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<h1 class="titolo_pagina_newsletter">E' scomparso il compagno Stefano Tassinari </h1>
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<p class="data_notizia_newsletter">(8 Maggio 2012) </p>
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<p class="testo_newsletter">E' morto ieri sera dopo otto anni di
malattia il compagno Stefano Tassinari. Aveva solo 56 anni, segnati
dalla lunghissima militanza comunista: giovanissimo militante ferrarese
di Avanguardia Operaia, lavorò come giornalista al Quotidiano dei
Lavoratori; poi fu dirigente di Democrazia Proletaria, un passaggio tra
le file dei Verdi – con un'elezione nel consiglio comunale ferrarese –
per approdare poi in Rifondazione Comunista; senza aderire ad altre
organizzazioni politiche lasciò il Prc dopo la svolta governista del
partito.
<br>Prima giornalista e poi instancabile animatore culturale e
scrittore, ci lascia alcuni importanti romanzi, tra cui L'ora del
ritorno – il lungo viaggio politico di un trotskista nel dopoguerra – e
Il vento contro, romanzo storico sulla figura di Pietro Tresso.
<br>
<br>Vogliamo ricordarlo ripubblicando qui sotto il suo articolo
L'IMPORTANZA DELLA CULTURA NELLA TEORIA E NELLA PRATICA POLITICA DI LEV
TROTSKY, pubblicato lo scorso anno prima su Letteraria – rivista da lui
diretta – e poi dal Giornale Comunista dei Lavoratori.
<br>
<br>Ciao compagno Stefano
<br>
<br>______________________________
<br>
<br>L'IMPORTANZA DELLA CULTURA NELLA TEORIA E NELLA PRATICA POLITICA DI LEV TROTSKY
<br>RIVOLUZIONE ED ARTE QUOTIDIANA
<br>di Stefano Tassinari
<br>
<br>
<br>Mi sono sempre chiesto come abbia fatto Lev Trotsky, mentre
combatteva in prima persona contro le guardie bianche del generale
Kornilov o cercava di resistere alla mostruosa macchina repressiva di
Stalin, a trovare il tempo e la freschezza mentale per occuparsi di
Dante e di Shakespeare, di Byron e di Puškin e poi, via via, di Blok,
Esenin, Majakovskj e persino di D’Annunzio e di Silone.
<br>Alla fine mi sono sempre risposto, banalmente, che ci riusciva
perché era una persona geniale, ma anche – ed è ciò che ci interessa di
più in questo contesto – perché aveva capito, primo fra tutti, che la
sfera culturale era decisiva in assoluto (e cioè per la formazione di
una diffusa coscienza critica, valore decisivo di per sé) e in relativo
(e dunque per consentire uno sviluppo coerente di una rivoluzione che,
per essere tale, non poteva restare confinata nella dimensione
economica).
<br>Purtroppo, la sistematica cancellazione della sua figura e delle sue
opere da parte dei dirigenti stalinisti dei partiti comunisti
(particolarmente riuscita nell’Italia togliattiana e anche
post-togliattiana) ha fatto sì che intere generazioni di militanti e
intellettuali della sinistra non siano state in grado di confrontarsi
con posizioni e proposte specifiche - inerenti al cosiddetto “mondo
della riproduzione” – attraverso le quali Trotsky aveva seminato un
percorso politico che, se intrapreso, forse avrebbe impedito all’utopia
comunista di sgretolarsi nelle forme che ben conosciamo, finendo con
l’essere sommersa da quelle macerie che appare sempre più difficile
rimuovere per costruire qualcosa di diverso.
<br>E’ evidente che stiamo ragionando in termini di ipotesi, perché non
abbiamo a disposizione una controprova, ma è altrettanto chiaro che, se
le sue teorie sull’autonomia (almeno parziale) della sfera culturale da
quella politica, sulla possibilità che proprio nell’agire artistico e
culturale si sviluppi la coscienza critica e sul legame tra dimensione
collettiva (la rivoluzione) e dimensione individuale (la vita
quotidiana) si fossero radicate a livello popolare, quanto meno si
sarebbero evitati i disastri del socialismo reale. Ciò non significa
che, soprattutto nei primi anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre,
Trotsky non abbia espresso anche posizioni ambigue e gravi, come quando
giustificò la scelta del governo bolscevico di aver mandato in esilio lo
scrittore dissidente Arcybašev, in quanto, disse, “il bene della
rivoluzione è per noi la legge suprema”, e chi metteva in discussione
tale bene era “giustamente” soggetto a misure repressive come l’esilio.
Qualche anno dopo, come è noto, lo stesso Trotsky fu vittima di un
provvedimento odioso come l’esilio, e anche questo, non vi è dubbio,
contribuì ad allargare le sue vedute in materia di dissenso politico.
Detto questo, anche nel periodo più controverso – quando, cioè, Trotsky
occupava ruoli di grande potere – le sue posizioni sulla cultura furono
le più avanzate tra quelle espresse nel mondo bolscevico. Fu lui, ad
esempio, a contrastare con forza le idee dei cosiddetti “napostovcy”,
secondo i quali era necessario imporre agli autori di seguire i dettami
di una presunta “letteratura proletaria”, che Trotsky non solo
considerava sbagliata, ma addirittura inesistente (a tal proposito è
rimasto il celebre l’intervento sarcastico con cui si rivolse al
redattore della rivista “Na postu”, Lelevi&#269;, dicendogli: “Siamo
pronti aaccettare la definizione di Letteratura proletaria, basta che,
oltre alla definizione, ci diate anche la letteratura!”).
<br>In sostanza, per Trotsky non aveva alcun senso piegare la creatività
artistica alle esigenze, anch’esse presunte, del partito e/o del
governo, così come non ne aveva stabilire quali fossero le giuste linee
tematiche e stilistiche della letteratura sulla base di quanto deciso
dal Comitato centrale del Partito Comunista (come invece avverrà,
purtroppo, ai tempi di Zdanov e di Stalin).
<br>Non a caso, fu l’unico tra i dirigenti bolscevichi a schierarsi
apertamente a favore dei cosiddetti “compagni di strada”, invisi ai
burocrati – e in primo luogo ai mediocri scrittori che puntavano a
consolidare una carriera letteraria potendo vantare, come unico talento,
la propria fedeltà all’apparato di partito…. – e al centro di attacchi
durissimi, soltanto per via dei loro riferimenti al simbolismo o alla
poesia immaginifica. Quando, ad esempio, Sergej Esenin si suicidò,
Trotsky – che lo definì “un poeta così splendido, così fresco, così
vero” – si domandò, polemicamente, “come fosse possibile gettare un
rimprovero dietro al più lirico dei poeti, che noi non siamo stati
capaci di conservare?”. Eppure, proprio quel lirismo e quei riferimenti
“contadini” così presenti nella sua poesia avevano fatto di Esenin un
bersaglio della critica ufficiale, il che testimonia come Trotsky fosse
del tutto immune da certe logiche manichee, come aveva già dimostrato
anni prima, quando lo stesso fuoco di fila investì Alexander Blok,
scomparso a soli quarantun anni nel 1921. Blok, prima amatissimo anche
dagli intellettuali di cultura nobiliare e poi odiato da questi stessi
personaggi per aver scritto il poema “I dodici” (da loro giudicato
“bolscevico”), non fu mai accettato realmente dagli ambienti
rivoluzionari in quanto la sua lirica, scritta in gran parte prima
dell’Ottobre, venne bollata da chi vagheggiava una letteratura “di
partito” come simbolista, misticheggiante e romantica.
<br>Anche in questo caso fu Trotsky a difenderlo (malgrado ritenesse,
sbagliando, che la componente più lirica della sua poesia non gli
sarebbe sopravvissuta), non solo esaltando “I dodici” ( e fin qui è
comprensibile, dato il tema molto politico del poema), ma sposando la
tesi di Blok sulla necessità di “raffrontare i fatti di tutte le sfere
della vita accessibili al mio occhio in un dato momento”, nella
convinzione che “tutti insieme, quei fatti creino un unico accordo
musicale.”. Per Trotsky, questa dichiarazione confutava l’idea
dell’estetismo autosufficiente, deponendo a favore del legame naturale
tra l’arte e la vita sociale, convinzione da sempre alla base del suo
pensiero. Per lui, infatti, la giusta autonomia della sfera culturale da
quella strettamente politica non ha mai significato indipendenza
dell’arte dalla dimensione sociale (cosa ben diversa), ma, casomai, la
possibilità di utilizzare la cultura come strumento per mettere
quotidianamente in discussione lo stato delle cose (concetto ben
espresso dalla sua famosa frase: “l’arte non è uno specchio, ma un
martello.”). D’altronde, questa non facile – per il contesto storico –
presa di posizione a sostegno dell’idea stessa di “messa in discussione”
culturale e sociale (poi sviluppata anche in termini direttamente
politici, grazie alla sua teoria della “rivoluzione permanente”) è alla
base anche del suo grande interesse nei confronti delle avanguardie e
dei movimenti artistici, in particolare del Futurismo prima (pur con
qualche perplessità, dato che lo riteneva “piombato” dentro la
rivoluzione) e del Surrealismo poi. E se al Futurismo russo riconosceva
di rappresentare “la rivolta dell’ala sinistra semipauperizzata degli
intellettuali contro l’estetica chiusa e di casta degli intellettuali
borghesi”, e di costituire “la lotta contro il vecchio vocabolario e la
vecchia sintassi della poesia”, quindi “contro un vocabolario chiuso,
artificialmente selezionato in modo che nulla d’estraneo venisse a
perturbarlo”, nei confronti del Surrealismo espresse forme di adesione
più entusiastiche, al punto da creare un vero e proprio sodalizio con il
suo fondatore André Breton, con il quale scrisse a quattro mani il
manifesto intitolato “Per un’arte rivoluzionaria indipendente”. In quel
manifesto, tra l’altro, si dichiara che “l’arte e la poesia devono
rimanere interamente libere”, concetto che, se oggi sembra ovvio (a noi,
ma non a tutti, specie a certi dirigenti comunisti che non si sono mai
realmente affrancati dallo stalinismo), a quei tempi era assolutamente
minoritario.
<br>E’ anche vero che, a un personaggio come Trotsky, il Surrealismo non
poteva non provocare una grande simpatia fin dai suoi albori, dato che,
se il primo manifesto metteva l’anticonformismo al centro della propria
dichiarazione d’intenti, nel secondo manifesto surrealista l’approccio
politico è reso ancor più esplicito nel momento in cui si chiarisce di
non poter evitare di “porci in modo bruciante il problema del regime
sociale sotto cui viviamo”, e quindi “l’accettazione o la non
accettazione di questo regime”. Sbaglierebbe, però, chi pensasse a un
Trotsky attento alla sfera artistica solo in relazione alla sua
“politicità”. Non è così, nel modo più assoluto, e in tal senso è
sufficiente leggere qualcuna delle sue tante pagine dedicate alla poesia
o all’arte figurativa, per comprendere come fosse fortemente
sollecitato dagli aspetti formali ed estetici, la cui innovazione
riteneva una conquista.
<br>E infatti, già negli anni Venti, a proposito delle forme usate dai
futuristi, scriveva: “La poesia è cosa non tanto razionale quanto
emozionale, e la psiche umana, che ha assorbito i ritmi e i nodi ritmici
biologici e social-lavorativi, cerca la loro immagine idealizzata nel
suono, nel canto, nella parola artistica.
<br>Finché questa esigenza è viva, le rime e i ritmi futuristi, più
flessibili, audaci e variati, costituiscono una conquista indubbia e
pregevole. Altrettanto indiscutibili sono le conquiste dei futuristi nel
campo della strumentazione del verso. Non si può dimenticare che il
suono della parola è l’accompagnamento acustico del senso.”. E sempre a
proposito del Futurismo e delle polemiche portate avanti nei suoi
confronti dalla burocrazia bolscevica – secondo i cui esponenti, il
Futurismo andava combattuto perché le opere futuriste erano
“inaccessibili alle masse” – Trotsky rispose ancora una volta con l’arma
dell’ironia, identificandosi in quei futuristi per i quali “anche Il
Capitaledi Karl Marx è inaccessibile alle masse”, dato che”le masse,
naturalmente, non hanno una preparazione culturale ed estetica e si
eleveranno lentamente.”. Anche in questo caso, Trotsky pone con forza la
questione della crescita culturale del proletariato, nella convinzione
che si tratti di un obiettivo decisivo se si vuole che il potere, dopo
aver cambiato mano, non rimanga un affare di pochi.
<br>Purtroppo perderà, anche sotto questo profilo, lasciando però delle
indicazioni che oggi sarebbe giusto riprendere, in quanto ancora di
stretta attualità (è la Storia ad essere andata così poco avanti o siamo
noi ad essere rimasti così indietro?). Non abbiamo spazio, in questa
sede, per affrontare le tante polemiche, o le tante riflessioni,
dedicate da Trotsky a svariati scrittori ed artisti di diverse epoche
(da Cervantes a Wedekind, dall’amato Puškin aTolstoj, da Pil’njak a
Kljuev, da Egger-Lienz a Schulda), rimandandovi, per questo, alla
lettura del suo fondamentale “Letteratura e rivoluzione” pubblicato da
Einaudi, ma qualche riga dobbiamo dedicarla a una specifica diatriba
riguardante il giudizio sull’opera di Dante, in quanto emblematica del
pensiero di Trotsky sull’arte. Nel suo scontro con i sostenitori della
letteratura proletaria, Trotsky riprese un giudizio espresso da
Raskol’nikov sulla “Divina commedia”, la quale, secondo lo stesso
Raskol’nikov era da “considerare preziosa, proprio perché permette di
capire la psicologia di una classe determinata di un’epoca determinata”.
Trotsky reagì a questa posizione, dicendo che “ porre così il problema
significa semplicemente cancellare la Divina commediadalla sfera
dell’arte (…), trasformandola in un documento storico soltanto, perché
come opera d’arte la Divina commediadeve dire qualcosa ai miei propri
sentimenti e stati d’animo.”.
<br>Ecco, ci sembra che questa piccola polemica sia in grado di
illustrare al meglio la concezione trotskiana della cultura e dell’arte,
non dimenticando che per il grande rivoluzionario la cultura è innanzi
tutto un fenomeno sociale, che ha bisogno della lingua come strumento
più prezioso di comunicazione, ma anche di essere recuperata
integralmente da chi non la conosce (“La padronanza dell’arte del
passato è una condizione necessaria non solo per la creazione della
nuova arte, ma per la costruzione di una nuova società”). Vien da dire
che, a parte Gramsci, nessun rivoluzionario di quell’epoca ha sostenuto
queste posizioni e che, proprio nella loro marginalità, sta forse la
principale chiave di lettura della sconfitta storica del comunismo, per
lo meno nella versione con cui siamo stati costretti a fare i conti, e
cioè quella staliniana prima e stalinista poi. Dietro la mancanza di
dialettica culturale, infatti, c’è stata la mancanza di dialettica
politica, prima fonte di creazione dell’autoritarismo che, di per sé,
dovrebbe essere la negazione di una società socialista.
<br>Ripartire dalla concezione trotskista della cultura e
dall’individuazione della “questione culturale” come priorità può
rappresentare un modo (l’unico? Il principale?) per cominciare a
ricostruire un pensiero critico, depurato da molte scorie novecentesche e
fondato su un assunto che ci pare ovvio e che era già chiaro allo
stesso Trotsky quasi un secolo fa: la nostra liberazione, anche
culturale, non può dipendere dalla trasformazione economica e
strutturale della società, ma deve andare di pari passo con
quest’ultima, esprimendosi anche in forme del tutto autonome, quindi
come valore in sé.
<br>Per seguire questa strada, però, non bisogna farsi condizionare da
quei meccanismi tipici di un certo modo di fare politica, che,
paradossalmente, hanno trionfato (entrando nella testa dei più)
provocando automaticamente una sconfitta storica. E per farlo, forse,
sarebbe utile ripescare le riflessioni e le teorie di quel Trotsky che,
un grande pensatore e militante anarchico (dunque lontano dalle sue
posizioni), il francese Maurice Joyeux, descrisse con queste parole. “Si
possono certo discutere le posizioni politiche di Trotsky, sia
riconoscergli una certa responsabilità nell’evoluzione del comunismo in
Russia, ma è a mia conoscenza il solo marxista che si sia rifiutato a
porre l’espressione letteraria o artistica a rimorchio di un partito.”.
<br>
<br>Articolo tratto, su autorizzazione dell'autore, da Nuova rivista
Letteraria – semestrale di letteratura sociale – novembre 2010 –
edizioni Alegre </p>
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