[Ezln-it] SupMarcos: Seconda Lettera a Luis Villoro - Parte 1/3
Annamaria
maribel_1994 at yahoo.it
Thu Apr 14 16:40:43 CEST 2011
DELLA
RIFLESSIONE CRITICA, INDIVIDUI E COLLETTIVI
(Seconda Lettera a Luis
Villoro nell’Interscambio Epistolare su Etica e Politica)
Aprile 2011
“Se in cielo c’è unanimità, riservatemi un
posto all’inferno”
(SupMarcos.
Istruzioni per la mia morte II)
I. - LA PROSA DEL TESCHIO
Don Luis:
Salute e saluti maestro. Speriamo veramente che stia meglio di salute e che
la parola sia come quei rimedi casalinghi che alleviano anche se nessuno sa
come.
Mentre inizio queste righe, il dolore e la
rabbia di Javier Sicilia (lontano per distanza ma da sempre vicino per ideali),
si fanno eco che riverbera tra le nostre montagne. C'è d'aspettarsi e dà
speranza che la sua leggendaria tenacia, così come ora convoca la nostra parola
e azione, riesca a radunare le rabbie e i dolori che si moltiplicano sui suoli
messicani.
Di don Javier Sicilia ricordiamo le
critiche irriducibili ma fraterne al sistema di educazione autonoma nelle
comunità indigene zapatiste e la sua ostinazione nel ricordare periodicamente, alla
fine della sua colonna settimanale sulla rivista messicana PROCESO, la pendenza del compimento degli Accordi di San Andrés.
La tragedia collettiva di una guerra insensata, concretata nella tragedia
privata che l'ha colpito, ha messo don Javier in una situazione difficile e
delicata. Molti sono i dolori che aspettano di trovare eco e volume nel suo
reclamo di giustizia, e non sono poche le inquietudini che aspettano che la sua
voce accorpi, che non guidi, le ignorate voci di indignazione.
E succede anche che intorno alla sua
figura ingigantita dal dignitoso dolore, volino gli avvoltoi mortiferi della
politica dell'alto, per i quali una morte vale solo se aggiunge o toglie nei
loro progetti individuali e di gruppuscoli, benché si nascondano dietro la
rappresentatività.
Si scopre un nuovo assassinio? Allora
bisogna vedere come questo impatta la puerile contabilità elettorale. Là in
alto interessano le morti se possono incidere sull'agenda elettorale. Se non si
possono capitalizzare nei sondaggi e nelle tendenze di voto, allora tornano nel
lugubre conto dove le morti non interessano più, anche se sono decine di
migliaia, perché tornano ad essere una questione individuale.
Nel momento di scriverle queste parole,
ignoro i passaggi di questo dolore che convoca. Ma il suo reclamo di giustizia,
e tutti quelli che si sintetizzano in questo reclamo, meritano il nostro
rispetto e sostegno, anche se con il nostro essere piccoli ed i nostri grandi
limiti.
Nell'andirivieni delle notizie su quell'evento,
si ricorda che don Javier Sicilia è un poeta. Forse per questo la sua
persistente dignità.
Nel suo stile molto particolare di
guardare e spiegare il mondo, il Vecchio Antonio, quell'indigeno che è stato
maestro e guida per tutti noi, diceva che c'erano persone capaci di vedere
realtà che ancora non esistevano e che, siccome non esistevano nemmeno le
parole per descrivere quelle realtà, allora dovevano lavorare con le parole
esistenti e sistemarle in un modo strano, in parte canto e in parte profezia.
Il Vecchio Antonio parlava della poesia e
di chi la fa. (Io aggiungerei di chi la traduce, perché anche le traduttrici e
i traduttori della poesia che parla lingue lontane devono essere molto
creatrici e creatori di poesia).
I poeti, le poetesse, vedono più lontano o
vedono in altro modo? Non lo so, ma cercando qualcosa che, dal passato,
parlasse del presente che ci fa male e del futuro incerto, ho trovato questo
scritto di José Emilio Pacheco, che tempo fa mi mandò un mio fratello maggiore
e che viene a proposito perché nessuno capisca:
Prosa del Teschio
Come il demonio dei Vangeli il mio nome è Legione. Sono te perché sei me. O
sarai perché fui. Tu ed io. Noi due. Voi, gli altri, gli innumerevoli voi che
si risolvono in me.
(…)
Poi fui, al punto di trasformarmi in luogo comune, simbolo di saggezza.
Perché la cosa più saggia è anche la più ovvia. Siccome nessuno vuole guardarlo
in faccia non sarà mai superfluo ripeterlo: Non siamo cittadini di questo mondo
ma passeggeri in transito per la terra prodigiosa e intollerabile. Se la carne
è erba e nasce per essere tagliata, sono per il tuo corpo quello che l'albero è
per la prateria: non invulnerabile, neppure durevole, ma materiale consistente
o resistente. Quando tu e tutti i nati nel vuoto del tempo che ti fu dato in
prestito, terminerete di rappresentare il vostro ruolo in questo dramma, questa
farsa, questa tragica e buffa commedia, io rimarrò per lunghi anni: scarno
disincarnato. Serena smorfia, volto segreto che ti rifiuti di guardare (togliti
la maschera: in me troverai il tuo vero volto), benché lo sai intimo e tuo e
che sempre ti accompagna. E porta dentro, in fugaci cellule che ogni istante
muoiono a milioni, tutto ciò che sei: il tuo pensiero, la tua memoria, le tue
parole, le tue ambizioni, i tuoi desideri, le tue paure, i tuoi sguardi che
attraverso la luce erigono l'apparenza del mondo, il tuo allontanamento o
intendimento di ciò che realmente chiamiamo realtà. Quello che ti eleva al di
sopra dei tuoi dimenticati simili, gli animali, e quello che ti pone sotto di
essi: il segno di Caino, l'odio verso la tua specie, la tua capacità bicefala
di fare e distruggere, formica e tarlo.
(…)
Perché vengo con voi ovunque. Sempre con lui, con lei, con te, aspettando
senza protestare, aspettando. Degli eserciti dei miei simile si è forgiata la
storia. Delle mie polveri è impastata la terra.
(…)
Dunque, chi lo direbbe, io - maschera della morte - sono il più profondo
dei tuoi segni di vita, la tua impronta finale, la tua ultima offerta di
spazzatura al pianeta che non sta più in sé stesso per tanti morti. Sebbene
perdurerò solo per breve tempo, in ogni caso molto superiore a quello che hanno
concesso a te.
(…)
Ogni bellezza ed ogni intelligenza giacciono in me, e mi ripudi. Mi vedi
come segno della paura dei morti che si rifiutano di essere morti, o morte pura
e semplice: la tua morte. Perché posso venire a galla solo col tuo naufragio.
Appaio solo quando hai toccato il fondo. Ma ad una certa età mi insinuo nei
solchi che mi disegnano, nei capelli che condividono il mio consunto biancore.
Io, il tuo vero volto, la tua apparenza ultima, il tuo viso finale che ti rende
Nessuno e diventa Legione, oggi ti offro uno specchio e ti dico: Contemplati.
(José Emilio Pacheco, “Prosa del Teschio”, da “Fine di secolo ed altre poesie”, Messico,
Fondo de Cultura Económica / Secretaría de Educación Pública, Lecturas
Mexicanas No. 44, 1984, pp. 114-117)
…….. segue
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