[Redditolavoro] E' scomparso il compagno Stefano Tassinari

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Wed May 9 11:52:26 CEST 2012


 E' scomparso il compagno Stefano Tassinari

(8 Maggio 2012)

E' morto ieri sera dopo otto anni di malattia il compagno Stefano
Tassinari. Aveva solo 56 anni, segnati dalla lunghissima militanza
comunista: giovanissimo militante ferrarese di Avanguardia Operaia, lavorò
come giornalista al Quotidiano dei Lavoratori; poi fu dirigente di
Democrazia Proletaria, un passaggio tra le file dei Verdi – con un'elezione
nel consiglio comunale ferrarese – per approdare poi in Rifondazione
Comunista; senza aderire ad altre organizzazioni politiche lasciò il Prc
dopo la svolta governista del partito.
Prima giornalista e poi instancabile animatore culturale e scrittore, ci
lascia alcuni importanti romanzi, tra cui L'ora del ritorno – il lungo
viaggio politico di un trotskista nel dopoguerra – e Il vento contro,
romanzo storico sulla figura di Pietro Tresso.

Vogliamo ricordarlo ripubblicando qui sotto il suo articolo L'IMPORTANZA
DELLA CULTURA NELLA TEORIA E NELLA PRATICA POLITICA DI LEV TROTSKY,
pubblicato lo scorso anno prima su Letteraria – rivista da lui diretta – e
poi dal Giornale Comunista dei Lavoratori.

Ciao compagno Stefano

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L'IMPORTANZA DELLA CULTURA NELLA TEORIA E NELLA PRATICA POLITICA DI LEV
TROTSKY
RIVOLUZIONE ED ARTE QUOTIDIANA
di Stefano Tassinari


Mi sono sempre chiesto come abbia fatto Lev Trotsky, mentre combatteva in
prima persona contro le guardie bianche del generale Kornilov o cercava di
resistere alla mostruosa macchina repressiva di Stalin, a trovare il tempo
e la freschezza mentale per occuparsi di Dante e di Shakespeare, di Byron e
di Puškin e poi, via via, di Blok, Esenin, Majakovskj e persino di
D’Annunzio e di Silone.
Alla fine mi sono sempre risposto, banalmente, che ci riusciva perché era
una persona geniale, ma anche – ed è ciò che ci interessa di più in questo
contesto – perché aveva capito, primo fra tutti, che la sfera culturale era
decisiva in assoluto (e cioè per la formazione di una diffusa coscienza
critica, valore decisivo di per sé) e in relativo (e dunque per consentire
uno sviluppo coerente di una rivoluzione che, per essere tale, non poteva
restare confinata nella dimensione economica).
Purtroppo, la sistematica cancellazione della sua figura e delle sue opere
da parte dei dirigenti stalinisti dei partiti comunisti (particolarmente
riuscita nell’Italia togliattiana e anche post-togliattiana) ha fatto sì
che intere generazioni di militanti e intellettuali della sinistra non
siano state in grado di confrontarsi con posizioni e proposte specifiche -
inerenti al cosiddetto “mondo della riproduzione” – attraverso le quali
Trotsky aveva seminato un percorso politico che, se intrapreso, forse
avrebbe impedito all’utopia comunista di sgretolarsi nelle forme che ben
conosciamo, finendo con l’essere sommersa da quelle macerie che appare
sempre più difficile rimuovere per costruire qualcosa di diverso.
E’ evidente che stiamo ragionando in termini di ipotesi, perché non abbiamo
a disposizione una controprova, ma è altrettanto chiaro che, se le sue
teorie sull’autonomia (almeno parziale) della sfera culturale da quella
politica, sulla possibilità che proprio nell’agire artistico e culturale si
sviluppi la coscienza critica e sul legame tra dimensione collettiva (la
rivoluzione) e dimensione individuale (la vita quotidiana) si fossero
radicate a livello popolare, quanto meno si sarebbero evitati i disastri
del socialismo reale. Ciò non significa che, soprattutto nei primi anni
successivi alla rivoluzione d’Ottobre, Trotsky non abbia espresso anche
posizioni ambigue e gravi, come quando giustificò la scelta del governo
bolscevico di aver mandato in esilio lo scrittore dissidente Arcybašev, in
quanto, disse, “il bene della rivoluzione è per noi la legge suprema”, e
chi metteva in discussione tale bene era “giustamente” soggetto a misure
repressive come l’esilio. Qualche anno dopo, come è noto, lo stesso Trotsky
fu vittima di un provvedimento odioso come l’esilio, e anche questo, non vi
è dubbio, contribuì ad allargare le sue vedute in materia di dissenso
politico. Detto questo, anche nel periodo più controverso – quando, cioè,
Trotsky occupava ruoli di grande potere – le sue posizioni sulla cultura
furono le più avanzate tra quelle espresse nel mondo bolscevico. Fu lui, ad
esempio, a contrastare con forza le idee dei cosiddetti “napostovcy”,
secondo i quali era necessario imporre agli autori di seguire i dettami di
una presunta “letteratura proletaria”, che Trotsky non solo considerava
sbagliata, ma addirittura inesistente (a tal proposito è rimasto il celebre
l’intervento sarcastico con cui si rivolse al redattore della rivista “Na
postu”, Lelevič, dicendogli: “Siamo pronti aaccettare la definizione
di Letteratura proletaria, basta che, oltre alla definizione, ci diate
anche la letteratura!”).
In sostanza, per Trotsky non aveva alcun senso piegare la creatività
artistica alle esigenze, anch’esse presunte, del partito e/o del governo,
così come non ne aveva stabilire quali fossero le giuste linee tematiche e
stilistiche della letteratura sulla base di quanto deciso dal Comitato
centrale del Partito Comunista (come invece avverrà, purtroppo, ai tempi di
Zdanov e di Stalin).
Non a caso, fu l’unico tra i dirigenti bolscevichi a schierarsi apertamente
a favore dei cosiddetti “compagni di strada”, invisi ai burocrati – e in
primo luogo ai mediocri scrittori che puntavano a consolidare una carriera
letteraria potendo vantare, come unico talento, la propria fedeltà
all’apparato di partito…. – e al centro di attacchi durissimi, soltanto per
via dei loro riferimenti al simbolismo o alla poesia immaginifica. Quando,
ad esempio, Sergej Esenin si suicidò, Trotsky – che lo definì “un poeta
così splendido, così fresco, così vero” – si domandò, polemicamente, “come
fosse possibile gettare un rimprovero dietro al più lirico dei poeti, che
noi non siamo stati capaci di conservare?”. Eppure, proprio quel lirismo e
quei riferimenti “contadini” così presenti nella sua poesia avevano fatto
di Esenin un bersaglio della critica ufficiale, il che testimonia come
Trotsky fosse del tutto immune da certe logiche manichee, come aveva già
dimostrato anni prima, quando lo stesso fuoco di fila investì Alexander
Blok, scomparso a soli quarantun anni nel 1921. Blok, prima amatissimo
anche dagli intellettuali di cultura nobiliare e poi odiato da questi
stessi personaggi per aver scritto il poema “I dodici” (da loro giudicato
“bolscevico”), non fu mai accettato realmente dagli ambienti rivoluzionari
in quanto la sua lirica, scritta in gran parte prima dell’Ottobre, venne
bollata da chi vagheggiava una letteratura “di partito” come simbolista,
misticheggiante e romantica.
Anche in questo caso fu Trotsky a difenderlo (malgrado ritenesse,
sbagliando, che la componente più lirica della sua poesia non gli sarebbe
sopravvissuta), non solo esaltando “I dodici” ( e fin qui è comprensibile,
dato il tema molto politico del poema), ma sposando la tesi di Blok sulla
necessità di “raffrontare i fatti di tutte le sfere della vita accessibili
al mio occhio in un dato momento”, nella convinzione che “tutti insieme,
quei fatti creino un unico accordo musicale.”. Per Trotsky, questa
dichiarazione confutava l’idea dell’estetismo autosufficiente, deponendo a
favore del legame naturale tra l’arte e la vita sociale, convinzione da
sempre alla base del suo pensiero. Per lui, infatti, la giusta autonomia
della sfera culturale da quella strettamente politica non ha mai
significato indipendenza dell’arte dalla dimensione sociale (cosa ben
diversa), ma, casomai, la possibilità di utilizzare la cultura come
strumento per mettere quotidianamente in discussione lo stato delle cose
(concetto ben espresso dalla sua famosa frase: “l’arte non è uno specchio,
ma un martello.”). D’altronde, questa non facile – per il contesto storico
– presa di posizione a sostegno dell’idea stessa di “messa in discussione”
culturale e sociale (poi sviluppata anche in termini direttamente politici,
grazie alla sua teoria della “rivoluzione permanente”) è alla base anche
del suo grande interesse nei confronti delle avanguardie e dei movimenti
artistici, in particolare del Futurismo prima (pur con qualche perplessità,
dato che lo riteneva “piombato” dentro la rivoluzione) e del Surrealismo
poi. E se al Futurismo russo riconosceva di rappresentare “la rivolta
dell’ala sinistra semipauperizzata degli intellettuali contro l’estetica
chiusa e di casta degli intellettuali borghesi”, e di costituire “la lotta
contro il vecchio vocabolario e la vecchia sintassi della poesia”, quindi
“contro un vocabolario chiuso, artificialmente selezionato in modo che
nulla d’estraneo venisse a perturbarlo”, nei confronti del Surrealismo
espresse forme di adesione più entusiastiche, al punto da creare un vero e
proprio sodalizio con il suo fondatore André Breton, con il quale scrisse a
quattro mani il manifesto intitolato “Per un’arte rivoluzionaria
indipendente”. In quel manifesto, tra l’altro, si dichiara che “l’arte e la
poesia devono rimanere interamente libere”, concetto che, se oggi sembra
ovvio (a noi, ma non a tutti, specie a certi dirigenti comunisti che non si
sono mai realmente affrancati dallo stalinismo), a quei tempi era
assolutamente minoritario.
E’ anche vero che, a un personaggio come Trotsky, il Surrealismo non poteva
non provocare una grande simpatia fin dai suoi albori, dato che, se il
primo manifesto metteva l’anticonformismo al centro della propria
dichiarazione d’intenti, nel secondo manifesto surrealista l’approccio
politico è reso ancor più esplicito nel momento in cui si chiarisce di non
poter evitare di “porci in modo bruciante il problema del regime sociale
sotto cui viviamo”, e quindi “l’accettazione o la non accettazione di
questo regime”. Sbaglierebbe, però, chi pensasse a un Trotsky attento alla
sfera artistica solo in relazione alla sua “politicità”. Non è così, nel
modo più assoluto, e in tal senso è sufficiente leggere qualcuna delle sue
tante pagine dedicate alla poesia o all’arte figurativa, per comprendere
come fosse fortemente sollecitato dagli aspetti formali ed estetici, la cui
innovazione riteneva una conquista.
E infatti, già negli anni Venti, a proposito delle forme usate dai
futuristi, scriveva: “La poesia è cosa non tanto razionale quanto
emozionale, e la psiche umana, che ha assorbito i ritmi e i nodi ritmici
biologici e social-lavorativi, cerca la loro immagine idealizzata nel
suono, nel canto, nella parola artistica.
Finché questa esigenza è viva, le rime e i ritmi futuristi, più flessibili,
audaci e variati, costituiscono una conquista indubbia e pregevole.
Altrettanto indiscutibili sono le conquiste dei futuristi nel campo della
strumentazione del verso. Non si può dimenticare che il suono della parola
è l’accompagnamento acustico del senso.”. E sempre a proposito del
Futurismo e delle polemiche portate avanti nei suoi confronti dalla
burocrazia bolscevica – secondo i cui esponenti, il Futurismo andava
combattuto perché le opere futuriste erano “inaccessibili alle masse” –
Trotsky rispose ancora una volta con l’arma dell’ironia, identificandosi in
quei futuristi per i quali “anche Il Capitaledi Karl Marx è inaccessibile
alle masse”, dato che”le masse, naturalmente, non hanno una preparazione
culturale ed estetica e si eleveranno lentamente.”. Anche in questo caso,
Trotsky pone con forza la questione della crescita culturale del
proletariato, nella convinzione che si tratti di un obiettivo decisivo se
si vuole che il potere, dopo aver cambiato mano, non rimanga un affare di
pochi.
Purtroppo perderà, anche sotto questo profilo, lasciando però delle
indicazioni che oggi sarebbe giusto riprendere, in quanto ancora di stretta
attualità (è la Storia ad essere andata così poco avanti o siamo noi ad
essere rimasti così indietro?). Non abbiamo spazio, in questa sede, per
affrontare le tante polemiche, o le tante riflessioni, dedicate da Trotsky
a svariati scrittori ed artisti di diverse epoche (da Cervantes a Wedekind,
dall’amato Puškin aTolstoj, da Pil’njak a Kljuev, da Egger-Lienz a
Schulda), rimandandovi, per questo, alla lettura del suo fondamentale
“Letteratura e rivoluzione” pubblicato da Einaudi, ma qualche riga dobbiamo
dedicarla a una specifica diatriba riguardante il giudizio sull’opera di
Dante, in quanto emblematica del pensiero di Trotsky sull’arte. Nel suo
scontro con i sostenitori della letteratura proletaria, Trotsky riprese un
giudizio espresso da Raskol’nikov sulla “Divina commedia”, la quale,
secondo lo stesso Raskol’nikov era da “considerare preziosa, proprio perché
permette di capire la psicologia di una classe determinata di un’epoca
determinata”. Trotsky reagì a questa posizione, dicendo che “ porre così il
problema significa semplicemente cancellare la Divina commediadalla sfera
dell’arte (…), trasformandola in un documento storico soltanto, perché come
opera d’arte la Divina commediadeve dire qualcosa ai miei propri sentimenti
e stati d’animo.”.
Ecco, ci sembra che questa piccola polemica sia in grado di illustrare al
meglio la concezione trotskiana della cultura e dell’arte, non dimenticando
che per il grande rivoluzionario la cultura è innanzi tutto un fenomeno
sociale, che ha bisogno della lingua come strumento più prezioso di
comunicazione, ma anche di essere recuperata integralmente da chi non la
conosce (“La padronanza dell’arte del passato è una condizione necessaria
non solo per la creazione della nuova arte, ma per la costruzione di una
nuova società”). Vien da dire che, a parte Gramsci, nessun rivoluzionario
di quell’epoca ha sostenuto queste posizioni e che, proprio nella loro
marginalità, sta forse la principale chiave di lettura della sconfitta
storica del comunismo, per lo meno nella versione con cui siamo stati
costretti a fare i conti, e cioè quella staliniana prima e stalinista poi.
Dietro la mancanza di dialettica culturale, infatti, c’è stata la mancanza
di dialettica politica, prima fonte di creazione dell’autoritarismo che, di
per sé, dovrebbe essere la negazione di una società socialista.
Ripartire dalla concezione trotskista della cultura e dall’individuazione
della “questione culturale” come priorità può rappresentare un modo
(l’unico? Il principale?) per cominciare a ricostruire un pensiero critico,
depurato da molte scorie novecentesche e fondato su un assunto che ci pare
ovvio e che era già chiaro allo stesso Trotsky quasi un secolo fa: la
nostra liberazione, anche culturale, non può dipendere dalla trasformazione
economica e strutturale della società, ma deve andare di pari passo con
quest’ultima, esprimendosi anche in forme del tutto autonome, quindi come
valore in sé.
Per seguire questa strada, però, non bisogna farsi condizionare da quei
meccanismi tipici di un certo modo di fare politica, che, paradossalmente,
hanno trionfato (entrando nella testa dei più) provocando automaticamente
una sconfitta storica. E per farlo, forse, sarebbe utile ripescare le
riflessioni e le teorie di quel Trotsky che, un grande pensatore e
militante anarchico (dunque lontano dalle sue posizioni), il francese
Maurice Joyeux, descrisse con queste parole. “Si possono certo discutere le
posizioni politiche di Trotsky, sia riconoscergli una certa responsabilità
nell’evoluzione del comunismo in Russia, ma è a mia conoscenza il solo
marxista che si sia rifiutato a porre l’espressione letteraria o artistica
a rimorchio di un partito.”.

Articolo tratto, su autorizzazione dell'autore, da Nuova rivista Letteraria
– semestrale di letteratura sociale – novembre 2010 – edizioni Alegre

Michele Terra
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