[Redditolavoro] IMPORTANTE: Effetti manovra economica sul mercato del lavoro
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Mon Aug 22 17:40:51 CEST 2011
Da UniNomade.org: http://uninomade.org/la-manovra-di-ferragosto/
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La manovra di ferragosto
di GIANNI GIOVANNELLI
La manovra aggiuntiva varata dal governo italiano in pieno agosto impone
alcune riflessioni non solo nella parte immediatamente connessa al
rastrellamento di risorse monetarie, ma anche in quella che incide sui
rapporti lavorativi (non solo in quelli tradizionali, stabili e
subordinati) e modifica la struttura stessa di controllo sociale del ciclo
produttivo finanziarizzato.
Il terzo titolo del decreto (articoli da 8 a 12) non è stato preceduto da
alcun dibattito e neppure da alcun commento preventivo; eppure stampa e
televisione hanno dedicato ampio spazio al breve incontro fra membri
dell’esecutivo Berlusconi e parti sociali. Appare difficile credere che in
quella riunione non si sia trattata la materia; più probabile invece che i
presenti abbiano dato il loro tacito assenso all’operazione di ulteriore
precarizzazione che caratterizza le nuove norme, assicurando di limitare
il
dissenso al mancato utilizzo della patrimoniale e alla sforbiciata delle
somme destinate ai servizi sociali. Seguendo il medesimo copione già
collaudato in precedenza (quando fu approvato il collegato lavoro nel
novembre 2010 e quando venne introdotto un balzello nelle cause di lavoro
nel mese di giugno scorso) l’intero apparato di comando politico
(maggioranza e opposizione) ha creato un dibattito sostanzialmente
simulato
per distogliere l’attenzione sul reale obiettivo che si proponeva, onde
evitare sgradite reazioni preventive; con la ragionevole previsione di
presentare i giochi già fatti, in piena estate, sapendo con certezza di
contare su una silenziosa approvazione da parte delle burocrazie sindacali
(vedremo più avanti quale sia il loro tornaconto anche personale in
termini
di denaro e di potere). Il dissenso della Fiom era messo in conto, come
ostacolo superabile.
Non si potrebbe comprendere la silenziosa rapidità con la quale le nuove
disposizioni sono state rese operative se non si esaminasse il lavoro
parlamentare che le ha precedute. Il ministro Sacconi è un prevaricatore
ma
non uno sprovveduto; si è formato nelle trincee sindacali degli anni
settanta ed ha appreso l’arte di rendere inoffensivi gli avversari –
cedendo frammenti di denaro e di potere – durante il regno di Bettino
Craxi. Mai e poi mai avrebbe dato corso ad un così radicale intervento
legislativo per decreto se non avesse potuto contare sull’appoggio di una
fetta consistente (e rilevante) di opposizione. Il progetto di legge sul
quale la ratio degli articoli 8-12 (le pretese misure a sostegno
dell’occupazione) si fonda non è del governo ma del partito democratico;
porta la firma non solo del senatore Ichino (la cui posizione è ben nota)
ma anche di parlamentari più prudenti e meno schierati, non usi a rendere
pubblico il progetto di dominio e di controllo sui ceti subalterni,
condiviso da destra e sinistra.
Contestualmente all’approvazione del vergognoso collegato lavoro venne
votata quasi all’unanimità una mozione d’indirizzo che richiamava
espressamente il testo elaborato dal professor Ichino, senza che una tale
presa di posizione della sinistra fosse stata oggetto almeno di una aperta
preventiva discussione. Il ceto politico aveva deciso di imporre la
propria
sopravvivenza e di far pagare come al solito il costo della crisi alle
nuove moltitudini; era il preludio di quanto poi posto in essere con la
manovra di agosto. Infatti il presidente della repubblica Napoletano ha
ricevuto il testo il 13 agosto, firmandolo senza esitazione, subito; e con
la stessa solerzia, in pari data, la Gazzetta Ufficiale procedeva alla
pubblicazione così che (in base all’articolo 20) poteva entrare in vigore
il giorno stesso della sua pubblicazione.
* * *
L’articolo 8 del decreto 138/2011 introduce per la prima volta
nell’ordinamento italiano la possibilità di una deroga generalizzata ed
illimitata ai diritti minimi stabiliti per legge. Non è necessario
stipulare un accordo di estensione nazionale, ma in ogni porzione di
territorio, anche piccolissima, e perfino in ogni singola azienda, diventa
lecito ciò che fino ad ieri non era consentito, travolgendo od eliminando
garanzie acquisite in passato. Non è richiesta neppure l’adesione degli
interessati, posto che a firmare sono abilitate le associazioni dei
lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Qui
sta il trucco. A livello locale ed aziendale non conta chi ha più seguito
sul posto, ma solo chi dispone di una struttura nazionale (sostanzialmente
solo CGIL, CISL e UIL ovvero anche solo parte di esse). Le rappresentanze
aziendali possono essere solo quelle che costituiscono articolazione dei
sindacati nazionali, o, almeno, se unitarie e sottoposte a voto, debbono
pur sempre poter contare sull’approvazione delle centrali. Non bisogna
dimenticare che le intese di Pomigliano si erano risolte nella esclusione
di FIOM dalle istituzioni rappresentative dei lavoratori all’interno di
Fiat, in ragione della mancata firma. In buona sostanza viene restituito
alle burocrazie nazionali interconfederali il pieno controllo politico ed
organizzativo, sottraendo ogni effettivo potere ad eventuali sacche di
riottosi.
E’ una logica che si pone in totale contrasto con le norme comunitarie
(l’Unione Europea impone la parità di trattamento fra organizzazioni
sindacali) e con la Costituzione Italiana (l’articolo 39 non ha mai
trovato
attuazione). Ma è una logica che viene ugualmente imposta con forza e
prepotenza, che ormai prevale nella regolamentazione giuridica dei
rapporti
di classe nel nostro paese.
Il comma 2 dell’articolo 8 indica quali sono ora le materie derogabili in
singoli ambiti territoriali o in singole aziende: il controllo audiovisivo
sull’attività lavorativa (il Grande Fratello vigila!), le mansioni (dunque
cade il divieto della dequalificazione sul campo), il precariato
(contratti
a termine, a progetto, appalto di manodopera diventano liberalizzabili
senza più argini, con buona pace dell’invito a contenere l’instabilità!),
la cosiddetta solidarietà (ovvero cade la responsabilità del committente
nei confronti dei lavoratori dell’indotto, conquistata nel 1960 e fino ad
oggi mai venuta meno), l’orario di lavoro (anche le 40 ore possono essere
sacrificate), l’ingaggio (si liberalizza nuovamente l’abuso dei falsi
liberi professionisti in aperto contrasto con le norme della stessa
riforma
Biagi), la possibilità di contenzioso (per accordo si può impedire che un
contratto precario illegittimo si trasformi in un rapporto subordinato
normale) e perfino il licenziamento diventa opzione discrezionale e non
necessariamente motivata. Chi sostiene che nulla cambia nel licenziamento
dice il falso: la lettera d) del secondo comma dell’articolo 8 vieta le
deroghe (in pratica impone la riassunzione) solo per il licenziamento
discriminatorio (che è quasi impossibile da provare) e per quello connesso
al matrimonio (ma non anche alla gravidanza; pur se contraria alla
costituzione la norma consente anche di cacciare le lavoratrici incinta
con
il consenso delle rappresentanze aziendali).
Non possiamo e non dobbiamo dimenticare il contesto sociale, politico ed
economico nel quale le nuove nome vengono calate; non è un momento di
forza
e di attacco quello che caratterizza oggi le organizzazioni del movimento
operaio tradizionale, ma di mera difesa. L’arroccamento della Fiom (lo
avevamo, ahimè, previsto perché era facile prevederlo) non ha preservato
gli uomini delle sue roccaforti; non era pensabile che la via giudiziaria
potesse condurli in salvo e tanto meno che lo staff di Susanna Camuso
avesse davvero intenzione di soccorrerli (vogliono farli fuori e neppure
celano più questa intenzione).
In vasti territori le strutture capitalistiche non esiteranno ad avvalersi
della pressione violenta e militare esercitata dalla criminalità
organizzata, ormai ben presente nel settore delle braccia (sia nel
terziario che nel settore dei beni immateriali); nella stessa Milano
l’apparato di raccolta, stoccaggio e distribuzione delle merci viene
gestito da consorzi, cooperative, società di fatto rese anonime mediante
oculata scelta di prestanomi. Dietro questi consorzi si celano i clan
finanziari di mafia, ndrangheta, camorra. Le catene di supermercati e le
società a-nazionali del trasporto già oggi hanno rapporti di committenza
con le organizzazioni criminali; possiamo seriamente ritenere che i
rappresentanti sindacali aziendali di questi settori possano negare il
consenso richiesto da uomini armati e decisi? Ed in tempo di crisi le
nuove
assunzioni potranno avvenire (in modo reso legale) secondo le regole
imposte dall’apparato di comando; come avveniva nel socialismo reale (e
come già avviene nelle aziende italiane) i funzionari sindacali
maggiormente disponibili potranno godere di vantaggi personali (lavorando
meno e incassando qualche premio). L’autorizzazione, per fare un esempio,
ad assumere a termine cinquanta addetti (con la certezza, data dal
contratto aziendale, di vietare la conversione a tempo indeterminato anche
in caso di vertenza giudiziaria) ha un valore di mercato non inferiore a
sette-ottocentomila euro; ma quanti sono i rappresentanti aziendali (con
salario di 1500 euro mensili) che rifiuterebbero il 10% dell’importo per
dare il consenso? O ancora, di fronte ad una progressione di carriera o ad
un aumento di stipendio o alla semplice conservazione del posto, quanti
metterebbero a repentaglio il futuro proprio e della famiglia per negare
la
firma all’accordo? Abbiamo già visto quello che è successo con i
referendum
della Fiat, in una situazione certamente meno difficile di quella che
attende la moltitudine frammentata nel territorio.
Avevamo già esaminato, in altra occasione, il caso di Pomigliano e
Mirafiori, sottolineandone il carattere in qualche modo simbolico e di
rappresentazione. Nessuno crede seriamente a Marchionne quando promette
fantasiose nuove produzioni ed evoca mirabolanti investimenti; ma la
questione relativa ai diritti sollevata dalla Fiom è stata subito
percepita
dai lavoratori come una trincea. Nel decreto legge (il terzo comma
dell’articolo 8) la vittoria giudiziaria di Landini viene vanificata,
richiamando anche le intese con Camuso del 28 giugno. E’ una clausola ad
uso e consumo di Marchionne: gli accordi siglati da Cisl e Uil (ma non da
Fiom) assumono valenza di legge dello stato e si applicano a tutti, anche
a
chi si era dichiarato contrario. La decisione del Tribunale di Torino
(prima ancora del deposito della motivazione) viene cancellata dal
governo;
le annunciate vertenze individuali promosse dal sindacato metalmeccanico
travolte ancor prima di essere scritte. L’estensione erga omnes di un
accordo collettivo era stata esclusa dalla Corte Costituzionale mezzo
secolo fa; il decreto che estendeva a tutti i dipendenti il contratto
nazionale dei metalmeccanici (firmato unitariamente) non resistette
all’esame della Consulta. Ora il Governo (in soccorso di Marchionne)
impone
come legge l’intesa separata ed aziendale. Il neoliberismo si beffa delle
sue stesse regole fondamentali; e con il neoliberismo dispotico muore la
vecchia ideologia liberale insieme alla consorella socialdemocratica.
* * *
E’ un attacco senza precedenti alla minoranza dei lavoratori che contavano
sulla stabilità occupazionale e su una quota di diritti; ma è anche il
taglio alla speranza coltivata da molti precari di poter ottenere benefici
per via giudiziaria. Con una sorta di livella il governo si prepara a
parificare, con la complicità di una rete sindacale di comodo, la vecchia
classe operaia e il ben più ampio mondo delle moltitudini; l’esatto
contrario di quanto auspicava il buon Landini quando, in primavera,
riteneva praticabile l’estensione della stabilità all’intera produzione
materiale e immateriale. Le proposte di sciopero precario si rivelano
dunque, e assai prima del previsto, un atto di realismo ben più
praticabile
e credibile di una davvero improbabile restaurazione generalizzata delle
conquiste realizzate dall’operaio massa nella grande fabbrica europea. Lo
sostenevamo già prima di questa manovra ferragostana. I lavoratori della
ricerca, della scienza, della comunicazione, dell’invenzione, della moda,
i
costruttori di beni immateriali si trovavano già oltre il confine della
stessa aspirazione alla stabilità occupazionale; e con loro gli uomini e
le
donne dell’assistenza sociale, della movimentazione merci, dei servizi. Ma
anche nello stesso settore della produzione tradizionale italiana
(edilizia
e prodotti di costruzione, piccola chimica e farmaceutica decentrata,
metalmeccanica artigianale o di ridotta dimensione, cantieristica e
progettazione specialistica) spesso non si superano i 15 dipendenti, così
che la stabilità è solo apparente, la flessibilità selvaggia una realtà.
Nell’indotto poi la classe operaia tradizionale viene spesso sentita come
un apparato ostile di controllo. La larga maggioranza era già precaria;
ora
la livella riunisce i settori subalterni. Il decreto legislativo definisce
i ruoli, è una chiamata a raccolta di un ceto repressivo di controllo, per
imporre, con la violenza della menzogna propagandistica e con la forza del
ricatto esistenziale, la partecipazione alla costruzione del profitto in
quella fabbrica sociale che è il territorio (metropolitano principalmente,
ma non solo metropolitano). La cancellazione dei vecchi diritti non può
essere fronteggiata solo con la mera difesa di quanto esisteva, visto che
comunque il movimento esigeva di andare oltre (e non di genericamente
resistere); si tratta di costruirne altri, nuovi, adeguati ai tempi, alle
generazioni, alla composizione attuale di classe. Il maggioritario ed
egemonico punto di vista precario impone di mettere all’ordine del giorno,
senza indugi e senza tentennamenti, la fondazione dello sciopero precario
con un programma (dal reddito alla costituzione del comune) davvero
unificante e alternativo a quello del governo e dei nuovi gendarmi
sociali.
* * *
L’articolo 8 è il cuore del decreto. L’articolo 9 colpisce la manodopera
affetta da invalidità (le grandi aziende potranno articolare le assunzioni
obbligatorie a loro piacimento, creando reparti confine in luoghi adatti);
gli articoli 10 e 11 toccano i metodi per accedere, secondo collaudati
percorsi di sottobosco e/o di sottogoverno, ai fondi pubblici destinati
alla formazione, ma non hanno grande portata concreta. L’articolo 12 è di
un certo interesse, introducendo uno specifico nuovo reato (da 5 a 8 anni
la pena), quello di sfruttamento del lavoro (sic!); a leggerlo nessun
capitalista potrebbe sfuggire alla pena, posto che tutte le imprese
reclutano manodopera approfittando dello stato di bisogno (e senza stato
di
bisogno chi mai andrebbe a lavorare!). In realtà si vuole evitare la
concorrenza anomala di strutture estranee alla vasta rete di controllo,
assicurando tutte le committenze alle grandi centrali di somministrazione
del lavoro (non sono piccola cosa, sono veri supermercati delle braccia);
mentre la quota controllata direttamente dalla criminalità (che era e
rimane un reato associativo più grave e a sé stante) non risente
minimamente di questa previsione (peraltro non facile da sostenere in un
dibattimento, posto che deve essere poi provata violenza minaccia
intimidazione). Soprattutto i committenti, dietro la grancassa di una
finta
norma di tutela, si sono liberati, con il comma precedente e con questo
decreto, della conseguenza che a loro dava maggiore noia, ovvero il
rispondere dei debiti nei confronti dei lavoratori! Nel territorio le
singole rappresentanze sindacali potranno mettere in vendita la loro firma
liberando (dietro compenso in fondo modesto o dietro partecipazione agli
utili) le grandi imprese del capitale finanziario. Il tasso di
sindacalizzazione non è mai stato così basso come oggi in Italia, i
lavoratori iscritti alle tre organizzazioni sono una evidente minoranza.
Eppure con il decreto di ferragosto le centrali delle confederazioni
acquistano un potere che fino ad oggi non avevano mai avuto, con la
possibilità di spartirlo in ogni angolo ed assicurandosi una schiera di
funzionari-complici sulla pelle di una generazione intera. Il massacro
delle illusioni, con questo decreto, si trasforma in oro per le milizie
dei
caporali.
Una considerazione di chiusura: l’articolo 1 comma 24 del decreto, pure
firmato senza il minimo tentennamento da Napoletano, aggredisce una
storica
bandiera della democrazia e del movimento, il primo maggio. Dall’anno
prossimo il simbolo dello sciopero, delle lotte, dell’emancipazione cadrà
in un giorno diverso, a scelta del Presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi. Potrà essere venerdì, lunedì o domenica (con otto ore
supplementari di sfruttamento), secondo l’umore del potere; la livella del
dispotismo occidentale e del capitale finanziario ha parificato anche in
questo le moltitudini.
Il punto di vista precario esige che fin d’ora si colga l’occasione; il
primo maggio sia giornata di sciopero precario per tutti, scadenza di
aperta ribellione, uniti davvero, contro.
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