[Redditolavoro] palermo - le galere del moderno schiavismo
procomta
ro.red at libero.it
Fri Sep 23 16:57:23 CEST 2011
Due prigioni galleggianti per i tunisini da rimpatriare
PALERMO
Abdul trascina la sua gamba ferita come una palla al piede, quelle dei
carcerati. Occhi bassi, una smorfia di dolore, imbocca insieme con gli altri
il boccaporto dell'«Audacia» trasformato in un dormitorio galleggiante.
«Ecco, una nave, finalmente ci portano via, in Italia», sussurra qualcuno
con un lampo di speranza negli occhi. «Dove andiamo: a Napoli, a
Marsiglia?», si domandano due giovanissimi, infradito e sacchetto azzurro d'ordinanza
nelle mani.
Nessuno si azzarda a dire loro che quella nave non partirà mai verso nessuna
meta. Che è un altro centro di permanenza, proprio come il Cie di Lampedusa
che adesso è in cenere. E questo è sul mare, letteralmente, ancor più di
quello che hanno appena lasciato. Già, se il governo si affretta a svuotare
al ritmo di dieci voli al giorno l'isola dell'accoglienza diventata di
guerriglia, se i riflettori restano puntati lì, silenziosamente gli
immigrati arrivano qui, al porto di Palermo, dove in gran silenzio sono
state allestite due navi per accoglierli a tempo indefinito, visto che
Tunisi si ostina a tenere duro sul numero dei rimpatri: non più di cento al
giorno.
Si chiamano «Audacia», una nave merci con tre stanzoni dove ne sono stati
stipati 150, e la «Moby Fantasy», imbarcazione per passeggeri tutta colori e
fumetti sulla fiancata, che ne ospita altri 400. E qui niente associazioni,
niente tutela legale, niente operatori umanitari che vigilino sulle
condizioni di vita. Così, è vero che si svuota Lampedusa, ma nessuno dice
che soltanto due dei dieci voli al giorno puntano su Tunisi: gli altri
arrivano qui a Palermo, nel molo requisito dal Viminale, per quindici giorni
tanto per cominciare. Con uno schieramento imponente di forze dell'ordine:
per ogni immigrato due poliziotti, tutti con la mascherina sul viso «per
precauzione igienica, ha sentito che odore c'è sui pullman?».
Ne arriva uno proprio in quel momento, sono le quattro del pomeriggio, per
trasferire i primi cinquanta dalla «Moby», riempita per prima, all'«Audacia».
A guidare le operazioni non è un agente qualsiasi, ma Manfredi Borsellino,
figlio di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia, oggi vicequestore dirigente
del commissariato di Cefalù, uno dei tanti mobilitati da tutta Italia per
fronteggiare l'emergenza Lampedusa. Modi gentili, niente esibizione
muscolari, professionalità e rispetto. E accanto c'è un altro «sbirro» di
razza: Silvio Bozzi, siciliano dirigente a Fano, criminologo, consulente dei
principali scrittori di noir italiani: da Lucarelli a Camilleri, autore e
coprotagonista di tante trasmissioni tv. Chissà quanto materiale avrà
adesso: «Questi giorni a Lampedusa sono stati un inferno», confessa.
Ma le misure di sicurezza sono straordinarie. Stipati in pullman per fare
pochi metri, guardati a vista come boss della mafia. Prima scendono dieci
poliziotti, manganelli a portata di mano, poi dieci immigrati sudati,
scarmigliati, le facce peste. E ancora dieci e dieci, fino alla fine. Puzza
di sudore, di disperazione, di notti passate all'addiaccio. Somigliano più a
reduci che a potenziali ribelli. «Sono arrivati da Lampedusa stremati»,
dicono gli agenti. Molti hanno ancora addosso la tuta fornita dal centro di
accoglienza al momento dello sbarco dopo la traversata della speranza.
Nessuno ha le scarpe comprese nel kit: «forse le scambiavano con altri
generi di prima necessità laggiù a contrada Imbriacola, nessuno ce le aveva
più dopo poche ore dalla consegna».
Dalla «Moby» si vede una maglietta che sventola sulla tolda, poi
improvvisamente sparisce. Qui, al passaggio blindato, ci sono soltanto
sussurri e sguardi che invocano una speranza. «Sa dove ci portano?», chiede
veloce un giovane pesto, bermuda e maglia lurida, prima di essere intruppato
verso due stanzoni dove dormiranno su poltrone reclinabili, due bagni ogni
cinquanta persone, niente docce, la mensa per mangiare, «la nostra stessa
mensa - dice un agente - ci alterneremo solo per gli orari». Le procedure di
identificazione? «Qui non se ne fanno, le avevano già completate a
Lampedusa, questi hanno tutti i documenti a posto».
Un'ora prima, alle tre, due pullman erano partiti alla volta dell'aeroporto
di Punta Raisi, con i cento a bordo attesi da Tunisi. Volo proveniente da
Fiumicino, decollato poi alle sei da una delle quattro piazzole requisite
dal ministero degli Interni, con la società di gestione dello scalo - la
Gesap - a fare i salti mortali per tenere distinto il percorso dei turisti
da quello degli immigrati, i viaggiatori liberi e quelli per forza,
condannati all'invisibilità. Si arriva tanto e si parte poco. Ieri sono
sbarcati qui da Lampedusa otto C130, a bordo niente sedili ma solo panche:
un tunisino in mezzo, due poliziotti da una parte e dall'altra. Poi il
pullman li ha presi a bordo pista, li ha depositati in porto, sulle navi che
sembrano pronte a partire e che invece sono un'altra tappa di un infinito
gioco dell'oca dove si finisce sempre nella casella sbagliata. Quella del
ritorno a casa, il punto di partenza.
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