[Redditolavoro] 10 gennaio: a tre anni dalla firma del Testo Unico sulla rappresentanza

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Thu Jan 12 14:37:24 CET 2017


10 gennaio: a tre anni dalla firma del Testo Unico sulla rappresentanza
Sono passati mille giorni dalla firma del Testo Unico sulla rappresentanza.
Alcune riflessioni sulle celebrazioni di un inconcludente accordo che
limita l’autonomia del lavoro

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Sono passati tre anni dalla firma del Testo Unico sulla rappresentanza.
Ricordiamo cosa sostiene questo accordo, siglato da CGIL, CISL, UIL e
Confindustria: la rappresentanza sindacale è misurata da un rapporto tra
tesseramento e risultati RSU; i contratti devono essere firmati da
organizzazioni che abbiano almeno il 50%+1 della rappresentanza, con il
voto del 50%+1 degli interessati. Nel contempo si prevede l’impossibilità
di scioperare contro questi accordi, anche se non li si condivide (con
sanzioni per i sindacati che li organizzano e anche per lavoratori e
lavoratrici che vi partecipano); l’incandidabilità (e conseguente
inagibilità) se non si condivide questa regola; la subordinazione delle RSU
alla propria organizzazione, pena la loro decadenza. Questo testo, come
d’altronde la successiva Carta dei Diritti, sottolinea quindi diritti e
prerogative delle organizzazioni sindacali, più che di lavoratori e
lavoratrici. Il “sindacato degli iscritti” compie così un passo avanti,
informando in qualche modo anche la stessa elaborazione della CGIL.

Il Testo Unico si propone quindi di disciplinare il comportamento di
lavoratori e lavoratrici in funzione dell’esigibilità padronale. In una
fase segnata dalla Grande Crisi, dalla necessità di recuperare ogni margine
di profitto attraverso il controllo dell’orario e l’intensificazione dello
sfruttamento, si prova a limitare il conflitto nel lavoro: si vuole
contenere quelle resistenze, quelle insubordinazioni, quelle lotte che
possono talvolta inceppare la produzione. Si vuole controllare la variabile
umana del capitale, la sua parte viva, cercando di subordinare diritti,
aspettative e desideri degli uomini e delle donne inseriti nei processi
produttivi. Si intende cioè comprimere l’autonomia del lavoro. Per questo,
oggi come tre anni fa, siamo stati nettamente contrari a questo accordo.

La CGIL invece oggi lo celebra. In particolare, in una prima pagina di
Rassegna Sindacale, con un’intervista a Franco Martini, della Segreteria
confederale. Non finirò mai di stupirmi dell’inconcludenza dell’attuale
linea della CGIL (al netto dal mio dissenso da essa, a partire dalla
compressione di diritti fondamentali come quelli di rappresentanza e di
sciopero).

Questo accordo è inapplicato da tre anni, nella certificazione della
rappresentanza, perché Governo e padronato continuano a sabotarlo (lo
riconosce persino Martini nella sua intervista). Nella frenesia di
smantellare contratti e diritti, non vogliono neppure provare a fare i
conti con i possibili lacci e lacciuoli di un’impalcatura democratica che
si è dovuto erigere per poterne rendere digeribile l’esigibilità. I
sindacati hanno quindi dovuto iniziare a dimostrare “responsabilità” (come
per esempio ha fatto la FIOM in FCA, sospendendo ogni azione di sciopero
nei sabati comandati, sia quando questi erano seguiti da una parte limitata
di lavoratori e lavoratrici come talvolta a Melfi, sia quando ottenevano
partecipazioni ragguardevoli come talvolta a Termoli), senza mai ottenere
le previste certificazioni ed i relativi processi di voto (come si vede con
le tante RSU non rinnovate, come si è dimostrato recentemente nell’igiene
ambientale, dove la consultazione sul rinnovo contrattuale tutto è stata,
eccetto che trasparente e verificabile).
Allora come si fa a celebrare questo accordo se mille e più giorni dopo, a
fronte di tutto quello che si è ceduto, ancora non si vede alba di come
sarà effettivamente concretizzato sia il processo di certificazione, sia
quello di definizione delle rispettive platee di RSU ed il loro regolare
rinnovo?

Questo accordo, si ricorda poi, avrebbe permesso un profondo rinnovamento
del sindacalismo confederale nel segno dell’unità. Ora, di questa nuova
stagione unitaria non vedo particolare traccia. Il contrasto al governo
Renzi, a partire dal Jobs Act, è stato portato avanti dalla sola CGIL, a
cui poi è seguita la UIL il 12 dicembre. La stessa Carta dei Diritti ed i
successivi referendum, il baricentro dell’iniziativa CGIL dopo la ritirata
sul Jobs Act, sono stati condotti in splendida solitudine. Anzi, proprio in
queste settimane, CISL e UIL si sono espresse frontalmente contro questa
strategia. Mentre le iniziative unitarie condotte sono state eteree
(qualcuno ricorda la campagna estiva su fisco e pensioni nel 2014 o le
assemblee contro la Legge di stabilità nel dicembre 2015?), o ancora
limitate a specifici settori e talvolta contrastate dalle rispettive
confederazioni (grande distribuzione e scuola). Le cronache sindacali di
questi ultimi trenta mesi, quindi, non sono state segnate da particolari
processi unitari. Ancor meno da profondi rinnovamenti: quello che talvolta
ha dominato i titoli dei giornali, e che probabilmente inciderà anche sui
prossimi congressi di CISL e UIL, è invece stata l’emersione di vari
scandali sull’utilizzo delle risorse. Pratiche dubbie - dagli emolumenti
dei dirigenti CISL ai “seminari in crociera” della segreteria UIL -
contrastate con iniziative evanescenti, che pongono oggettivamente molte
incertezze sul rinnovamento in corso. Allora, anche su questo versante,
sulla supposta costruzione di un sindacalismo confederale rinnovato e
radicato nei luoghi di lavoro, sia lecito avanzare qualche dubbio che rende
difficile oggi celebrare il Testo Unico come momento di svolta.

Infine, si richiama la complicatissima stagione dei rinnovi in corso. Una
stagione effettivamente segnata da una linea unitaria, definita intorno
allo scambio tra un controllo padronale sull’organizzazione del lavoro
(produttività, competitività, efficienza) e una «crescita dei salari, non
solo riferita alla tutela del potere d’acquisto, per la generalità delle
lavoratrici e dei lavoratori». Una stagione che, non ancora conclusa,
appare inconcludente nei risultati: i limitati aumenti sin qui ottenuti
(tra i 70 ed i 100 euro a seconda dei contratti) sono stati pagati
pesantemente non solo sul fronte dell’organizzazione del lavoro, ma anche
dei sottoinquadramenti, dell’aumento dell’orario, del prolungamento
quadriennale dei CCNL. Per di più, questi cedimenti sono stati distribuiti
nei diversi contratti a seconda delle differenti condizioni, sfumando
significativamente la tenuta di una linea confederalmente unitaria. Per la
prima volta (a memoria di sindacalista), inoltre, questa stagione ha
conosciuto persino la sospensione degli aumenti previsti in un contratto
firmato (commercio, novembre 2016): introducendo il dubbio che ogni accordo
possa essere oggi scritto sull’acqua, soggetto all’andamento economico o ai
rapporti di forza della contingenza.
Questa stagione, infine, ha visto il rinnovo dei meccanici. Un rinnovo,
però, su un impianto diverso da quello degli altri contratti: da una parte
si sono accettate le flessibilità organizzative del 2012 (del precedente
contratto separato), ma dall’altra non si sono conquistati neppure i pochi
spiccioli previsti negli altri contratti. Anzi, si è limitato il CCNL alla
pura registrazione dell’aumento dell’inflazione a posteriori, inserendo per
la prima volta forme estese di welfare contrattuale, sfibrando quindi nel
complesso la stessa logica di un contratto nazionale. Allora, ci
domandiamo, quale reale produzione “unitaria” ha rappresentato e sta
rappresentando questa stagione contrattuale? Siamo proprio sicuri si possa
celebrare il Testo Unico (che proprio tra i metalmeccanici ha così inciso
nella definizione di un percorso unitario, come ha ammesso lo stesso
Landini) come un passaggio fondamentale per l’insieme del mondo del lavoro?

Il punto, allora, è che forse non si dovrebbe celebrare questo accordo. Un
testo unico che restringe la democrazia nei luoghi di lavoro, che a mille
giorni di distanza è ancora parzialmente inapplicato e che si sta anche
dimostrando incapace di segnare una reale prassi ricompositiva del lavoro.
Un Testo per fortuna ancora inconcluso che speriamo si areni nel nulla,
messo in discussione nelle prassi concrete dalla necessaria ripresa di un
conflitto diffuso, al di dà delle rituali celebrazioni sindacali.

Il punto, allora, è che forse la CGIL dovrebbe smetterla, di fronte agli
attacchi volgari e sguaiati dell'Unità e del PD, di fronte a chi oramai
oggi si è schierato dalla parte del padrone, di sottolineare la propria
buona volontà. Dovrebbe invece cogliere questa occasione per trarre un
bilancio delle inconcludenze di una linea, tesa alla ricerca di una
cogestione con governo e padronato, di fronte ad un governo ed un padronato
che non intendono invece costruire nessun compromesso con il lavoro.
Dovrebbero quindi cogliere l’occasione di una svolta: difendere finalmente,
con orgoglio e determinazione, l’autonomia del lavoro, riprendendo a
dispiegare il conflitto sociale, per cambiare nel paese e nei posti di
lavoro i rapporti di forza tra le classi.

Luca Scacchi
Direttivo nazionale CGIL
Il sindacato è un'altra cosa - opposizione CGIL
fonte
www.pclavoratori.it  -  info a pclavoratori.it
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