[Ezln-it] Acteal, il racconto degli assassini e la verita' occulta

Annamaria annamariamar at gmail.com
Fri Aug 14 16:54:26 CEST 2009


*La Jornada – Giovedì 13 agosto 2009*



*I raccoglitori dei cadaveri di Ruiz Ferro distrussero la scena del crimine*

*Acteal, il racconto degli assassini e la verità occulta*

*Niente suggeriva la possibilità di fuoco incrociato o scontro*

*Hermann Bellinghausen*

Era l’alba del 23 dicembre 1997. Forse le cinque e mezzo o le sei del
mattino. Era buio. Una colonna di veicoli civili e della polizia, furgoni,
auto ed ambulanze, scendevano dagli Altos provenienti da Acteal. Li seguiva
nella sua auto il corrispondente di *La Jornada* Juan Balboa. Ci disse che
lì c'erano i corpi che venivano portati a Tuxtla Gutiérrez, e che lui
avrebbe seguito il convoglio. L'aveva incontrato più su. I morti, che non
eravamo riusciti a contare, sarebbero risultati essere 45, visti solo da
quelli che li trasportavano, quindi dai medici forensi.

Inviati dal governatore Julio César Ruiz Ferro, i funzionari responsabili
delle operazioni di pulizia (Jorge Enríque Hernández Aguilar, David Gómez
Hernández, Uriel Jarquín Gálvez e gli agenti del Publico Ministero) avevano
fatto qualcosa di insolito: smontare la scena del crimine. Lì sentii per la
prima volta l'ordine che avevano: "Prima che arrivino i giornalisti".

*“Non andateci di notte”*

Nessuno della stampa era ancora salito a Chenalhó su raccomandazione di uno
dei sopravvissuti la notte precedente nell'ospedale regionale di San
Cristóbal de las Casas: "Non andateci di notte. Continuano a sparare alle
auto da Acteal Alto". Gli credemmo.

Mentre le prove materiali del massacro scendevano nella valle di Tuxtla per
perdersi nella nebbia burocratica per tutto un giorno (chiave), io con il
corrispondente dell'agenzia Reuters Jesús Ramírez Cuevas e l'antropologo
Arturo Lomelí proseguimmo verso il luogo dei fatti. Nelle ultime settimane
avevamo percorso questa strada innumerevoli volte.

Dopo esserci lasciati alle spalle Chenalhó e Yabteclum senza un'anima,
arrivammo nel commovente villaggio di Polhó, già allora immenso accampamento
di rifugiati zapatisti. I sopravvissuti del massacro erano concentrati nella
sede autonoma. Bambini, anziani, adulti. Credo di ricordare che tutti
piangevano. Molti ci circondarono, raccontandoci in tzotzil le loro diverse
storie e lamenti, e qualcuno traduceva, per quanto possibile. Molti erano
ricoperti di sangue, non il suo, ma quello dei morti e dei feriti. Un
bambino di 10 anni, illeso, aveva la maglietta insanguinata del sangue dei
suoi genitori morti sopra di lui, salvandogli così la vita.

Da lì proseguimmo per Acteal, pochi chilometri avanti. Ci guidavano un
giovane zapatista ed un membro di Las Abejas, che aveva inoltre il compito
di trovare una bambina ed un'anziana che mancavano (sarebbero ricomparse
vive poco dopo tra i rifugiati). Avevano già l'elenco dei sopravvissuti,
quello dei feriti, e per evidenza o deduzione abbastanza precisa, quello dei
morti. Il governo dovette ammettere quello stesso giorno che erano deceduti
45 indigeni, di diversa età e sesso. Per il governo non avevano nome. Li
restituì numerati.

Ad Acteal, su una collina, l'accampamento di profughi zapatisti era deserto.
Tutti erano a Polhó. Poco più avanti incontrammo due poliziotti in uniforme
ma senza contrassegni. Poi sapemmo chi erano. Uno, il comandante Roberto
García Rivas, con la faccia di circostanza e cercando di mostrarsi sollecito
e tranquillo, ci disse che il giorno prima si erano sentiti degli spari, ma
gli era sembrato normale, "qui si ammazzano così", e che non aveva ricevuto
l'ordine di intervenire. Non dava importanza al fatto, come se lo avesse
sorpreso la quantità di cadaveri estratti dal terrapieno dell'accampamento.
Ignoro se il comandante si fosse mai recato sul luogo dei fatti.

Alle nostre spalle, verso l'alto, ad Acteal Alto, spuntavano degli uomini
che cercavano di non farsi vedere. "Sono loro", dissero le nostre guide.
Nessuno dubitava che fossero armati.

Scendemmo nel burrone chiamato *Campamento Los Naranjos*, nome che non
dovrebbe significare niente. Nemmeno esistere. La vegetazione circostante la
ricordo rovinata, calpestata, distrutta. Le povere casupole e tende dei
rifugiati erano distrutte. In una piccola grotta c'erano ancora abiti
insanguinati; l'uomo di Las Abejas riconobbe di chi erano. La sterpaglia che
scendeva nel burrone fino al fiume mostrava tracce di sangue lascaite
durante la fuga, o la caduta, dei sopravvissuti, che poi salirono a Polhó a
rifugiarsi con gli zapatisti.

*La scena del crimine*

In quel momento era ormai impossibile ricostruire la scena del crimine;
quello che si poteva ancora fare (ignoro se accadde, ma ne dubito) era
rifare la "modifica" realizzata per ordine degli inviati del governo. La
scena di quel crimine era intatta.

Lì ascoltammo i primi racconti in loco, soprattutto per bocca dell'uomo di
Las Abejas. Qui c'era il tal dei tali, qui ce n'era un altro, da lì erano
arrivati gli aggressori, gli aggrediti avevano reagito così o così, e come
alcuni fossero rimasti nella cappella (per modo di dire: tutto era
rudimentale) dove li raggiunse la morte.

Il giovane zapatista riferì che aveva cercato di scendere per due volte il
pomeriggio precedente, accompagnato da tre donne, ma la polizia glielo
impediva dicendogli: "No, stanno ancora sparando, magari vi arriva una
pallottola in testa"; ma alla fine li lasciarono passare e videro i feriti.
"Quindi scesi da solo e portai su un ferito, non so se era un bambino o una
bambina, lì nel ruscello c'erano alcuni compagni (Abejas), allora l'ho
portato nella scuola ed ho chiesto a quei compagni se c'erano altri feriti e
morti, e loro dissero che ce n'erano molti altri (…) e lo dissi al capitano"
(della polizia); questo si trovava nella scuola, dalla quale non si mosse
mai. Arrivarono altri poliziotti e la Croce Rossa, e dissero agli indigeni
che i morti "erano dei loro", e li invitarono a recuperarli. (Dagli appunti
di quel giorno.)

Gli stessi indigeni recuperarono i feriti. Chi alla fine raccolse i
cadaveri, più tardi, furono gli inviati del governo; li portarono sulla
strada, in alto, per portarli a Tuxtla per l'autopsia o qualunque cosa
abbiano fatto.

Quando dieci anni dopo, nel 2006, cominciò a circolare la voce di una
qualche "battaglia" tra bande, o la possibilità che qualcuno, oltre agli
aggressori, avesse "deturpato", "colpito a machete" o "finito" i caduti, mi
sembrò molto sorprendente. L'unica fonte di questa "versione" erano gli
stessi paramilitari rei confessi e condannati, senza che nessuno a Chenalhó
potesse confermarla.

Né l'incontro col comandante García Rivas (presto sarà arrestato), né la
testimonianza immediata dei sopravvissuti, né l'ambiente di fratellanza tra
zapatisti ed *abejas* in quei momenti, né il luogo dei fatti suggerivano,
nemmeno come ipotesi, la possibilità di fuoco incrociato, scontro o
"liquidazione". Si sa solo che la polizia aveva sparato in aria per
proteggersi (almeno così sostengono nelle versioni alla PGR), e che tutti
gli altri spari erano dei paramilitari.

Noi fummo i primi ad arrivare "da fuori" (senza contare i barellieri, la cui
testimonianza non si sa se esiste). I poliziotti lì distaccati "non uscirono
mai dalla scuola", disse la nostra guida zapatista. Rozzamente, senza
dubbio, raccogliemmo le prime testimonianze (tanto difficili da ascoltare,
tanto facili da capire), quando neanche i poliziotti avevano margine per
mentire.

Chi oggi riesuma i morti attraverso le inchieste ufficiali ed i racconti
degli assassini, ha solo una pista concreta, e che persegue: quella dei
raccoglitori dei cadaveri di Julio César Ruiz Ferro; ovvero, i primi
interessati a che la verità esatta non si sapesse mai. Il resto non è né
letteratura, ma pura menzogna.
http://www.jornada.unam.mx/2009/08/13/index.php?section=politica&article=007n1pol

(Traduzione “*Maribel*” – Bergamo  http://chiapasbg.wordpress.com )
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