[Redditolavoro] LA CLASSE OPERAIA E LA CRISI MONDIALE

Partito Comunista dei Lavoratori pclavoratoribologna at gmail.com
Fri Jul 23 12:56:28 CEST 2010


LA CLASSE OPERAIA E LA CRISI MONDIALE: STATO DELLA SITUAZIONE

( articolo tratto da Prensa Obrera n.1136, organo del Partito Obrero,
partito rivoluzionario argentino che insieme al Partito Comunista dei
Lavoratori e altri partiti di vari paesi e continenti da vita al
Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale - vedi
ttp://sites.google.com/site/pclbologna/home/i-siti-del-crqi-2 )


Diverse settimane dopo la notizia della crisi globale sono stati
costretti a recuperare, in pieno XXI secolo, il linguaggio della
"vecchia" lotta di classe. L'irruzione della classe operaia ha
cambiato il panorama. Gli scioperi che hanno scosso il cuore
industriale della Cina - e la sollevazione di massa di lavoratori
tessili del Bangladesh, due settimane fa - sono gli eventi più
importanti della risposta operaia alla crisi mondiale, così come
mostrano l'esplosione della forza elementare del proletariato nel
quadro della bancarotta del capitale. La serie di scioperi generali
che hanno luogo in Europa e la risposta dei lavoratori di questo
continente ai piani di aggiustamento delle imprese e dei loro governi
evidenziano anche un processo di sviluppo che, con lo sciopero
"selvaggio" dei lavoratori della Metro de Madrid sembra essere entrato
in una nuova fase. La lotta dei lavoratori greci presenta un
equilibrio molto fragile che può rompersi in qualsiasi momento come
conseguenza del completo impasse economico e dei tentennamenti
politici all'interno del partito di governo. Lo sviluppo diseguale
della lotta dei lavoratori contro il fallimento del capitalismo in
diverse parti del pianeta, mostra tutte le sfumature di una
maturazione politica che è in pieno sviluppo.


Cina: nulla sarà come prima

La recente ondata di scioperi operai in Cina ha ricevuto più
attenzione e più cura nella stampa finanziaria della grande borghesia
internazionale che nelle pubblicazioni della sinistra, ad eccezione di
Prensa Obrera. Gli apologeti del capitale non sbagliano quando
avvertono l’importanza degli scioperi esplosi nel cuore industriale
della Cina. La loro perspicacia si è fortemente ridotta, questo sì,
quando hanno cercato di spiegare questo ascesa operaia come
conseguenza del declino relativo della popolazione giovane che entra
nel mercato del lavoro - prodotto delle politiche ufficiali di
controllo delle nascite - dopo i piani ufficiali di "stimolo" degli
ultimi anni. "Complessivamente, questi effetti hanno, per la prima
volta, portato l'offerta di lavoro al di sotto della domanda" dice il
Financial Times (2 / 6). Queste spiegazioni "sociologiche", al di là
della loro importanza, non sono sufficienti per capire che l'elemento
chiave degli scioperi in corso è l'irruzione della forza elementare
delle masse che spezza tutte le strutture create per contenerla e
modifica il quadro delle relazioni tra le classi.

Si tratta milioni di giovani che lavorano per imprese appaltatrici
delle principali multinazionali del pianeta. Negli impianti dove si
assemblano le nuovissime PlayStation 3 della Sony ed i sofisticati
iPhone della "progressista" di Apple, i lavoratori eseguono turni di
dodici ore, senza riuscire a sedersi o parlare tra loro, sottoposti ad
un regime carcerario anche per andare al bagno. Poiché la maggior
parte di loro sono immigrati dalle zone rurali, vivono in dormitori
collettivi forniti dalle aziende stesse. In una di esse, la Foxconn,
che è il  principale produttore di elettronica al mondo, la notizia
degli ultimi mesi è stata l'ondata di suicidi dei giovani dipendenti,
per la disperazione dovuta a giornate di lavoro molto lunghe e
monotone e all'impasse di una vita senza senso.

La crisi degli ultimi anni è stata il laboratorio accelerato in cui è
maturata rapidamente l'esperienza di questa nuova generazione di
lavoratori cinesi. "Si verificano proteste dei lavoratori lungo il
delta  del fiume Pearl e dello Yangtze dall'inizio dell'anno"
(Financial Times, 11/6), non se n’è giunti a conoscenza a causa del
loro carattere localizzato e per la decisione delle imprese e del
governo di non diffonderne la notizia, al fine di evitare una "cattiva
stampa". Altre vanno ancora più in là (sottinteso : nel tempo, credo
N.d.T) : "In effetti, la Cina ha sperimentato una notevole agitazione
industriale negli ultimi decenni, per lo più localizzata e poco
conosciuta" (Financial Times, 10 / 6).

"Chang Kai, docente di Relazioni Industriali e Diritto presso
l'Università di Renmin, ha detto che il numero di scioperi è aumentato
ad un tasso del 30% annuo" (The Guardian, 17 / 6). Quando i conflitti
vennero alla luce il mese scorso, sono state varie le società
multinazionali che hanno segnalato che negli ultimi mesi c'erano stati
scioperi nei loro impianti cinesi. Tra il moltiplicarsi degli
"incidenti" industriali - come sono definiti dal governo cinese - e
l'attuale ondata di scioperi, tuttavia, vi è un salto di qualità.
Avevano ragione chi segnalava che la novità degli scioperi del mese
scorso è stata la loro "interconnessione": ogni conflitto è stato
l'ispirazione del successivo. "I lavoratori si tengono al corrente
sulle azioni di sciopero attraverso i telefoni cellulari e altri
dispositivi di messaggistica istantanea" (Financial Times, 11 / 6).

In svariati dei recenti scioperi, i lavoratori  hanno fronteggiato la
burocrazia sindacale ufficiale e rivendicato la formazione di
sindacati indipendenti, basati su rappresentanti eletti, a partire
dall'esperienza fatta durante il conflitto. Il Wall Street Journal (14
/ 6) si è allarmato di fronte al fenomeno: "Il fatto che i lavoratori
chiedano il diritto di formare sindacati indipendenti", ha affermato,
"dà una dimensione politica al conflitto di lavoro. Se i lavoratori
potranno eleggere democraticamente i loro dirigenti sindacali, sarebbe
un svolta nella storia del movimento operaio cinese ".

La burocrazia del PCC ha mantenuto un silenzio prudente durante lo
sviluppo degli scioperi, anche se a metà del mese scorso ha rotto gli
indugi e dichiarato che "i lavoratori hanno ricevuto la quota minore
della prosperità economica" e che gli scioperi "dimostrano la
necessità di una tutela organizzata del lavoro nelle fabbriche
cinesi". Coloro che sostengono che il governo cinese non disapprovi
che le imprese straniere aumentino le retribuzioni, in quanto
contribuiscono a "promuovere il consumo", nel contesto della crisi,
vedono solo una parte del film, perché la burocrazia teme come la
peste la possibilità di un intervento operaio, che necessariamente
travalicherebbe i canali dei propri apparati sindacali controllati
dallo stato e aprirebbe la strada ad una crisi di regime.

"Gli esperti ritengono che i leader del PCC siano molto preoccupati
per la possibilità di uno scenario come quello della Polonia degli
anni 1980, in cui un movimento sindacale indipendente portò alla
caduta del regime" (Wall Street Journal, 14/6). L'attuazione di
accordi collettivi di lavoro sarebbe una sconfitta aperta per il
regime politico cinese - all'elezione di rappresentanti da parte dei
lavoratori seguirebbe la rivendicazione di sindacati indipendenti e
quindi della libertà di espressione e del diritto di sciopero. Jorge
Castro, nel Clarín, ha avvertito l'entità del problema quando in un
editoriale ha affermato che "il problema dei lavoratori migranti non è
salariale, ma politico". La sua previsione che il regime cinese
permetterà una redistribuzione per adattarsi alle nuove circostanze,
tuttavia, riflette meno la realtà che non i suoi desideri e in ogni
caso mette in luce un errore di metodo: nessun "adattamento" con
queste uniche caratteristiche potrebbero realizzarsi nel contesto di
crisi senza precedenti.

Così guardano solo a una parte del film anche quelli che concludono
che la conseguenza della rivolta operaia cinese sarà un aumento
aritmetico dei "costi del lavoro" e la fine della manodopera a basso
costo fornita dalle masse di questo paese. Le dichiarazioni della
giovane di 21 anni che ha diretto lo sciopero Honda ("la nostra lotta
non è per i 1.800 lavoratori, ma si tratta di difendere i diritti di
tutto il proletariato cinese") mostra l'alto livello di complessità
delle discussioni che si sviluppano tra i lavoratori e dimostrano che
la maturazione di questa avanguardia si sviluppa al ritmo accelerato
che contraddistingue la crisi globale. Allo stesso tempo mostra la
profondità dei dibattiti che hanno luogo: se, da un lato, la "difesa
del proletariato contro il capitale" implichi una lotta contro la
restaurazione capitalista, il supporto ad alcuni settori del PCC, e il
consolidamento di un’opposizione di classe contro lo sviluppo
capitalista, o, al contrario, significhi una lotta per la rivoluzione
sociale, che deve prima rovesciare la dittatura restaurazionista del
PCC e stabilire un'autentica dittatura del proletariato.




Bangladesh: sciopero di massa

I lavoratori "peggio pagati al mondo"

Di fronte all'ondata di scioperi operai in Cina non sono mancati
quelli che hanno detto che la conseguenza sarebbe stata la
delocalizzazione di molte imprese in altri paesi asiatici, tra cui il
Bangladesh. Pensavano senza dubbio all'industria tessile di quel
paese, dove è impiegata, da imprenditori che producono per i marchi
dell' abbigliamento più sofisticati al mondo, una forza lavoro di
oltre quattro milioni di lavoratori, per l'85% donne, in condizioni
dantesche di sfruttamento : con un salario minimo di 25 dollari sono,
secondo Financial Times, "i peggio pagati al mondo".

L'idea degli analisti pecca di inadeguatezza, perché proprio questo
strato della classe operaia super-sfruttato è appena stato
protagonista di una vera e propria esplosione di scioperi di massa.
Dal 13 giugno e per più di una settimana, decine di migliaia di
lavoratori tessili hanno lasciato le fabbriche occupando strade e
autostrade: il 21 c’è stata una massiccia manifestazione di massa di
oltre 50.000 persone che ha occupato le vie, accolta da una brutale
repressione che ha lasciato oltre un centinaio di feriti. Gli scontri
con la polizia sono durati diversi giorni e si sono trasformati in
vere rivolte nei quartieri operai. Il padronato ha cercato di passare
all'offensiva con una massiccia serrata di oltre 250 fabbriche e tutte
le aree industriali sono state militarizzate. Il 23, tuttavia, il
governo ha dovuto cedere: il ministro del lavoro ha riconosciuto che
il salario minimo "ormai non corrispondeva più alla situazione
attuale" e ha promesso di rivederlo nei prossimi mesi. Sotto la
pressione delle ordinazioni insoddisfatte dei loro clienti stranieri,
le aziende hanno tolto il lock-out  e i lavoratori sono rientrati in
fabbrica seguiti da una costante sorveglianza della polizia, in mezzo
a stabilimenti distrutti dagli scontri dei giorni precedenti.

"Dobbiamo evitare la violenza, perché stiamo assistendo a una ripresa
economica e le agitazioni operaie minacciano le ordinazioni dei nostri
clienti", ha affermato un think-tank  degli imprenditori tessili.
Insieme agli scioperi dei lavoratori cinesi, la rivolta operaia dei
tessili del Bangladesh, segna un salto nella risposta del proletariato
alla crisi capitalistica:  il fatto che provenga dai settori più
sfruttati della classe operaia mondiale è un dato che dovrebbe essere
registrato da tutti coloro che credevano che la bancarotta economica
fosse una questione di pura statistica.

Lucas Poy
                         (traduzione GianmarcoSatta - PCL)



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