come 
sembra suggerire l'apprezzabile articolo di Cini, dall'immissione, più o 
meno involontaria (accidentale), in ambiente di microrganismi 
geneticamente modificati (cioè di costrutti genici più o meno instabili 
e potenzialmente invasivi), ma appunto dalla deliberata volontà di 
interferire con un processo evolutivo, la cui efficienza è attestata, e 
per così dire garantita, da miliardi di anni di stupefacenti successi 
(la meravigliosa continuità che a parere di St. J.Gould rappresentava il 
mistero più grande). E' purtroppo facile prevedere che queste 
interferenze sul codice segreto contenuto nel nucleo cellulare, avranno 
conseguenze altrettanto e più nefaste dell'intrusione nel cuore del 
nucleo atomico. Gli equilibri eco sistemici e lo stesso processo 
evolutivo rischiano di essere trasformati in modo così imprevedibile e 
profondo (altro che i 1.700 metri del "maledetto buco"!) da rendere 
impossibile qualsiasi tentativo di recupero o riequilibrio. Ed è anche 
prevedibile che si susseguiranno nuovi tentativi di intervento, a 
proporre rimedi che non potranno che rivelarsi peggiori del male, perché 
la Natura seguirà il suo corso e non certo quello voluto dai novelli 
apprendisti stregoni come sta già avvenendo con le oltre 101mila 
molecole di sintesi che stanno disorientando i meccanismi molecolari di 
segnalazione intercellulare e con i residui del ciclo nucleare, che 
hanno introdotto processi "artificiali" che la Terra non sa metabolizzare.
Bisognerebbe arginare l'incontrollato sviluppo della Scienza asservita 
al profitto, senza il senso del limite, regola aurea in Natura. La 
concezione della "Pacha Mama" dei popoli indigeni sudamericani appare 
molto più avanzata della presuntuosa Scienza dei nostri apprendisti 
stregoni.

 
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