[Redditolavoro] Paolo Virno: i principi del '69

clochard spartacok at alice.it
Sun Aug 29 23:54:42 CEST 2010


Se Rifondazione ripesca questo intervento di Paolo Virno del '98, possiamo ben farlo anche noi.
Qualcuno sa che cosa gli accade? Che io sappia non fa altro che insegnare a Roma3, sono anni che non scrive un libro o un articolo...

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PAOLO VIRNO: I PRINCIPI DEL '69 


 





29/08/2010 13:42 
"Non siamo piu' negli anni Sessanta" ha intimato Marchionne nel suo discorso al meeting di CL. Chissà perché l'ad della Fiat ha voluto sottolineare una cosa nota a tutti sia per ragioni di calendario che di clima sociale. Forse perche in questa epoca di restaurazione le lotte operaie degli anni '60 continuano a essere un incubo da esorcizzare per le classi dirigenti capitalistiche. Riproponiamo un articolo del filosofo Paolo Virno sull'autunno caldo. 

I principi del ’69. La forza di una tesi aborrita: il salario variabile indipendente 

di Paolo Virno 

Salario sganciato dalla produttività, salario come variabile indipendente, più soldi meno lavoro. 
Quanti sarcasmi maramaldeschi sono stati profusi su queste parole d’ordine, quanta acrimonia. Più e più volte le si è citate quali esempi evidenti di irrazionalismo e di dissennato egoismo. E si capisce: quegli slogan triviali, diffusi e ripetuti tra il ’68 e il ’69, dalla Sain Gobain alla Fiat Mirafiori, dall’ltalsider di Taranto al Petrolchimico di Marghera, hanno avuto il suono insopportabile del gesso stridente sulla lavagna per le orecchie dei programmatori del centro-sinistra, dei manager d’impresa, della stampa dabbene, ma anche dei progressisti in cerca di "giustizia sociale". 

Soldi e ancora soldi 

Soldi e ancora soldi reclamavano gli operai di fabbrica nel ’68-’69,incuranti dell’«interesse generale)),nonché del sistema di compatibilità prescritto dallo sviluppo capitalistico. Ascoltiamo di nuovo, per un momento, quei toni di voce. Da un volantino del Comitato di base della Fatme di Roma, dei marzo ’69: "...non si può parlare di un controllo sugli ’aumenti di merito’, ma di abolizione dei meriti, imponendo aumenti salariali uguali per tutti e minimi salariali garantiti dalla scala mobile sotto controllo operaio. Non si può parlare di ’giusta’ retribuzione attraverso le categorie perché non è possibile stabilire quanto una mansione valga più di un’altra. Per questo dobbiamo imporre l’unificazione delle categorie ai livelli salariali più alti". 
Da un volantino firmato ’operai dell’officina 54’ della Fiat Mirafiori, del giugno 1969: "100 lire all’ora sulla paga base, uguale per tutti: 2a categoria per tutti dopo sei mesi e senza capolavoro: 10 minuti di pausa all’ora e 30 minuti per la mensa sulle 8 ore, pagati". Da un volantino del comitato di base della Farmitalia di Milano, 
maggio ’69: "Salario minimo garantito di 100.000 lire. in questa impostazione della rivendicazione salariale, si afferma il principio che non devono esserci più lavoratori con un salario ai di sotto delle 100.000 lire, perché questo è oggi il minimo per un decente livello di vita (le stesse statistiche padronali lo ammettono!). Il nostro salario deve corrispondere alle reali esigenze di vita e non deve più essere legato alla produttività del nostro lavoro (’se lavori molto di più, ti pago qualcosa in più’)e nemmeno alle categorie. Aumento salariale sulla paga base uguale per tutti: 30.000 lire. Dunque non più aumenti in percentuali che non fanno altro che aumentare il dislivello tra categorie e tra impiegati e operai ... ". 


Contro il lavoro salariato 

In anni recenti, al rosario di maledizioni cantilenato contro questi obiettivi, si sono opposti argomenti ben timidi. Nel tentativo di salvare il salvabile di fronte all’offensiva culturale avversaria, si è rammentato il carattere irrisorio degli aumenti strappati dagli operai con il precedente contratto del 1966, si è messo l’accento 
sulla necessità (legittima solo perché "oggettiva") di un riequilibrio dei redditi dopo una lunga stagione di sviluppo economico. Insomma, quasi ci si è giustificati per quella rivendicazione di soldi, tanti e subito. 
Ma, così argomentando a passo di gambero, si è smarrito il bandolo della matassa: l’attacco politico che gli operai hanno condotto, allora, contro la natura di merce della forza lavoro. 
Le lotte nelle fabbriche non hanno preteso un salario più equo, ma hanno messo in discussione lo stesso sistema del lavoro salariato e le sue unità di misura. 
Che significa, in concreto? A prima vista il salario si presenta come prezzo del lavoro, retribuzione più o meno adeguata dell’energia fisica e nervosa dissipata in produzione. Se così fosse, la sua entità dipenderebbe irrevocabilmente dalla Produttività del lavoro. L‘aumento è giusto, se la produttività cresce; è esorbitante, se questa stagna. In realtà, si tratta di una formidabile mistificazione. Il capitalista non acquista il lavoro, ma il tempo dell’operaio, la sua capacità lavorativa..Dopodiché dispone, cronometro alla mano, di questo tempo, di questa capacità. Il salario si scambia con la forza lavoro, ma, ecco un bell’esempio di ideologia trasfusa nelle cose, lascia credere l’opposto: di costituire, cioè, la fetta della "torta" comune che spetta all’operaio, 
determinata in proporzione al suo specifico apporto. 

Reddito e produttività 

Scrive Marx: "Sulla forma fenomenica dei salario - che non fa vedere il rapporto reale mentre mostra il suo esatto contrario - si basano tutte le immaginazioni giuridiche così dell’operaio come del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni liberali" 
La richiesta di "più soldi" sganciati da "più produttività", per un verso rompe l’illusione ottica per cui il salario sarebbe il compenso dei lavoro, per l’altro mette in questione il carattere di merce della capacità lavorativa umana. Nell’unico modo possibile: inflazionandone il costo, creando una continua dismisura (che allude a una incommensurabilità). 
Altro che addurre giustificazioni, ridimensionare, diluire. 
Se appena si conserva il senso delle proporzioni, non bisogna aver timore di istituire paragoni impegnativi. L’ understatement, in questo caso, è lezioso. L‘idea di un reddito non più correlato alla produttività ha un valore simbolico analogo alla trinità de11’89: libertà, uguaglianza, fraternità. Meno elegante, forse, e senz’altro inabile a formare le rime di un inno nazionale: ma di pari importanza come tappa della civilizzazione. Non a caso, per trovare un equivalente dell’avversione e del disprezzo da cui la nuova 
richiesta salariale è stata circondata in Italia dopo la fine del ciclo di lotte che l’aveva sostenuta, è opportuno rivolgersi agli sfoghi di tanti personaggi di Balzac contro l’"avidità" e il "risentimento" dei sanculotti. 
Dopo il congresso di Vienna, libertà e uguaglianza furono sinonimi di follia ed empietà. 

L’ingordo operaio 

Negli anni ’80, il salario come "variabile indipendente" è divenuto sintomo di fanatismo e di puerilità maligna. 
Leggete cosa scrive De Maistre sull’eguaglianza, badate alla passione con cui la esecra; e poi leggete i pensierini di Scalfari o di La Malfa sull’immoralità dell’ingordigia salariale operaia. 
Per misurare la radicalità culturale e pratica di un evento, non è male basarsi sul 
furibondo rigetto che esso ha provocato. Diciamo che la pressione di massa sul salario è parsa altrettanto anomala e innaturale che l’inclinazione ad abolire la schiavitù da parte dei filosofi scettici nell’antica Grecia. 
E innaturale infatti lo era: nel senso, quanto meno, che sconvolgeva una certa idea di "natura umana". 
Bisogna aggiungere, però, che il salario come variabile indipendente investe una sfera diversa, e persino opposta, da quella dei "diritti dell’uomo e del cittadino"(meglio: dell’uomo in quanto cittadino), tipica de11’89. Il paragone serve solo a definire una scala di rilevanza, per il resto fa acqua. La lotta politica sul salario, come s’è manifestata nel ’69, segna l’insorgenza di un «diritto» del tutto eterogeneo rispetto a quelli di stampo giuridico impostisi con la Grande Rivoluzione. 
Né questo nuovo "diritto" si limita ad adempiere ciò che i precedenti proclamavano, ma che poi era rimasto lettera morta: no, è proprio tutt’altra storia, è un «diritto» che in certo modo s’afferma contro la situazione determinatasi a partire dalla piena realizzazione della libertà e dell’uguaglianza borghesi. Contro la "libertà" della forza lavoro (reale, perché davvero esente da vincoli di dipendenza personale) di vendersi sul mercato delle merci. Contro l’"uguaglianza"anch’essa reale, senza dubbio)che fa dell’acquirente e del venditore della forza lavoro due individui di pari prerogative giuridiche. Anche a sinistra, compresa quella estrema, quanti nasi si sono arricciati di fronte alla pretesa di strappare più soldi per poter mandare al diavolo i ritmi, per concedersi il lusso di rifiutare gli straordinari, per lavorare meno. "Money, money, money": è simpatica la disinibita avidità di Liza Minelli, quando pretende soldi in Cabaret; molto meno simpatica è la rivendicazione martellante degli operai di linea. 

I1 diritto a vivere bene 

Immediatismo, primitivismo, economicismo: questi e altri termini orripilanti, degni della neolingua orwelliana, hanno bollato la spinta salariale del ’68-’69. 
E la politica, dove sarebbe la politica? Forse nelle 100 lire orarie di aumento? Ma andiamo ... E la coscienza di classe, che fine fa se si riduce la lotta ai soldi? E poi, in questo modo è la società dei consumi ad averla vinta, il fantasmagorico mondo delle merci finirà con l’abbacinare i lavoratori, che in una fondamentale sobrietà, 
ispirata al ricordo ancora fresco del mondo delle campagne, troverebbero la radice della propria diversità. 
Presi dall’ideologia anticonsumistica, non sempre si vide che con la richiesta di consistenti aumenti in paga base gli operai intanto si battevano contro il consumo di sé. Né sempre si vide, allora, come nell’appetizione di beni materiali non strettamente necessari si esprimesse una sorta di radicale "diritto alla vita", carico di dignità e privo di venature pauperistiche. 

La tradizione materialistica 

Questo "diritto alla vita", reclamato dall’operaio senza qualità della fabbrica fordista, è una cosa semplice e inconfutabile quanto la libertà o l’eguaglianza o la fraternità de11’89. Meglio: è una cosa impensabile "prima", ovvia "poi". Con la differenza che il "diritto alla vita" non sorge sulla base della cultura cristiano-borghese, ma su un fondamento materialistico. Si è «uguali» davanti a Dio padre, e poi come soggetti del mercato e del diritto. Si è «liberi» perché la posizione di ciascuno è determinata soltanto dal meccanismo economico oggettivo. Si è "fraterni" perché appartenenti a una stessa nazione. Ma si ha il "diritto a un reddito" perché si è un corpo sensibile, che pretende di esperire le dolcezze del vivere in una società che 
ormai può garantire il ricambio con la natura attraverso scienza e tecniche, attraverso la combinazione razionale delle sue forze produttive. 
Se proprio non si può fare a meno di pensare che la classe operaia debba portare il peso di eredità gravose, ebbene, esigendo salario sganciato dalla produttività, essa cessò di amministrare i lasciti della filosofia classica tedesca, divenendo piuttosto l’erede legittima di tutta la tradizione materialistica. 



novembre 1998          http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=8028&catid=42&Itemid=68&utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+controlacrisi+%28ControLaCrisi.org%29
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