[Redditolavoro] L’ultima beffa del lavoro precario"Apri la partita Iva o ti licenzio"

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Tue Nov 10 12:01:20 CET 2009


 
Dopo anni di contratti a termine, i lavoratori sono trasformati in
"fornitori"

Non cambia nulla: stesso orario e stesso ufficio. Ma l’impresa risparmia
oltre il 33%

 ROMA - L’ultima frontiera della precarietà si chiama "partita Iva". Altro
che indice dell’indomabile vitalità imprenditoriale. Questa è tutta un’altra
storia che non riguarda neanche un po’ le seducenti formule del capitalismo
personale. Qui si parla di cocopro: collaboratori a progetto costretti a
diventare titolari di "partita Iva" per non perdere il lavoro, anche se
precario.

Difficile stimare quanti siano i lavoratori in transizione verso
l’imprenditoria forzata. Nessuno l’ha fatto, ma non ci si sbaglia se si
ipotizzano decine di migliaia di persone. Si vedrà meglio quando l’Inps
renderà pubblici i numeri sui nuovi iscritti al Fondo Gestione Separata. Lì,
dati del 2007, le "partite Iva" di professionisti non iscritti ad albi o
associazioni erano circa 250 mila, 30 mila in più in un solo anno. Reddito
medio intorno ai 15 mila euro, poco più di mille al mese. Dai web designer
ai grafici pubblicitari; dai redattori delle grandi case editrici ai
lobbysti, fino all’antica, tradizionale, segretaria, imprenditrice di se
stessa però. Tutti rigorosamente a mono-committenza, cioè fornitori di una
sola azienda. Insomma, false "partite iva".

Di certo questo è un altro capitolo della via italiana alla flessibilità, in
cui con il concorso della Grande Recessione, l’obiettivo principale di molte
aziende è quello di tagliare i costi per provare a sopravvivere. Il fenomeno
non è nuovo, va detto, ma con la crisi è riaffiorato dovunque, nel ricco
settentrione terziarizzato come nella indolente area del lavoro
para-pubblico romano. Ed è un fenomeno che spinge una categoria già debole
ai livelli più bassi della scala della precarietà. "Le partite Iva diventano
sostitutive dei cocopro", commenta Patrizio Di Nicola, sociologo alla
Sapienza di Roma, tra i più attenti studiosi dell’universo magmatico del
lavoro precario. Questa è la verità.

A compiere il percorso da atipico a "libero professionista", senza più
nemmeno un accenno di diritti e di tutele, è ancora la generazione dei
trentenni, l’ala marginale del mercato del lavoro. Eppure questo pezzo di
knowledge worker, lavoratori della conoscenza, intellettuali moderni,
flessibili e innovativi, avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia di una
sorta di neo- borghesia in una società post-industriale. Questa, a sua
volta, avrebbe dovuto spingere verso un incremento della produttività e
arrestare il nostro declino, sfruttando le nuove tecnologie. La realtà è
stata diversa e si è tradotta soprattutto in un progressivo e malcelato
tradimento nei confronti di una generazione di giovani professionisti.

A quella generazione appartiene anche Astrid D’Eredità, archeologa,
tarantina di nascita, romana di adozione. Racconta che da piccola provava
quasi invidia per chi possedeva la tessera di Metro, il grande supermercato
all’ingrosso per i professionisti, gli imprenditori, le partite Iva,
appunto. Quei capannoni blu con scritta in giallo a lettere maiuscole erano
- per lei - il simbolo delle libertà di impresa, del dinamismo aziendale,
dell’individualismo contro il pigro tran tran dell’impiego fisso. Entrare o
meno al Metro faceva la differenza. Era uno spartiacque quasi di classe
sociale, certo di modelli culturali. "Ora - dice - ho la partita Iva, ma non
sono mai entrata al Metro". Ecco. Lei aveva un contratto di collaborazione
finché lavorava in Puglia, poi a Roma ha scoperto che senza partita Iva non
si fa nulla nel suo settore. Si deve essere "imprenditori di se stessi",
come si diceva agli albori della flessibilità. Racconta: "La frase tipica
che ti rivolgono è questa: ovviamente bisogna che lei si apra una partita
Iva... ". E si comincia: non più dipendenti o para-dipendenti, bensì
fornitori. Sulla carta. Perché nei fatti non cambia nulla: stesso stipendio
(ma senza contributi), stesso orario, stesso vincolo di subordinazione. In
alcuni contratti l’ipocrisia rompe ogni indugio e precisa a scanso di
equivoci: "Il fornitore non avrà i benefici previsti per i dipendenti,
inclusi assicurazioni, pensione, assistenza e altri benefit riservati agli
impiegati". E ancora: "Le suddette attività hanno carattere professionale
autonomo e non potranno mai essere configurate come rapporti di lavoro
subordinato o di collaborazione".

Osserva Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil: "Sono due le
motivazioni principali che spingono in questa direzione: il costo per le
aziende che si riduce all’osso e, poi, la totale liberà d’azione sulle
partite Iva che possono essere lasciate a casa, prima, e riprese, poco
dopo". L’Italia è la patria del lavoro autonomo: il 27% dell’occupazione
complessiva, il triplo rispetto alla Danimarca e il Lussemburgo, il doppio
rispetto alla Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l’Olanda. Ci supera
solo la Grecia. Tutto questo, tra l’altro, ha aiutato anche l’anomalia delle
partite Iva. Si calcola, per esempio, che con le partite Iva le aziende
risparmino circa il 25% rispetto a un contratto di collaborazione e oltre il
33% rispetto a un contratto di dipendenza.

Carla S., 31 anni, pubblicitaria genovese ha provato a resistere perché non
ha mai ambito a far parte del celebrato universo delle partite Iva. Da tre
anni lavora in una delle più grande agenzie pubblicitarie del capoluogo
ligure. Prima cocopro rinnovato, quindi contratto a termine. Poi la crisi
arriva in azienda. Il consulente del lavoro suggerisce al titolare di
ricorrere ai contratti di apprendistato. Ma Carla, che comunque tornerebbe
indietro all’inizio della sua carriera, è troppo "vecchia" per
l’apprendistato perché ha appena superato la soglia dei trent’anni. "Sono
una classica bambocciona, vivo con i miei genitori. Ma non potrei fare
altrimenti con 1.100 euro al mese". Anche per questo all’inizio ha detto no
alla partita Iva e, in questo caso, al lavoro a casa. Poi ha quasi
accettato, ha aperto una trattativa, ha chiesto il doppio per le spese che
dovrà sostenere. Le hanno replicato che lo stipendio resta uguale e che
dovrà anche formare le due nuove apprendiste. A Carla, come succede spesso,
l’azienda ha proposto di aiutarla nel tenere la contabilità. Queste sono le
aziende "più illuminate", come le ha chiamate Andrea Bajani nel suo cinico
racconto "Mi spezzo ma non m’impiego", uscito qualche anno fa per Einaudi.

Anche ad Andrea Brutti, trentenne consulente ambientale, hanno imposto di
diventare "imprenditore", dopo anni di contratti di collaborazione a
progetto. "C’è un problema di costi", mi dissero. Per un po’ ha fatto anche
il doppiolavorista con partita Iva: un po’ lobbysta per una associazione
ambientalista un po’ impiegato in un’altra. Poi ha dovuto mollare il secondo
lavoro perché gli orari erano incompatibili. Nemmeno un contratto a tempo
determinato è ormai un’alternativa. "Con 800 euro al mese per 35 ore di
presenza a settimana non mi conviene". Questa è la trappola della partita
Iva.

Infine c’è Federico D., manager di 39 anni, trasformato in pochi frettolosi
minuti in partita Iva, dopo otto anni da dirigente in una multinazionale di
servizi ospedalieri. "Era un venerdì pomeriggio quando venni chiamato dal
mio capo. Ho una notizia cattiva e una buona, mi disse velocemente. La
cattiva è che il tuo contratto si trasforma in consulenza, la buona è che il
trattamento netto migliora. Poi mi mise in mano la lettera di
licenziamento". Ma cos’è cambiato? "Nulla. Stesso orario, stesso ufficio,
stesso lavoro. Ma per l’azienda io non sono più un costo, bensì un
investimento". Una finzione contabile. Già.

(9 novembre 2009)  Roberto Mania

http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/economia/lavoro-precario/lavoro-precario/lavoro-precario.html




 
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