[Redditolavoro] Una democrazia in debito

info at servizi.rdbcub.it info at servizi.rdbcub.it
Tue Sep 20 13:48:22 CEST 2011


 

Una democrazia in debito

 

La discussione e la campagna politica per il non pagamento del debito si
reggono su dati concreti e per molti versi inoppugnabili. L'incontro
nazionale del prossimo 1 ottobre promosso dai firmatari dell'appello
“Dobbiamo fermarli”, contiene le potenzialità politiche, sociali e culturali
per avviare una seria controffensiva contro il mattatoio sociale imposto
dalla Bce e dal governo unico delle banche

 

E’ stata appena approvata la manovra economica del governo che già Unione
Europea e Confindustria tornano di nuovo alla carica invocando la prima
misure aggiuntive e la seconda una terapia d’urto che portino l’Italia al di
fuori dalla “maledizione” dei Piigs. Contemporaneamente, i reportage dalla
Grecia ci descrivono le ferite profonde che le misure imposte dalla Bce
hanno già imposto al corpo sociale di quel paese rendendo comuqnue il debito
pubblico greco ancora più elevato. La porta girevole delle politiche di
aggiustamento dei bilanci pubblici, è ormai un paradosso tanto evidente che
più di qualche istituzione insospettabile – dal Fondo Monetario alla Banca
d’Italia – sottolinea come non possano che avere effetti recessivi su tutti
i paesi euro-mediterranei che sono stati costretti ad adottarle.

 

L’Italia paga ancora le conseguenze delle terapie d’urto degli anni Novanta
(quelle dei governi Amato, Ciampi, Prodi) adottate per entrare nei parametri
di Maastricht e poi nell’Unione Economica Monetaria dei paesi europei che
hanno adottato l’Euro. Nonostante questo da un lato il debito pubblico non è
affatto diminuito ma è aumentato dal 106% del Pil nel 1992 al 120% del 2011,
dall’altro le misure antisociali messe in campo in questi ultimi anni hanno
devastato servizi sociali strategici come sanità, istruzione, previdenza,
trasporti; hanno ridotto del 37,9% in soli dieci anni il potere d’acquisto
di salari e pensioni, hanno continuato a trasferire enormi risorse pubbliche
e ricchezza dal lavoro e dal risparmio delle famiglie alla rendita
finanziaria rappresentata da banche,  società di assicurazione, fondi
d’investimento italiane e stranieri. (1)

 

In questo spostamento di ricchezza ci hanno rimesso soprattutto i lavoratori
dipendenti, i giovani costretti alla precarietà e alla disoccupazione, i
pensionati che hanno dovuto esaurire i loro risparmi per assicurare reddito,
abitazioni, finanziamenti alle generazioni successive ormai private di
presente e di futuro. Ma in qualche modo ci hanno rimesso anche i profitti
generati dall’economia reale basata sulla produzione di beni, soppiantata da
una corsa alla rendita speculativa, finanziaria e immobiliare, che ha
contribuito alla distruzione degli investimenti e del tessuto industriale
del paese.

 

Il gioco della porta girevole sul debito pubblico – aumentare
l’indebitamento per pagare il debito - ha agito su questa realtà sociale
stravolgendone l’esistenza e lo status (con la proletarizzazione dei ceti
medi) e manipolandone le priorità e le percezioni (con la minaccia del
default ).

 

Chi sono i proprietari del debito pubblico italiano?

 

La mappa del possesso dei titoli del debito pubblico italiano, visualizza
perfettamente questo immenso spostamento di ricchezza dal risparmio delle
famiglie (il c.d. Bot people) alle banche e alle società finanziarie.

 

Una elaborazione della banca d’affari Morgan Stanley, ci aiuta a capire
meglio come stanno le cose. Infatti se nel 1991 il debito pubblico era per
il 58,6% in mano alle famiglie – sia quelle più ricche sia quelle che
avevano investito liquidazioni, qualche risparmio e piccole eredità nei Bot
e nei titoli di stato - oggi questa quota è crollata al 14%, mentre i titoli
del debito italiano in possesso degli investitori stranieri (banche,
fondi,assicurazioni) è schizzato dal 6% del 1991 al 43% del 2010. Occorre
sottolineare che, in confronto agli altri paesi Piigs, tale percentuale
rimane bassa, cioè il debito pubblico del nostro paese relativamente al
resto di Europa, è a forte carattere interno. Infatti anche banche,
finanziarie,assicurazioni e fondi di investimento “italiani” (un eufemismo
nell’epoca della finanza globale) che nel 1991 possedevano il 25% dei
titoli, oggi ne posseggono il 38%, é dunque evidente che la forte
percentuale di investitori interni del debito pubblico italiano non è più
attribuibile come una volta alla famiglie in veste di grande “formiche
risparmiatrici”. La Banca d’Italia infine possiede una piccola del 4% dei
titoli del debito pubblico italiano. Riassumendo: l’81% dei titoli del
debito pubblico italiano sono nelle mani di banche, assicurazioni e fondi di
investimento, società finanziarie siano esse straniere o italiane. (2)

 

Passando dalle percentuali ai numeri, si può in qualche certificare che su
un debito pubblico più o meno di 1.400 miliardi di euro, le entità
finanziarie francesi posseggono titoli del debito italiano per 511 miliardi
di euro; quelle tedesche per 190 miliardi; quelle anglo-sassoni per 77
miliardi, quelle spagnole per 31 miliardi. (3)

 

Più della metà del totale debito pubblico italiano è quindi nelle mani dei
cosiddetti “investitori esteri” e i quattro/quinti del debito sono nelle
mani di banche e soggetti finanziari privati; questo dato, considerato
congiuntamente all’abbassamento della propensione al risparmio delle
famiglie e considerato quanto emerge dalle indagini giudiziarie, fa
individuare un forte interessamento ai titoli del debito pubblico italiano,
da parte di società finanziarie prestanome  “di rispetto”, direttamente
funzionali a quell’economia criminale che ne percepisce chiaramente una
modalità pulita e conveniente ai fini di realizzare una buona rendita ma
soprattutto  un metodo sicuro per il riciclaggio di denaro sporco  .

 

Sta in questa dimensione la maledizione dell’Italia tra i paesi Piigs:
“troppo grande per fallire, troppo grande per essere salvata”. Ma, come si
dice, la situazione è tutt’altro che stabile e i punti di rottura dentro
questa crisi possono essere molteplici e imprevedibili.

 

Chi piangerebbe sul mancato pagamento del debito pubblico?

 

Dunque se l’Italia non pagasse il suo debito pubblico, a doversi preoccupare
sarebbero soprattutto le banche, le compagni assicurative e i fondi di
investimento in gran parte stranieri e in misura minore italiane e le grandi
famiglie della malavita organizzata che hanno investito abbondntemente sui
titoli del debito per riciclare legalmente i capitali sporchi.  In misura
irrilevante lo sarebbero poi le famiglie più ricche o le poche che in questi
anni di crollo del risparmio sono riuscite a mantenere quote di patrimonio
più o meno consistenti investite in titoli del debito pubblico italiano.

 

Tutti questi soggetti, non solo incassano a scadenza la cedola sui titoli di
stato italiano, ma incassano ogni anno una media di 70 miliardi di euro di
interessi che lo Stato corrisponde ai possessori dei titoli
indipendentemente dalla loro scadenza. Quindi già solo congelando il
pagamento degli interessi, si avrebbero a disposizione ogni anno risorse
finanziarie rilevanti per avviare piani straordinari per l’occupazione,
risanare scuola e sanità, investimenti produttivi e infrastrutturali,
risorse  che verrebbero sottratte una volta tanto alle banche e alle entità
finanziarie private e restituite agli interessi collettivi.

 

La dimensione stessa del debito pubblico accumulato in questi ultimi
venticinque anni dall’Italia, le caratteristiche dei possessori dei titoli
del debito pubblico, l’enorme sproporzione tra il peso reale delle risorse
sottratte agli interessi sociali collettivi dalle misure richieste dalla Bce
e dai “governi delle banche” e la loro possibilità di “incidere” su un
movimento globale degli investimenti nell’ordine delle migliaia di miliardi
di dollari al giorno, fanno dire ormai a settori crescenti del sindacato,
dei movimenti sociali, della politica e della cultura che il debito non può
e non deve essere più pagato da lavoratori, disoccupati, pensionati,
giovani.

 

Non solo questi settori hanno “già dato!” in questi venti anni gettando nel
secchio bucato del pagamento del debito e degli interessi sul debito
qualcosa come 430 miliardi di euro tra tagli ai servizi sociali, nuove
imposte, blocco dei salari e delle pensioni, riduzione prestazioni
previdenziali, privatizzazioni etc., ma adesso gli si chiede di riprendere
la giostra della porta girevole con nuovi tagli, sacrifici, rinunce a
diritti acquisiti, negazione di ogni vera prospettiva di lavoro, di reddito,
di salario, pensione e di servizi sociali degni di questo nome.

 

Un campagna di massa contro il pagamento del debito pubblico e per la
democrazia

 

E’ ormai evidente come quaranta o cinquanta miliardi di euro in tagli alle
spese e nuove imposte, pesino enormemente sulle condizioni di vita dei
settori popolari ma siano del tutto insignificanti nel casinò globale dei
mercati finanziari internazionali. Ritenere che la soluzione alla questione
del debito pubblico possa passare attraverso ripetute manovre “lacrime e
sangue” dei vari governi, è una sanguinosa menzogna che occorre demolire
agli occhi della società.

 

A questa sanguinosa menzogna si può e si deve contrapporre una soluzione
diversa e alternativa fondata sul non pagamento del debito, la
nazionalizzazione delle banche e la irrinunciabilità della democrazia. Il
nesso tra non pagamento del debito e questione democratica è infatti
strettissimo e torna ad essere materia che porta direttamente al nodo del
cambiamento politico di sistema.

 

La questione dirimente infatti non è sul “se, il come o il quando pagare il
debito”, il problema è che “il debito non va pagato” per imporre un nuovo
ordine di priorità all’uso delle risorse disponibili nel nostro e negli
altri paesi sottoposti al massacro sociale imposto dalla Bce o dall’Ecofin
dell’Unione Europea.

 

In tutti i paesi ipotecati dal debito (quello estero negli anni ottanta e
novanta nei paesi in via di sviluppo, quello pubblico nei paesi europei nel
XXI Secolo), la popolazione è stata non solo vessata dalle manovre lacrime e
sangue e dalle terapie d’urto – ieri quelle del Fmi e della Banca Mondiale,
oggi quelle della Banca Centrale Europea – ma è stata sistematicamente
espropriata di ogni sovranità o possibilità di decidere sulle soluzioni
adottate. Sistemi elettorali maggioritari, autoritarismo dei governi e sedi
decisionali sopranazionali, hanno impedito con ogni mezzo che la società
potesse esprimersi sulle scelte decisive, magari anche scegliendo poi di
fare i sacrifici richiesti ma solo dopo essere stata consultata, informata e
messa nelle condizioni di decidere.

 

Nell’Unione Europea oggi questo tema è stato posto all’ordine del giorno
sulla base di una divaricazione incompatibile tra democrazia e capitalismo.
I governi delle banche, veri e propri governi unici ormai e
indipendentemente dal partito/coalizione al governo, applicano una
governance oligarchica e unilaterale decidendo nelle sedi europee i
provvedimenti che dovranno essere adottati e certificati nei singoli paesi.
E la discussione stessa si sintetizza in quelle sedi privando di
decisionalità sia i parlamenti sia le istanze sociali che possono solo
ricorrere agli scioperi e agli scontri di piazza per segnalare la loro
opposizione alle misure lacrime e sangue.

 

La stragrande maggioranza dei partiti parlamentari votano poi  i
provvedimenti o ne agevolano l’approvazione in nome dell’obbedienza alla
superiore istanza europea che viene sbandierata ancora come baluardo
rispetto all’instabilità e garanzia di un assetto democratico che occorre
salvaguardare anche a costo di misure antipopolari. La rappresentanza
politica istituzionale subisce così un ulteriore arretramento che ne svuota
ogni contenuto democratico e di rappresentanza sociale.

 

Questa contraddizione – segnalata con forza dai movimenti degli Indignados
spagnoli – appare ormai dirimente in un paese-limite come l’Italia.

 

Infatti se in altri paesi si sono potuti tenere dei referendum sui vari
aspetti dell’integrazione nell’Unione Europea, nel nostro paese questa
possibilità democratica è stata sistematicamente negata con effetti molto
gravi. In Francia e in Olanda, la società ha potuto discutere e votare sulla
Costituzione Europea, in Danimarca, Svezia, Irlanda, Norvegia si sono potuti
tenere referendum sull’adesione o meno all’Eurozona o alla stessa Unione
Europea. In Islanda addirittura c’è stato il recente referendum che ha
sancito il non pagamento dei debiti delle banche. In Spagna, gli Indignados
e i movimenti della sinistra e repubblicani hanno chiesto un referendum
contro l’introduzione del vincolo di bilancio nella Costituzione

 

Queste sono state tutte occasioni in cui la gente ha dovuto/potuto
informarsi ed esprimere la propria volontà. Il problema per l’establishment
europeo, semmai, è che ogni volta che la società dei vari paesi si è potuta
esprimere democraticamente, ha votato contro i progetti dell’oligarchia
istituzionale e finanziaria bocciandoli sonoramente.  .

 

In Italia niente di tutto questo è stato fino ad oggi possibile perché la
Costituzione vieta i referendum in materia di leggi di bilancio e di
trattati internazionali. Questo limite “oggettivo” ha permesso da un lato a
tutti i partiti, inclusi purtroppo anche quelli della sinistra radicale, di
marginalizzare l’analisi e il dibattito sulla natura imperialista
dell’Unione Europea, dall’altro ha impedito che le questioni europee
trovassero interesse e attenzione in vasti strati della società. Il sistema
bipartizan, approfittando di entrambe le condizioni, ha sempre veicolato un
europeismo enfatico ed acritico come un dogma che abbiamo visto operare in
sede di approvazione della manovra finanziaria imposta dalla “lettera della
Bce”.

 

In realtà questa è ormai una foglia di fico, sia perché nel 2001 il
centro-sinistra promosse il referendum confermativo su materia
costituzionale come il titolo V della Costituzione (sul federalismo), sia
perché è inaccettabile che venga introdotto il pareggio di bilancio nella
Costituzione ma si impedisca – trincerandosi dietro la Costituzione – un
referendum su questa modifica così rilevante (e del tutto assurda da ogni
punto di vista, NdR).

 

Proposte e soluzioni da discutere e su cui agire

 

Di fronte all’annodarsi della crisi sistemica del capitalismo che sta
colpendo soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione Europea (i Brics al
contrario non vanno affatto male), si vanno affacciando analisi e proposte
che in qualche modo indicano una controtendenza rispetto alla subordinazione
- magari critica ma sempre subordinazione - ai diktat della Bce, delle
istituzioni finanziarie internazionali e dei governi unici delle banche.

 

La campagna sul non pagamento del debito e la democrazia che verrà discussa
e lanciata il prossimo 1 ottobre, va in questa direzione. E’ chiaro che se
dobbiamo indicare una alternativa al massacro sociale e all’autoritarismo
crescente, non possiamo sottrarci dall’indicare delle soluzioni.

 

A settembre Joseph Halevi ha scritto un ottimo saggio su Il Manifesto nel
quale sottolinea giustamente che “il nodo é rompere la sudditanza verso il
pagamento del debito pubblico come fonte di rendite delle società
finanziarie e anche delle grandi imprese, in gran parte a loro volta
finanziarizzate”. Halevi diventa però prudente nel passaggio dall’analisi
all’indicazione politica e scrive: “Affinché questo ragionamento abbia
sbocchi pratici é necessario entrare nel contenuto della spesa pubblica e
rilanciare il ruolo ridistributivo della fiscalità. Nell'oscurantismo
imperante, però, la mia é una pura illusione” (4).

 

Il problema infatti è quello di costruire non una “campagna di opinione” sul
non pagamento del debito, ma una campagna politica e di massa che non nutra
illusioni velleitarie e la collochi ben dentro il senso comune della gente e
il conflitto di classe nei vari settori sociali.

 

Il non pagamento del debito è una di queste soluzioni che possiamo mettere
in campo, consapevoli però che questa battaglia implica un cambio di
paradigma nelle priorità del sistema politico ed economico in cui operiamo.
Non è infatti possibile disgiungere dal non pagamento del debito la
questione della nazionalizzazione delle banche, perché è soprattutto il
debito “pubblico” verso le banche quello che va eliminato. Si tratta di due
misure complementari che rimettono al centro l’interesse collettivo a
scapito degli interessi privati che si sono rivelati antagonici proprio
verso gli interessi della collettività, costringendola a dissanguarsi per
riempire di liquidità i bilanci delle banche, evitare che fallissero e
regalandogli la possibilità di lucrare sui titoli del debito pubblico.

 

Ma il dibattito si va facendo più avanzato anche sul terreno delle soluzioni
strategiche nella dimensione europea.

 

Un libro di prossima uscita  edito dalla Jaca Book – “Il Risveglio dei
maiali”,  e scritto da L.Vasapollo in collaborazione con J.Arriola, R.
Martufi, avanza l’idea di un’area monetaria euromediterranea – viene
indicato a tale scopo anche l’acronomo “Alias” - tra i paesi Piigs, la
sponda sud del Mediterraneo e i paesi dell’Europa dell’est per sottrarre
questi paesi all’implosione che deriva dall’egemonia del cosiddetto “polo
carolingio” dalla nitida natura imperialista (Francia, Germania, Austria,
Olanda, Fiandre, Padania) il quale sta piegando le economie dei paesi deboli
dell’Europa ai propri interessi commerciali, finanziari e industriali.

 

Urge dunque, second gli autori, una via d’uscita all’implosione politica e
sociale che però passa per la fuoriuscita dall’UEM (Unione Economica
Monetaria europea) e dal dotarsi anche di una propria moneta diversa
dall’Euro. “Risulta imprenscidibile per l’affermazione di una nuova moneta e
di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su uno spazio
produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro
basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un
benessere qualitativo per l’insieme della popolazione della nuova area
monetaria Alias
. In una seconda tappa dopo la sua costituzione nei paesi
della periferia dell’Eurozona, la  nuova moneta e le nuove condizioni di
sviluppo sociale ed economico devono diventare una proposta d’integrazione
diretta alle altre periferie del capitale europeo: la periferia dell’Est
Europa e quella dell’Africa mediterranea” sostengono gli autori nel loro
libro/manifesto politico (5).

 

Ad una conclusione simile, giungeva mesi fa anche un altro economista
marxista come Bruno Amoroso, il quale in un saggio scrive che “Per quanto ci
riguarda è necessario che si pervenga rapidamente ad una iniziativa
valutaria dell’Europa mediterranea che introduca un Euro mediterraneo
comprendente la Francia e tutti i paesi dell’Europa del Sud. Questo
riporterebbe la sovranità economica e monetaria al servizio degli obiettivi
decisi dai governi e dalle istituzioni di questa grande meso-regione
europea” (6).

 

Una rottura della subalternità della politica

 

Se guardiamo al di fuori di una logica meramente eurocentrista e facciamo
tesoro delle esperienze di altre aree del mondo, non puo’ che tornare utile
il confronto con i movimenti sociali e le forze intellettuali che hanno
condotto la battaglia contro il pagamento del debito nei paesi dell’America
Latina. In diversi di questi paesi, la ripresa dello sviluppo economico
interno e il significativo cambiamento politico che li ha sottratti ai dogmi
e ai provvedimenti liberisti, ha coinciso proprio con la mobilitazione dei
movimenti sociali e poi con la decisione di alcuni governi di non pagare il
debito. Insomma esperienze concrete da cui una volta tanto la sinistra
europea dovrebbe cominciare ad apprendere piuttosto di dare lezioni in giro
per il mondo.

 

L’incontro nazionale del 1 ottobre a Roma lanciato dall’appello “Dobbiamo
fermarli” può essere una prima occasione straordinaria per indicare sia
un’agenda di lotta che un percorso di approfondimento sulle soluzioni e le
alternative alla crisi del capitalismo. Oggi, nel nostro paese, non c'è
nessun soggetto politico che affermi pubblicamente queste cose e ne faccia
derivare una azione conseguente nel conflitto sociale. E' tempo che una
vasta coalizione di forze politiche, sociali, sindacali, intellettuali
prenda in mano questa opportunità sula base di una convinta indipendenza
politica e la rovesci contro un avversario che rivela ogni giorno di più il
suo “odio di classe” contro i nostri settori sociali di riferimento.

 

di  Sergio Cararo*

 

* Rete dei Comunisti

 

www.contropiano.org

 

 

Note:

 

(1)   Un recente rapporto diffuso dal Casper afferma che dall’introduzione
dell’euro a oggi, i prezzi sono aumentati del 53,7% e che il potere
d’acquisto di salari e pensioni ha perso il 39,7%, inserto “Tuttosoldi” su
La Stampa del 12 settembre

(2)   La Morgan Stanley ha elaborato questi dati sulla base di quelle
forniti dalla Banca d’Italia nel 2010. I dati sul 1991 sono della Banca
d’Italia. La rivista del Cestes, “Proteo”, ha documentato nel numero di
primavera la composizione effettiva del debito pubblico italiano sia sul
piano del debito interno che di quello estero. Da quei dati si desume che il
termine “debito sovrano” è del tutto incongruo e strumentale alle campagne
terroristiche e mediatiche sui rischi sociali del default.

(3)   I dati sono indicati nell’articolo “Così la nuova schiavitù dei debiti
incrociati crea il contagio globale”, Federico Rampini in La Repubblica del
7 agosto 2011

(4)   “Una cacofonia oscurantista”, Joseph Halevi, su Il Manifesto del 4
settembre

(5)   “Il Risveglio dei Maiali”, edizioni Jaca Book, settembre 2011

(6)   “L’impatto sociale delle politiche europee”, Bruno Amoroso su
“Insight”, gennaio 2011

-------------- next part --------------
An HTML attachment was scrubbed...
URL: <http://lists.ecn.org/pipermail/redditolavoro/attachments/20110920/46dae9d9/attachment-0001.htm>


More information about the Redditolavoro mailing list