[Ezln-it] Marcos: Seconda Parte

Annamaria Pontoglio maribel_1994 at yahoo.it
Fri Nov 2 15:35:07 CET 2007


Se alla borsa di domande che voi chiamate “luna”, domandassimo che cosa vide quelle notti sulle montagne del sudest messicano, sicuramente direbbe: “Sembrava un'ombra multipla, senza destinazione, rotta”.  
   
  Indubbiamente io avrei preferito che la luna si riferisse a noi come uno “specchio frammentato”, ma chi fa tante domande non può mentire, cosicché quello eravamo: un'ombra rotta. Forse lo siamo ancora, forse torneremo ad esserlo.
   
  In altre occasioni ho fornito frammenti di questo modo così peculiare che abbiamo noi zapatisti, zapatiste, di affacciarci al futuro, al domani. C'è una specie di ironia della morte e, nello stesso tempo, una grande speranza per la vita.
   
  Perché?
   
  Non sono state poche le albe solitarie in cui ho cercato di rispondere a quella domanda che la luna ci ripete col suo viavai luminoso. È stato il Vecchio Antonio, quell'indigeno di radice maya che per noi fu porta e finestra, che arrischiò una risposta:
  
  “È questione del parlare e del suo tempo. Il presente si parla individualmente, il passato ed il futuro collettivamente. La morte, dunque, è una questione che ha potere solo individualmente e la vita è possibile solo collettivamente. Per questo diciamo ‘muoio’ e per questo diciamo ‘viviamo’, e ‘vivremo’ ”.
   
  Allora, ora ricordo la diagnosi tipica delle infermiere zapatiste che così la comunicavano ai pazienti. Non era “non è grave, guarirai”, ma “di sicuro morirai, ma non subito, ci vorrà ancora del tempo”. Il paziente si rimetteva rapidamente. Non so se per lo stimolo di una diagnosi tanto motivante
 o perché, preparando l'iniezione l'insurgenta addetta alla sanità aveva la gentilezza di informare il paziente che l'ultima volta che aveva fatto un'iniezione le si era rotto l'ago nella natica del compagno. “Povero compa”, diceva mentre strofinava con un batuffolo di cotone inzuppato di alcool la zona dove avrebbe fatto l'iniezione, “credo che abbia ancora dentro il pezzo di ago, per questo zoppica”.
   
  Con tutto questo voglio dire che 14 anni fa pensavamo sì alla morte, ma era una faccenda privata, come lo sono lo spazzolino da denti e la biancheria intima
 be, se si può chiamare biancheria intima quei pezzetti di tessuto che le donne usano adesso e che, inoltre, si sistemano perché si vedano spuntare dai pantaloni che cadono sui fianchi.
   
  Mmm
 mi sta venendo fame, quindi è meglio che mi affretti a completare quello che voglio dirvi

   
  Vi stavo dicendo che sì, la morte possibile e probabile era, ed è, una questione individuale e personale, la vita era ed è, per noi, una questione collettiva su come eravamo, siamo, saremo.
   
  In altre parole, per lo zapatismo dell’EZLN, il fallimento e la morte si coniugano alla prima personale singolare (“Io, Me, A me, Con me”), che ha dato il titolo ad uno dei dischi di Joaquín Sabina); invece, il successo e la vita portano sempre in mano il “noi” che ci dà identità, passato e domani (quello che si conosce come “Utopia” che, per certo, è il nome di uno dei dischi di Joan Manuel Serrat).
   
  In sintesi, quella vigilia della guerra contro l'oblio, non è che non portassimo, oltre al fuoco, dei dubbi. Li avevamo, e molti. Ma non si riferivano al nostro destino individuale o collettivo. Queste questioni erano state risolte tempo prima, quando ognuno di noi, ognuna di noi, eravamo arrivati al punto in cui, questo sì è qualcosa di personale ed individuale, eravamo arrivati alla grande biforcazione che normalmente presenta l'andar del mondo: in alto o in basso? A destra o sinistra? Protagonismo individuale o anonimato collettivo? Luce o ombra?
   
  No, i dubbi avevano a che vedere con quello che avremmo trovato là fuori.
   
  Imputatelo al nostro pessimismo dialettico o alla nostra sfiducia ancestrale, ma il fatto è che pensavamo che saremmo stati ricevuti col silenzio, la sordità, la condanna, la lapidazione. Chiaro, oltre che con pallottole e bombe. “Non sono bombe, sono razzi”, disse l'autodenominato storiografo ed allora fan di Carlos Salinas de Gortari, come poi lo sarebbe stato di Ernesto Zedillo, Vicente Fox, López Obrador (prima della frode, chiaro) ed ora lo è di Felipe Calderón. Credo si chiami Héctor Aguilar Camín che, di sicuro, ora firma un libro su Acteal, perché Tello Díaz non era disponibile. Altro denaro per ampliare gli annessi e connessi in cambio del lavaggio del crimine di Stato che porta il timbro della guerra di sterminio che compie ormai 515 anni.
   
  Balza all'attenzione che la memoria che si fa di Acteal riporti il logo di Gustavo Iruegas, addetto alle relazioni esterne del cosiddetto governo legittimo di López Obrador. E che, nel momento in cui si denuncia la partecipazione di ex guerriglieri nella strategia di contrainsurgencia che si scatenò allora e che culminò col Massacro di Acteal, si dimentica che uno dei capi della delegazione governativa di Zedillo era il signor Iruegas, oggi improvvisamente convertito alla causa della sinistra.
   
  Bene, non divaghiamo, dopotutto lassù, Aguilar Camín troverà da chi riscuotere.
   
  Ritorniamo a quei giorni. Perché risulta che ci sbagliammo. E ci sbagliammo doppiamente.  
   
  Perché incontrammo sì, gli Annessi e Connessi e le relative Svolte a destra, ma incontrammo anche allora chi, pensammo allora, tentava di capire, di capirci.
   
  Già prima ho fatto riferimento al fatto che, a quell'epoca, abbiamo avuto la fortuna di contare sull'interesse dei lavoratori dei mezzi di comunicazione, oltre ad artisti, intellettuali e scienziati progressisti. L'ascolto che prestarono allora è qualcosa che fu fondamentale e che ricordiamo ogni volta con più nostalgia.

       
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