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<DIV>Se Rifondazione ripesca questo intervento di Paolo Virno del '98, possiamo
ben farlo anche noi.</DIV>
<DIV>Qualcuno sa che cosa gli accade? Che io sappia non fa altro che insegnare a
Roma3, sono anni che non scrive un libro o un articolo...</DIV>
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<H2 class=contentheading><A class=contentpagetitle
href="http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=8028&catid=42&Itemid=68">PAOLO
VIRNO: I PRINCIPI DEL '69</A> </H2>
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href="http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_blog_calendar&day=29&modid=91&month=8&year=2010"><FONT
color=#2f5eb1 size=2>29/08/2010</FONT></A><FONT size=2> <FONT
color=#2f5eb1>13:42</FONT></FONT> </DIV>
<DIV>"Non siamo piu' negli anni Sessanta" ha intimato Marchionne nel suo
discorso al meeting di CL. Chissà perché l'ad della Fiat ha voluto sottolineare
una cosa nota a tutti sia per ragioni di calendario che di clima sociale. Forse
perche in questa epoca di restaurazione le lotte operaie degli anni '60
continuano a essere un incubo da esorcizzare per le classi dirigenti
capitalistiche. Riproponiamo un articolo del filosofo Paolo Virno sull'autunno
caldo. <BR><BR>I principi del ’69. La forza di una tesi aborrita: il salario
variabile indipendente <BR><BR>di Paolo Virno <BR><BR>Salario sganciato dalla
produttività, salario come variabile indipendente, più soldi meno lavoro.
<BR>Quanti sarcasmi maramaldeschi sono stati profusi su queste parole d’ordine,
quanta acrimonia. Più e più volte le si è citate quali esempi evidenti di
irrazionalismo e di dissennato egoismo. E si capisce: quegli slogan triviali,
diffusi e ripetuti tra il ’68 e il ’69, dalla Sain Gobain alla Fiat Mirafiori,
dall’ltalsider di Taranto al Petrolchimico di Marghera, hanno avuto il suono
insopportabile del gesso stridente sulla lavagna per le orecchie dei
programmatori del centro-sinistra, dei manager d’impresa, della stampa dabbene,
ma anche dei progressisti in cerca di "giustizia sociale". <BR><BR>Soldi e
ancora soldi <BR><BR>Soldi e ancora soldi reclamavano gli operai di fabbrica nel
’68-’69,incuranti dell’«interesse generale)),nonché del sistema di compatibilità
prescritto dallo sviluppo capitalistico. Ascoltiamo di nuovo, per un momento,
quei toni di voce. Da un volantino del Comitato di base della Fatme di Roma, dei
marzo ’69: "...non si può parlare di un controllo sugli ’aumenti di merito’, ma
di abolizione dei meriti, imponendo aumenti salariali uguali per tutti e minimi
salariali garantiti dalla scala mobile sotto controllo operaio. Non si può
parlare di ’giusta’ retribuzione attraverso le categorie perché non è possibile
stabilire quanto una mansione valga più di un’altra. Per questo dobbiamo imporre
l’unificazione delle categorie ai livelli salariali più alti". <BR>Da un
volantino firmato ’operai dell’officina 54’ della Fiat Mirafiori, del giugno
1969: "100 lire all’ora sulla paga base, uguale per tutti: 2a categoria per
tutti dopo sei mesi e senza capolavoro: 10 minuti di pausa all’ora e 30 minuti
per la mensa sulle 8 ore, pagati". Da un volantino del comitato di base della
Farmitalia di Milano, <BR>maggio ’69: "Salario minimo garantito di 100.000 lire.
in questa impostazione della rivendicazione salariale, si afferma il principio
che non devono esserci più lavoratori con un salario ai di sotto delle 100.000
lire, perché questo è oggi il minimo per un decente livello di vita (le stesse
statistiche padronali lo ammettono!). Il nostro salario deve corrispondere alle
reali esigenze di vita e non deve più essere legato alla produttività del nostro
lavoro (’se lavori molto di più, ti pago qualcosa in più’)e nemmeno alle
categorie. Aumento salariale sulla paga base uguale per tutti: 30.000 lire.
Dunque non più aumenti in percentuali che non fanno altro che aumentare il
dislivello tra categorie e tra impiegati e operai ... ". <BR><BR><BR>Contro il
lavoro salariato <BR><BR>In anni recenti, al rosario di maledizioni cantilenato
contro questi obiettivi, si sono opposti argomenti ben timidi. Nel tentativo di
salvare il salvabile di fronte all’offensiva culturale avversaria, si è
rammentato il carattere irrisorio degli aumenti strappati dagli operai con il
precedente contratto del 1966, si è messo l’accento <BR>sulla necessità
(legittima solo perché "oggettiva") di un riequilibrio dei redditi dopo una
lunga stagione di sviluppo economico. Insomma, quasi ci si è giustificati per
quella rivendicazione di soldi, tanti e subito. <BR>Ma, così argomentando a
passo di gambero, si è smarrito il bandolo della matassa: l’attacco politico che
gli operai hanno condotto, allora, contro la natura di merce della forza lavoro.
<BR>Le lotte nelle fabbriche non hanno preteso un salario più equo, ma hanno
messo in discussione lo stesso sistema del lavoro salariato e le sue unità di
misura. <BR>Che significa, in concreto? A prima vista il salario si presenta
come prezzo del lavoro, retribuzione più o meno adeguata dell’energia fisica e
nervosa dissipata in produzione. Se così fosse, la sua entità dipenderebbe
irrevocabilmente dalla Produttività del lavoro. L‘aumento è giusto, se la
produttività cresce; è esorbitante, se questa stagna. In realtà, si tratta di
una formidabile mistificazione. Il capitalista non acquista il lavoro, ma il
tempo dell’operaio, la sua capacità lavorativa..Dopodiché dispone, cronometro
alla mano, di questo tempo, di questa capacità. Il salario si scambia con la
forza lavoro, ma, ecco un bell’esempio di ideologia trasfusa nelle cose, lascia
credere l’opposto: di costituire, cioè, la fetta della "torta" comune che spetta
all’operaio, <BR>determinata in proporzione al suo specifico apporto.
<BR><BR>Reddito e produttività <BR><BR>Scrive Marx: "Sulla forma fenomenica dei
salario - che non fa vedere il rapporto reale mentre mostra il suo esatto
contrario - si basano tutte le immaginazioni giuridiche così dell’operaio come
del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico,
tutte le sue illusioni liberali" <BR>La richiesta di "più soldi" sganciati da
"più produttività", per un verso rompe l’illusione ottica per cui il salario
sarebbe il compenso dei lavoro, per l’altro mette in questione il carattere di
merce della capacità lavorativa umana. Nell’unico modo possibile:
inflazionandone il costo, creando una continua dismisura (che allude a una
incommensurabilità). <BR>Altro che addurre giustificazioni, ridimensionare,
diluire. <BR>Se appena si conserva il senso delle proporzioni, non bisogna aver
timore di istituire paragoni impegnativi. L’ understatement, in questo caso, è
lezioso. L‘idea di un reddito non più correlato alla produttività ha un valore
simbolico analogo alla trinità de11’89: libertà, uguaglianza, fraternità. Meno
elegante, forse, e senz’altro inabile a formare le rime di un inno nazionale: ma
di pari importanza come tappa della civilizzazione. Non a caso, per trovare un
equivalente dell’avversione e del disprezzo da cui la nuova <BR>richiesta
salariale è stata circondata in Italia dopo la fine del ciclo di lotte che
l’aveva sostenuta, è opportuno rivolgersi agli sfoghi di tanti personaggi di
Balzac contro l’"avidità" e il "risentimento" dei sanculotti. <BR>Dopo il
congresso di Vienna, libertà e uguaglianza furono sinonimi di follia ed empietà.
<BR><BR>L’ingordo operaio <BR><BR>Negli anni ’80, il salario come "variabile
indipendente" è divenuto sintomo di fanatismo e di puerilità maligna.
<BR>Leggete cosa scrive De Maistre sull’eguaglianza, badate alla passione con
cui la esecra; e poi leggete i pensierini di Scalfari o di La Malfa
sull’immoralità dell’ingordigia salariale operaia. <BR>Per misurare la
radicalità culturale e pratica di un evento, non è male basarsi sul
<BR>furibondo rigetto che esso ha provocato. Diciamo che la pressione di massa
sul salario è parsa altrettanto anomala e innaturale che l’inclinazione ad
abolire la schiavitù da parte dei filosofi scettici nell’antica Grecia. <BR>E
innaturale infatti lo era: nel senso, quanto meno, che sconvolgeva una certa
idea di "natura umana". <BR>Bisogna aggiungere, però, che il salario come
variabile indipendente investe una sfera diversa, e persino opposta, da quella
dei "diritti dell’uomo e del cittadino"(meglio: dell’uomo in quanto cittadino),
tipica de11’89. Il paragone serve solo a definire una scala di rilevanza, per il
resto fa acqua. La lotta politica sul salario, come s’è manifestata nel ’69,
segna l’insorgenza di un «diritto» del tutto eterogeneo rispetto a quelli di
stampo giuridico impostisi con la Grande Rivoluzione. <BR>Né questo nuovo
"diritto" si limita ad adempiere ciò che i precedenti proclamavano, ma che poi
era rimasto lettera morta: no, è proprio tutt’altra storia, è un «diritto» che
in certo modo s’afferma contro la situazione determinatasi a partire dalla piena
realizzazione della libertà e dell’uguaglianza borghesi. Contro la "libertà"
della forza lavoro (reale, perché davvero esente da vincoli di dipendenza
personale) di vendersi sul mercato delle merci. Contro l’"uguaglianza"anch’essa
reale, senza dubbio)che fa dell’acquirente e del venditore della forza lavoro
due individui di pari prerogative giuridiche. Anche a sinistra, compresa quella
estrema, quanti nasi si sono arricciati di fronte alla pretesa di strappare più
soldi per poter mandare al diavolo i ritmi, per concedersi il lusso di rifiutare
gli straordinari, per lavorare meno. "Money, money, money": è simpatica la
disinibita avidità di Liza Minelli, quando pretende soldi in Cabaret; molto meno
simpatica è la rivendicazione martellante degli operai di linea. <BR><BR>I1
diritto a vivere bene <BR><BR>Immediatismo, primitivismo, economicismo: questi e
altri termini orripilanti, degni della neolingua orwelliana, hanno bollato la
spinta salariale del ’68-’69. <BR>E la politica, dove sarebbe la politica? Forse
nelle 100 lire orarie di aumento? Ma andiamo ... E la coscienza di classe, che
fine fa se si riduce la lotta ai soldi? E poi, in questo modo è la società dei
consumi ad averla vinta, il fantasmagorico mondo delle merci finirà con
l’abbacinare i lavoratori, che in una fondamentale sobrietà, <BR>ispirata al
ricordo ancora fresco del mondo delle campagne, troverebbero la radice della
propria diversità. <BR>Presi dall’ideologia anticonsumistica, non sempre si vide
che con la richiesta di consistenti aumenti in paga base gli operai intanto si
battevano contro il consumo di sé. Né sempre si vide, allora, come
nell’appetizione di beni materiali non strettamente necessari si esprimesse una
sorta di radicale "diritto alla vita", carico di dignità e privo di venature
pauperistiche. <BR><BR>La tradizione materialistica <BR><BR>Questo "diritto alla
vita", reclamato dall’operaio senza qualità della fabbrica fordista, è una cosa
semplice e inconfutabile quanto la libertà o l’eguaglianza o la fraternità
de11’89. Meglio: è una cosa impensabile "prima", ovvia "poi". Con la differenza
che il "diritto alla vita" non sorge sulla base della cultura
cristiano-borghese, ma su un fondamento materialistico. Si è «uguali» davanti a
Dio padre, e poi come soggetti del mercato e del diritto. Si è «liberi» perché
la posizione di ciascuno è determinata soltanto dal meccanismo economico
oggettivo. Si è "fraterni" perché appartenenti a una stessa nazione. Ma si ha il
"diritto a un reddito" perché si è un corpo sensibile, che pretende di esperire
le dolcezze del vivere in una società che <BR>ormai può garantire il ricambio
con la natura attraverso scienza e tecniche, attraverso la combinazione
razionale delle sue forze produttive. <BR>Se proprio non si può fare a meno di
pensare che la classe operaia debba portare il peso di eredità gravose, ebbene,
esigendo salario sganciato dalla produttività, essa cessò di amministrare i
lasciti della filosofia classica tedesca, divenendo piuttosto l’erede legittima
di tutta la tradizione materialistica. <BR></DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV><BR><FONT size=1>novembre
1998 </FONT><A
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