[Redditolavoro] Circolo Giancarlo Landonio_AVVISO AGLI STUDENTI

clochard spartacok at alice.it
Fri Dec 24 19:40:03 CET 2010


AVVISO AGLI STUDENTI










Diverse volte ho parlato di "innesti" a proposito dei materiali delle compagne e dei compagni di Rivoluzione Comunista. Pur non condividendo molte cose di questo opuscolo, credo che meriti abbondantemente una larga circolazione.

enrico






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Sent: Friday, December 24, 2010 1:51 AM
Subject: R: Gennaro Carotenuto_La Riforma... La manifestazione nazionale del 25 ottobre 2005, anticipava gli eventi, Saluti rossi.


CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA 
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21052 BUSTO ARSIZIO –VA- Italia

Quart. Sant’Anna dietro la piazza principale)

e-mail: circ.pro.g.landonio at tiscali.it











---------------------------ARCHIVIO OPUSCOLI DIFFUSI 2005/2006



SAPERE E POTERE Il cortocircuito della protesta universitaria 2005 - 29 gennaio 2006
OPUSCOLO

SAPERE 
E POTERE



Il cortocircuito della protesta 
universitaria 2005



Presentazione

 Questo opuscolo è dedicato alla protesta universitaria dell’autunno 2005. Da tempo gli studenti universitari mancavano dalla scena politica. Con l’apertura dell’anno accademico 2005-2006 essi hanno occupato un certo numero di atenei e dato vita ad alcune imponenti manifestazioni. Ripropongono la vecchia richiesta del diritto allo studio, colorandola con la vernice del carattere pubblico dell’università e sociale del sapere.

Rispetto alle passate agitazioni l’attuale si distingue per una maggiore consapevolezza del rapporto tra studi e condizione sociale, tra cultura e mercato; ma con una illusione in più. Con l’illusione che si possa riformare dal basso l’università senza toccare il quadro della gerarchia accademica e il sistema di potere.

I nuovi protestatari, invece di agire per affrancare il sapere la scienza dal potere della classe dominante, pensano di diffondere una cultura alternativa come se fossero in un’isola abitata soltanto da studenti.

La questione del sapere è la questione del potere. E, senza affrontare questo nodo, non solo non si fanno passi in avanti, ma si sprofonda nella confusione e nei contorcimenti.

L’opuscolo è una critica alla predetta illusione e un invito a imboccare la strada giusta per giungere al traguardo della riappropriazione sociale del sapere.

Per rendere più sobria la lettura premettiamo al testo lo schema generale, aggiornato in questa occasione, sul ruolo giuocato dalla scuola e dall’università dall’unità a oggi.



Milano, 29 gennaio 2006

          a.. La Commissione Giovanile 
          di Rivoluzione Comunista



Introduzione 
 Scuola e università

dall’unità ai giorni nostri



 La scuola e l’università sono un apparato fondamentale della società capitalistica. Questo apparato, che ha come suo compito istituzionale la formazione delle nuove generazioni, segue l’evoluzione di questa società. E vi svolge uno specifico ruolo in ogni tappa del suo sviluppo. La scuola, di ogni ordine e grado, e l’università hanno sempre seguito l’accumulazione del capitale e l’evoluzione della forma Stato ed hanno sempre riflesso gli interessi delle classi dominanti; adeguandosi, in modo più o meno funzionale, ma stabilmente, alle loro esigenze complessive, in ogni periodo o stadio del loro dominio. Esse conservano e riproducono i loro tratti fondamentali di classe nel mentre assumono e sviluppano i caratteri nuovi richiesti dall’evoluzione complessiva del sistema economico e sociale. Per dare un quadro retrospettivo delle trasformazioni e adattamenti alle esigenze del sistema, nelle varie fasi del suo sviluppo, compendiamo il ruolo svolto da questo apparato nella seguente periodizzazione.

1°) 1860-1890: nella fase di nascita la scuola è statale, obbligatoria e gratuita, e svolge il compito di alfabetizzazione della popolazione; essa viene sottratta al monopolio ecclesiastico ed utilizzata dalla nuova borghesia per consolidare il quadro nazionale uscito dalle guerre d’indipendenza, preparare manodopera generica e sudditi ubbidienti; è la scuola dell’unificazione del mercato interno e dello Stato unitario. L’università è riservata alla borghesia.

2°) 1890-1919: in questa seconda fase la scuola si adegua allo sviluppo dell’industria con l’estensione dell’obbligo scolastico a 12 anni, il passaggio della gestione dai comuni allo Stato, la qualificazione della manodopera (scuole operaie e istituti industriali), l’avvio dell’indirizzo scientifico nell’insegnamento secondario; è la scuola della maturazione industriale del capitalismo italiano e del suo passaggio all’era imperialistica. L’università è aperta alle classi medie.

3°) 1920-1950: in questo terzo periodo la scuola diviene l’apparato di base per la massificazione dell’insegnamento e della disciplina scolastica; la secondaria e l’università forniscono nuovi quadri, burocratici e tecnici, nonché gli accademici, al nuovo blocco di potere finanziario-industriale-agrario; è la scuola del capitale monopolistico nello stadio iniziale dell’interventismo statale.

4°) 1951-1968: in questo quarto periodo la scuola ha il compito di formare una forza-lavoro di massa di grado medio di istruzione più elevato e specializzato occorrente all’ascesa post-bellica del sistema economico; si ha il completamento della scolarizzazione di massa con la statalizzazione della scuola materna: l’estensione della scuola dell’obbligo a 14 anni; l’unicità dell’istruzione media inferiore. Agli istituti tecnici si affiancano gli istituti professionali, strumenti più flessibili al servizio dell’industria. L’università si apre alla piccola-borghesia e a uno strato operaio. È la scuola del capitale monopolistico dell’intervento programmato dello Stato e del blocco finanziario-industriale-urbano.

5°) 1969-1980: in questa fase la scuola ubbidisce all’esigenza di massificazione-selezione degli studi, posta dalla riorganizzazione produttivistica e multinazionale del sistema economico; viene introdotto il tempo pieno nelle elementari, nonché la scheda di valutazione finalizzata al controllo statale; la scuola viene piegata a produrre forza-lavoro modulare e tecnica; l’università, mentre da un lato sforna lauree di vecchio tipo, dall’altro seleziona e specializza coi corsi post-universitari. È la scuola del capitale monopolistico multinazionale finanziato dallo Stato.

6°) 1981-1991: la scuola si trasforma in un apparato per la "formazione permanente"; per la creazione di forza-lavoro modulare e fungibile, adatta a tutti gli usi richiesti dal mercato e dalle imprese. Esso ingloba tutto il materiale umano, potenzialmente dall’infanzia alla maggiore età, mediante l’estensione dell’obbligo scolastico (estensione continuamente differita sul piano legislativo ma operativa di fatto) che predispone attraverso la disciplina e il sapere tecnico strumentale le nuove leve, dall’asilo alla secondaria superiore, alla fungibilità e alla svalorizzazione. L’università accentua i propri caratteri selettivi mediante l’alto costo e la lunghezza degli studi. Scuola e università subiscono, nel loro insieme, l‘azione disgregante, snazionalizzatrice e autonomistico-privatizzatrice, del capitale elettronico-informatico sotto l’egida del blocco parassitario.

7º) 1992-1999: è la fase del riassetto autonomistico-manageriale-privatistico di scuola e università, che si modella sull’impianto del modello asfittico di economia, produttivistico-competitivo-aggressivo, instauratosi nel 1992 come reazione alla crisi generale di sovrapproduzione. Il riassetto scatta il 9/8/1993 con il decreto taglia-classi con cui vengono messi a disposizione 100.000 insegnanti e soppresse 57.000 classi. L’apparato scolastico viene frantumato in un complesso di scuole-azienda gettate nel mercato, mosse da ritmi differenziati e territoriali, votate al tecnicismo e all’ignoranza e al confessionalismo e centrato sulla formazione di base. L’università sviluppa i suoi tratti elitari col numero chiuso l’obbligo di frequenza e i carichi di studi inutili. Espansione sul mercato della formazione-istruzione dell’influenza delle scuole confindustriali e confessionali, specialmente nei settori alti del sapere, secondo una tendenziale divisione dei ruoli nella sfera inferiore e superiore dell’istruzione tra scuola pubblica e scuole private (1).

8º) 2000-2006: il sistema Italia entra in depressione; viene lanciato il nuovo modello di istruzione e degli studi, basato sul riordino dei cicli, sui crediti e debiti formativi e su lauree prolungate e lauree brevi, sul 3+2. Il riordino è finalizzato all’alfabetizzazione informatica, alla formazione di forza-lavoro flessibile, funzionale alle aziende, e di tecno-burocrati adattabili al parassitarismo finanziario e ligi al potere (2). Finisce anche di nome la scuola unitaria ed inizia la scuola differenziata, territoriale. Ai programmi ministeriali subentrano i curricoli personali (e personalizzati) e i Pof (3). I tratti caratterizzanti del nuovo modello di scuola sono: a) l’insegnante diviene risorsa strategica; perde ogni connotato intellettuale e umano e diventa una pedina del mercato dell’istruzione; con preminenza della sua funzione quantitativa a scapito di quella qualitativa; b) i contenuti formativi vengono sottomessi alle tecniche di comunicazione; si premiano le qualità tecniche dell’insegnante sulle sue conoscenze e sul suo sapere effettivo; c) gli alunni e studenti debbono adattarsi agli strumenti comunicativi; d) l’apparato scolastico, impiegato come ariete della competizione e della conflittualità intersistemi, comprime ogni capacità di sviluppo personale e attua una selezione militaristica. Il sapere universitario diventa una merce sempre più svalorizzata. L’università viene sottoposta a un riassetto elitario gerarchico e affaristico. I tratti di questo riassetto sono: a) mercatizzazione della ricerca e precarizzazione di docenti borsisti dottorandi; b) divaricazione crescente tra atenei addetti a sfornare diplomati ignoranti e titoli senza valore e atenei d’élite ad alta formazione; c) svalutazione delle conoscenze accumulate e sottoposizione gerarchica dei docenti ai capi (4); d) tassazione crescente.

  (1) Nel Supplemento 1/12/1999 così sintetizziamo: la scuola contemporanea, "pubblica" "confindustriale" "convenzionale", è un apparato aziendalizzato diretto a sfornare forza-lavoro flessibile e personale tecnico e burocratico, all’insegna dell’individualismo, della competizione, della rendita finanziaria e della sopraffazione.

(2) L’imperativo del riordino dei cicli è imparare a rendersi disponibili ad ogni uso, istruirsi per digitare, digitare. Il nuovo modello diventa operativo il 10/9/2001 ed è lanciato verso la schiavizzazione digitale della mente e del corpo.

(3) Il 10 settembre 2000, quando prende pratico avvio il nuovo modello scolastico basato sull’autonomia degli istituti, si rendono superflui 50.000 insegnanti.

(4) La riforma Moratti, introdotta nelle scuole il 10/9/2003, ha impresso al riassetto aziendalistico-mercantilistico dell’apparato scolastico e delle università un carattere più affaristico e meritocratico.



Cap.1º
La protesta degli studenti universitari

 Con l’autunno è partita negli atenei la protesta studentesca contro la riforma Moratti. Per la cronaca i primi a muoversi sono stati i ricercatori, i quali, in numerose università (Cosenza, Napoli, Trieste, ecc.), si sono rifiutati di iniziare le lezioni. Ad essi si sono poi uniti i docenti, che hanno sospeso le lezioni; e così, in una ventina di università, non è cominciato l’anno accademico. Sulla stessa scia si sono posti anche i rettori. Segno tutto questo del malcontento diffuso tra le categorie centrali dell’apparato accademico nei confronti di ciò che viene chiamato lo sfascio dell’università pubblica. Qui ci occupiamo soltanto della protesta degli studenti universitari, da lungo tempo assenti dalla scena attiva.

  Ritornano in scena gli universitari

con più problemi ma con schemi logori

 L’agitazione degli studenti universitari è partita con riunioni assemblee e occupazioni. La protesta più ampia è quella messa in atto nel nostro maggiore ateneo, La Sapienza di Roma, ove vengono occupate in breve tempo circa dieci facoltà a partire da fisica, matematica, chimica. Il 13 ottobre gli studenti dell’ateneo romano formano un enorme corteo e, dopo avere fatto alcuni giri attorno all’isolato, si dirigono verso Stazione Termini. Il corteo viene bloccato dalla polizia e termina poi in P.za Indipendenza. Nello stesso giorno si svolgono manifestazioni studentesche in molte città. L’agitazione diviene ben presto un movimento generalizzato contro la riforma Moratti.

In generale gli studenti protestano: a) contro la precarizzazione; b) contro l’aumento delle tasse scolastiche; c) contro le cattedre private; d) contro la concezione dell’università come strumento tecnico a servizio dell’innovazione del sistema di produzione; e) contro l’adattamento subalterno dello studente alle materie e ai ritmi delle lezioni e degli esami; f) contro la mercificazione dell’istruzione, il mercato dei crediti e dei micro insegnamenti. In particolare gli studenti dell’ateneo romano denunciano la riforma Moratti in quanto: a) si ispira a una visione familistica; b) porta a una regionalizzazione del sistema formativo; c) privatizza il sapere; d) riduce l’obbligo e il tempo scuola; e) burocratizza l’attività docente con una crescente subordinazione alla dirigenza. Gli studenti in agitazione sono tutti, o quasi, a difesa del carattere pubblico dell’università e della scuola contro la privatizzazione.

In merito a questa ripresa delle agitazioni negli atenei potremmo dire: meglio tardi che mai. Ma ci tocca subito osservare che le idee e i propositi, che animano gli universitari, sono logore e velleitari in quanto, a prescindere per il momento da ogni altra considerazione specifica, essi fanno finta di non vedere (o non vedono) che la precarizzazione e la privatizzazione della formazione e del sapere sono pratiche, procedimenti, perseguiti dallo Stato (dal potere pubblico per eccellenza) a protezione della razzia del lavoro e delle risorse nell’interesse di sfruttatori parassiti e avvoltoi; e che, senza combattere questo Stato, qualsiasi protesta finisce nel ridicolo o nel nulla.

 Cap.2º

La riforma Moratti completa il riassetto

elitario, gerarchico, affaristico, degli atenei

  Abbiamo visto che le prime facoltà, che hanno iniziato le occupazioni, sono quelle di fisica e matematica. Di passaggio va detto che da anni, in seguito alla trasformazione meccatronica dell’apparato industriale, le facoltà di fisica matematica chimica hanno registrato la caduta delle iscrizioni a favore delle facoltà di informatica e biotecnologia per limitare il confronto alle materie scientifiche. E sono le più esposte ai contraccolpi dei criteri mercatistici e contabili della riforma Moratti. E forse per questo si sono mosse per prime. Gli studenti di fisica e matematica lamentano la subalternità della loro formazione alle esigenze delle imprese, la fragilità del loro sapere e l’inidoneità dei propri sforzi. Ma anche la massa degli studenti delle altre facoltà lamenta le stesse cose; e cioè che gli atenei sono fabbriche di titoli senza valore, che col diploma 3+2 non si arriva a un sapere effettivo, che i ritmi tra lezioni ed esami sono elevati senza che ciò porti ad alcun profitto conoscitivo, che le tasse aumentano. Ed imputa tutti questi guasti alla riforma Moratti, commettendo lo stesso duplice errore dei primi, di confondere con questa i guasti derivanti dalle precedenti riforme e di non vedere quelli propri di quest’ultima. Occorre a questo punto, per il prosieguo dell’analisi, la nostra valutazione specifica di questa riforma.

La riforma Moratti, ultima tappa di un lungo processo di aziendalizzazione-mercatizzazione dell’apparato della pubblica istruzione, si inquadra nel riassetto elitario gerarchico affaristico dell’università; connesso alla nuova forma di Stato di protettore di rendite finanziarie.

I tratti principali di questo riassetto sono: 1º) il completamento accelerato della trasformazione degli studi da "servizi pubblici" a "servizi privatizzati", con conseguente mercatizzazione della ricerca e precarizzazione di docenti, borsisti, dottorandi, assegnisti (perdita di ogni ruolo stabile nell’università); 2º) l’allargamento-approfondimento del doppio canale con la divaricazione spinta tra atenei addetti a sfornare diplomati ignoranti e titoli senza valore, da un lato; e atenei d’élite, ad alta formazione, proiettati al sapere competitivo, dal lato opposto (differenziazione elitaria del sapere accademico); 3º) la sottoposizione gerarchica del personale docente ai capi nel quadro della piena flessibilità (svalutazione delle conoscenze accumulate); 4º) la canalizzazione dei fondi per la ricerca verso i centri specializzati privati (svuotamento delle università); 5º) la tassazione crescente degli studi. Sono questi, nelle grandi linee, gli aspetti principali della riforma.

 I costi crescenti di formazione

 Una considerazione specifica va fatta, prima di passare avanti, sull’ultimo aspetto. In base ai dati del 2002 la spesa totale a sostegno delle università è di 10 miliardi di euro, pari allo 0,8% del Pil, di un terzo al di sotto della media europea. Gli iscritti ai corsi, a quelli di laurea specialistica e a quelli triennali, ammontano a 1.750.000. La spesa è così ripartita: per 6 decimi a carico del ministero; per un decimo e mezzo a carico degli studenti; per meno di un decimo a carico di enti pubblici, privati e fondi U.E.. Come si vede da queste percentuali il grosso della spesa grava sul tesoro e, in parte non trascurabile, sulle tasche degli studenti. I contributi dei privati sono marginali. La privatizzazione degli studi accentua lo spostamento dei fondi dagli atenei ordinari agli atenei di élite. Con l’anno accademico 2005-06 il ministro ha sostituito, nell’assegnazione dei fondi, al criterio del numero degli iscritti, il criterio dei risultati, basato sull’intreccio di questi parametri: a) percentuale di abbandoni dopo il primo anno; b) percentuale degli immatricolati di primo anno che non abbiano ottenuto un’adeguata percentuale di crediti; c) percentuale di laureati nel limite della durata del corso; d) percentuale degli occupati ad un anno dalla laurea. Questo criterio esaspera la sete finanziaria degli atenei ordinari in particolare di quelli meridionali. Quindi a studi sempre più effimeri e inutili corrispondono costi formativi crescenti.




Cap.3º 
La manifestazione nazionale

del 25 ottobre

  Tutto il movimento di agitazione delle università culmina nella manifestazione davanti a Montecitorio per dissuadere la Camera dall’approvare la riforma. Dalle facoltà occupate e in agitazione partono per la capitale con treni e mezzi vari migliaia e migliaia di studenti dal Sud dal Centro e dal Nord. Roma viene invasa da 150.000 studenti. Un corteo enorme si distende da P.za della Repubblica a P.za Cavour. La manifestazione è pacifica. Un po’ di tensione scoppia a Montecitorio ove la polizia manganella i manifestanti. Nonostante la massiccia protesta e l’assedio di Montecitorio la Camera approva nel pomeriggio la riforma che diventa pertanto legge.

Arrabbiati dall’esito del voto i manifestanti lasciano Montecitorio e ritornano alle sedi di partenza. Lasciando Roma si portano dietro due stati d’animo. Da un canto l’avversione contro la violenza della polizia. Ma non possono aspettarsi che Pisanu, riferendo il 7 novembre al parlamento, condanni la manifestazione studentesca affermando che elementi anarcoidi, marxisti-leninisti, antagonisti radicali, con in mente un solo obbiettivo "scontrarsi con le forze dell’ordine ed espugnare Montecitorio", hanno animato il corteo del 25 ottobre. Dall’altro la risoluzione di cambiare l’università per difendere il loro lavoro. Ma questa risoluzione si perde per strada. La manifestazione di Roma segna quindi l’apice dell’agitazione degli universitari.

Nei giorni successivi c’è aria di smobilitazione. Solo a Milano, ma per poco, il 28 ottobre pomeriggio gli studenti occupano la Statale. Gli statalini erigono uno striscione con la scritta "La cultura non ha prezzo - Liberi saperi per tutti". L’occupazione è molto blanda e gli occupanti si accontentano che il rettore Decleva accordi uno spazio permanente e lasci che i consigli di facoltà siano aperti a tutti. Lunedì 7 novembre riprendono le lezioni. Gli studenti presidiano l’aula 102. Ma tutto ritorna nella normalità. Resta in piedi una patetica scritta: "Ci serviva un’aula per cominciare a volare". Rapportati al proposito di cambiare l’università questi sospiri sono disperanti.

  L’"autoriforma dal basso"

 Il 6 novembre si svolge a La Sapienza, ancora occupata, un’assemblea nazionale degli universitari dei principali atenei. L’assemblea decide la fine dell’occupazione e l’inizio di una nuova linea imperniata sull’intervento nei processi formativi e sui ritmi. Nella risoluzione approvata dall’assemblea a nome degli studenti universitari, dei ricercatori precari, degli studenti medi; presentata come manifesto, la nuova linea è articolata in questi tre slogans: 1º) Vogliamo studiare con lentezza; 2º) Vogliamo studiare tutte e tutti; 3º) Vogliamo costruire tutto il nostro sapere. Col primo slogan i firmatari sostengono che "il tempo dell’università deve adattarsi al nostro: vogliamo una radicale diminuzione dei ritmi di studio e rifiutiamo l’obbligatorietà della frequenza". Col secondo rivendicano "reddito, servizi e casa, gratuità dell’accesso all’università e alla formazione, rimozione di tutti i blocchi e degli sbarramenti al percorso universitario, abolizione della proprietà intellettuale, moltiplicazione delle borse di studio e dei posti alloggio sganciati da logiche meritocratiche". Col terzo reclamano "l’autogestione e l’autogoverno della didattica e della ricerca, lo scardinamento del sistema dei crediti attraverso pratiche diverse: tanto il riconoscimento di tutte le attività formative e di ricerca autogestite; quanto l’irruzione del sapere critico nei programmi didattici". Questa nuova linea viene chiamata autogoverno dal basso. E costituisce il progetto operativo massimo scaturito dalle agitazioni universitarie di questo autunno. Occorre quindi prenderla in esame; avvertendo che, ai fini di questo esame, è sufficiente dare uno sguardo all’impianto politico del progetto e alle sue tre segmentazioni senza passare a considerare le singole richieste che vanno lasciate al momento pratico.

 Cap.4º

Un progetto aborto

 I firmatari del manifesto partono dal presupposto che l’assetto dell’università e della formazione è basato sui processi di precarizzazione e sui meccanismi del 3+2 e dei crediti. Orbene la possibilità di praticare un progetto, che si propone di investire questo assetto, richiede un’azione basilare e sistematica contro il potere accademico e le direzioni scolastiche nonché contro il potere statale, che di questo assetto e di questi processi e meccanismi rappresentano, rispettivamente, cinghie di trasmissione e motore. E non basta. Occorre poi che questa azione si ispiri a una prospettiva di potere e a una società senza classi. Nel manifesto non si fa neanche un accenno a questi due pilastri del sistema di studi e istruzione e si lascia credere che i blocchi della didattica, gli scioperi delle frequenze, l’autogestione di aule, le autoriduzioni, siano idonei a incrinare l’assetto deprecato e a trasformare l’università e la scuola a misura di studenti e ricercatori. Lascia credere quindi che si possa cambiare il ruolo il ritmo e gli obbiettivi degli apparati di studio formazione ricerca senza toccare la macchina di potere, le sue concrete articolazioni e il suo effettivo funzionamento.

I firmatari del manifesto, pur scontando che centro-destra e centro-sinistra sono responsabili di questo assetto, non si propongono poi alcuna azione o lotta contro il sistema politico e fingono di non vedere che senza spezzare questo sistema non è possibile modificare, in qualche aspetto che conti, il modello formativo. Essi fantasticano di riformare dal basso l’università aziendalizzata e la scuola costrittiva senza ribaltare gli equilibri politici. Si potrebbe dire che queste testoline decadenti non sanno cos’altro scoprire per non combattere il dominio del capitalismo finanziario-parassitario che ha trasformato sapere scienza ricerca in un affare o in un mezzo per l’affare. Pertanto, e per farla breve, il progetto di riforma dal basso si rivela un aborto o peggio una farsa.

 


Diritto allo studio e "reddito di studentato" 
richieste stantie



Abbiamo visto l’impianto politico dell’autoriforma dal basso; passiamo ora a esaminare le sue tre articolazioni.

Prima. I nostri riformatori dal basso per prima cosa vogliono adattare il tempo dell’università al loro tempo di vita mediante una radicale diminuzione dei ritmi di studio. Essi affermano: "Vogliamo studiare con lentezza". Non si vede in che modo questa aspirazione possa incidere sui tempi dell’università. Come è noto la filosofia cui si ispirano maggioranza e opposizione, comprese le autorità accademiche e scolastiche, è che la formazione e la ricerca consentano all’Italia di svolgere un ruolo di protagonista in Europa e nel mondo. Tale filosofia esprime il primato della competitività, che comporta spreco di studi e di costi, con tutti i suoi ineluttabili esiti distruttivi. La possibilità di studiare con lentezza non appartiene all’università esistente. Per potere studiare con lentezza bisogna cercare un’università ed una scuola apposite, ad hoc. Quindi, agli studenti che vorranno studiare con lentezza, toccherà restare fuori corso, finché potranno.

Seconda. I nostri riformatori affermano poi: Vogliamo studiare tutte e tutti. Il proposito è magnanimo se riferito a tutti i giovani indistintamente. È corporativo se riferito ai soli iscritti all’università (in corso o fuori corso). Nel primo caso questo proposito avrebbe senso se i nostri riformatori aspirassero all’uguaglianza sociale in quanto senza il presupposto dell’uguaglianza non si vede come possano frequentare l’università tutte e tutti: figli di ricchi e benestanti e figli di poveri. Ma non ci pare che il loro tutte e tutti abbia questa portata generale. Nel secondo caso, che è quello a cui essi pensano effettivamente, non è tanto facile contrastare la tendenza ai costi crescenti degli studi e alla selezione di classe che questi costi producono. Per contrastare queste tendenze occorre una lotta stabile degli universitari che si contrapponga alla politica finanziaria perseguita dal governo e dal potere nei confronti dell’università e della scuola. Le pratiche di autoriduzione dei pasti dei costi di trasporto dei servizi culturali degli affitti, proposte dai riformatori; e lo stesso dicasi per la richiesta di un reddito di studentanza; sollevano il problema ma non ne contengono la soluzione. Quindi senza lotta al potere ogni intenzione di autogoverno dal basso si rivela, come ben noto, una velleità o una suggestione.

Terza. Infine, il manifesto afferma: Vogliamo costruire tutto il nostro sapere. L’affermazione è pretenziosa come possibilità studentesca separata dal sistema sociale e, al contempo, impotente sul piano pratico in quanto: a) il sapere dipende dal potere e l’università non è una fabbrica sociale del sapere (come scrivono gli Unisurfers) bensì un’azienda privatizzata di studio del sapere capitalistico di tipo finanziario-parassitario; b) non si può costruire un’altra didattica con discussioni convegni seminari autogestiti e feste senza prima ribaltare il ruolo di classe dell’università, ossia senza prima trasformare gli atenei da strumenti a servizio del profitto e della rendita in strumenti a servizio delle masse. Senza questo ribaltamento convegni seminari feste, ecc., riprodurranno le idee culturali dominanti, false e mercificate, a meno che questi incontri non scaturiscano da iniziative ispirate a una logica rivoluzionaria. Peraltro, riconoscere che il sapere vivo è un "processo collettivo e cooperativo alternativo alla logica dell’università-azienda individualista e competitiva" senza attaccare il pilastro di questa logica, cioè il potere col suo apparato statale, significa scimmiottare con le questioni grosse, per non far nulla. Il sapere è potere. Quindi senza attaccare il potere non solo non si può fare emergere il sapere vivo, ma non si possono nutrire e produrre nemmeno idee progressive e avanzate.

Pertanto le tre vie proposte dai riformatori dal basso, che all’assemblea non hanno raccolto il consenso da tutte le varie tendenze presenti, portano al vicolo cieco di chi recrimina contro l’oppressione ma non si rimbocca le maniche per combatterla o all’ignavia di chi sogna un’oasi nella società sprofondata.

 Cap.5º

Studiare non è lavorare

 Dopo un mese e mezzo di occupazioni di manifestazioni e di discussioni possiamo formulare la nostra valutazione finale. Le proteste universitarie, che hanno contrassegnato l’autunno, non sono espressione di un malcontento contingente degli atenei. Sono la manifestazione particolare dello stato di tensione generale esistente nell’ambiente universitario contro svalorizzazione costosità precarietà degli studi e della ricerca. Questo stato di tensione è il risultato di due spinte opposte: dell’accresciuta consapevolezza che il lavoro mentale è legato alla precarietà del lavoro manuale (legame tra situazione universitaria e situazione sociale); e della paura di finire nel proletariato. Mossa da queste spinte contrastanti la fascia centrale del movimento di protesta ha inventato la riforma dal basso, presentando la cultura come patrimonio di tutti, lo studio come lavoro, il lavoro mentale come lavoro subordinato precario. Di queste prospettazioni ci siamo occupati in precedenza; per esaurire i residui argomenti ci resta solo da considerare, prima di concludere, questi due ultimi filosofemi.

Sul piano economico-sociale lo studio non è assimilabile al lavoro attivo: produttivo o improduttivo è indifferente. Lo studio è una preparazione ai ruoli compiti attività vari: dirigenziali, burocratici, tecno-scientifici, professionali, impiegatizi, manuali, ecc. Finché i giovani restano impegnati negli studi sono lontani dal lavoro salariato e non possono equipararsi a chi lavora. Ciò è molto chiaro ai due terzi di universitari, che sono costretti a lavorare per mantenersi agli studi (e che si vedono sempre più tagliati fuori dall’intensificazione dei ritmi di studio e dall’obbligo di frequenza); nonché agli specializzandi per l’insegnamento che, per altri due anni dopo la laurea, sono costretti a ripetere esami a pagamento senza certezza di raggiungere il posto. Quindi chi studia, anche se viene utilizzato gratuitamente e così soprattutto come avviene negli stages e tirocini, non acquista ancora la figura di lavoratore.

Quanto alla categoria di lavoro mentale, impiegata in modo generico cioè senza alcun riferimento alla sua collocazione nel processo di produzione e di scambio, e nella gerarchia sociale, va osservato rapidamente. In primo luogo che il lavoro mentale è la forma di attività diretta ai compiti superiori di vario tipo (tecno-produttivi, accademici, scientifici, amministrativi, ecc.) e in questa veste esso ha poco da spartire con il lavoro sottopagato e precario; in secondo luogo che, come qualunque altra forma di attività lavorativa, il lavoro mentale soggiace alle regole del lavoro salariato (disciplina e sfruttamento) quanto più esso viene impiegato ai livelli bassi. Con particolare riferimento ai ricercatori e al decreto ministeriale che ne ha avviato un terzo (25.000) alla pensione e due terzi (50.000) alla riqualificazione va poi osservato, di passaggio, che si tratta di un ridimensionamento dequalificante e subalterno della ricerca pubblica rispetto agli interessi privati, con conseguente scadimento della posizione degli addetti al settore. Quindi, mentre da un lato non si deve contrabbandare il lavoro mentale come categoria tipica di lavoro precario; dal lato opposto non si deve pensare che, restando nella società monetaria, sia possibile sfuggire alla logica della gratuitificazione del lavoro e a quella parallela della proprietà intellettuale.

  Cap.6º

Le questioni si allargano

ma le soluzioni proposte si restringono

 Passando ora a trarre le conclusioni operative dalla ripresa delle agitazioni universitarie, la prima cosa da notare è che la nuova leva studentesca, mentre ha messo sul tappeto problemi di vasta ampiezza (miseria e sfruttamento, ruolo dell’istruzione, funzione del sapere, ecc.), sul terreno pratico si è infilata in un tunnel senza sbocco, trascurando la stessa esperienza limitata del passato. Nessuna generazione viene dal nulla e deve fare in qualche modo i conti col passato. È quindi opportuno, a questo riguardo, ricordare i nuclei propositivi delle proteste studentesche degli ultimi 20 anni.

Nel 1985 il movimento dei medi chiedeva una scuola che funzioni. Nel 1989 quello della pantera, esploso nelle università, partendo dall’idea che la cultura non è merce, reclamava la gestione democratica degli atenei contro la privatizzazione. Nel 1993 gli universitari sono ritornati in agitazione per protestare contro la privatizzazione a difesa del carattere pubblico del sapere e della scuola. Noi notiamo che i movimenti e le proteste arenano nelle stesse sabbie mobili in quanto si ispirano agli schemi logori e immaginari di una scuola che funzioni e che prepari e di un sapere pubblico non mercificato e non assumono al loro posto l’obbiettivo di una scuola ed università a servizio delle masse, formative e non competitive solidaristiche e non individualistiche. Nell’ottobre 1996 riesplode la protesta studentesca e universitaria per il diritto allo studio e contro il numero chiuso. Noi sottolineamo che la nuova scuola e l’università, sempre più costose selettive presuntuose e ignoranti, sono un edificio cadente di un sistema sociale in marcimento basato sul supersfruttamento giovanile e sul divario crescente tra ricchi e poveri ed invitiamo gli studenti ad abbandonare le loro richieste illusorie e interclassiste e a proporsi il rivolgimento dell’apparato dell’istruzione. Le proteste di questo autunno ricalcano, in condizioni aggravate, le stesse questioni del passato con meno carica e più confusione. Non possono perciò avere che un esito peggiore: cioè più umiliante.

Ciò ricordato, bisogna sottolineare per seconda cosa che nessuna riforma dal basso o pratica alternativa può scalfire il dominio della finanza parassitaria sulla scuola e sull’università e che di conseguenza non può impedire la dipendenza funzionale della didattica della ricerca della scienza e del sapere da questo dominio. Pertanto solo la lotta rivoluzionaria può portare a un sapere libero, accessibile a tutte e tutti, senza condizioni e costi. Conseguentemente bisogna sviluppare questa lotta attraendo e unendo i soggetti più avanzati nel fronte rivoluzionario delle forze attive proletarie e di tutti gli studenti anticapitalisti.

- Non si può difendere il carattere "pubblico" della "formazione" senza tenere conto di chi detiene il potere.

- Il sapere universitario è una merce sempre più svalorizzata.

- Studiare è un "lavoro" che rende molto a chi lo usa e poco a chi lo fa.

- Diritto allo studio e "reddito di studentato" richieste stantie riproposte a fasi calanti dagli universitari subalterni.

- La cultura è patrimonio padronale.Il sapere sarà di tutti nella società senza classi.

- Battersi per una scuola e un’università a servizio delle masse.

----------------Edizione a cura di
RIVOLUZIONE COMUNISTA
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