[Redditolavoro] intermezzo filosofico (estivo)
cybergodz
cybergodz at ecn.org
Fri Jul 31 18:27:55 CEST 2009
da leggere sotto l'ombrellone, con una bibita in mano e l'altra... dove
vi pare ;-)
Se poi volete leggere altre meraviglie, le trovate nel blog piu'
autistico e feticista del momento, decisamente al passo coi tempi dunque
;-) ===> http://minusha.wordpress.com
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CHE COS'E' LA DESCRESCITA
Uno sguardo disincantato su una proposta interessante
Secondo un malcostume purtroppo sempre più invalso anche nella sinistra
radicale, e non solo in quella istituzionale che di questa prassi ha
ormai fatto uno stile di vita, si usa ultimamente parlare e discettare
di questioni e problematiche che hanno una certa eco senza sapere
veramente di cosa si stia parlando.
Spesso, per esempio, è sufficiente, per questo tipo di mentalità,
sospettare che la casa editrice che pubblica certi testi non sia
"politicamente corretta", che l'autore abbia frequentazioni sospette
oppure che la scena politica nella quale si è coinvolti possa non
guardare di buon occhio la tematica per tranciare giudizi draconiani e
irreversibili, giudizi che si basano per lo più su un "sentito dire" che
viene ancora prima di una lettura superficiale e piena di pregiudizi -
che comunque e' il passo immediatamente successivo - per poi chiudere
tagliando gordianamente la questione, senza mai veramente preoccuparsi
di entrare nel merito e provare a conoscere proficuamente l'"oggetto"
della contesa.
È il caso della decrescita.
Quello che vorrei provare a fare qui è il percorso inverso, cercare cioè
di capire cosa essa ci può dire, in che modo può aiutare un discorso di
sinistra a riprendere fiato e quali direzioni di lavoro e di
elaborazione, sia teorica che pratica, può stimolare. Il testo di
Latouche uscito in italia nel febbraio 2008, dal titolo "breve trattato
sulla decrescita serena" (ed. bollati boringhieri), è sicuramente
appropriato per un simile scopo.
Latouche, come molti sanno, è considerato a buon titolo il "padre
putativo" della decrescita. Benché talvolta si possa tacciare il suo
pensiero di ingenuità e forse utopismo, si deve riconoscere che
l'impianto teorico su cui basa le sue riflessioni è quantomeno degno di
nota ed attenzione.
Cerchiamo di capire dunque, proprio grazie a questo testo, di cosa
stiamo parlando.
Per sbarrare il passo ad uno dei classici errori dovuti ad una
interpretazione affrettata, è bene sin da subito chiarire che la
decrescita non è il vaso di pandora, tanto meno un manuale di facile ed
immediata applicazione, né un ricettario per la liberazione e la
felicità collettiva. La decrescita è, dice Latouche, innanzitutto uno
"slogan", una "parola bomba", il cui scopo è incrinare un orizzonte
ritenuto a-problematico sia da destra che da sinistra: "la parola
d'ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con
forza la necessità dell'abbandono della crescita illimitata, obiettivo
il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei
detentori del capitale" (p.17). L'obiettivo polemico dunque è la
crescita capitalistica. Ma, subentra qui il primo dei punti critici: ci
può essere una crescita non capitalistica? Ovvero, dire "crescita
capitalistica" è una tautologia, oppure può darsi una crescita per
esempio "socialista", magari anche un po' ecologista?
In realtà no, la crescita, secondo la prospettiva latouchiana e comunque
decrescente, è sempre e solo capitalistica, così come lo "sviluppo". Si
ha "crescita", cioè accumulo di prodotti e di valore, solo per
soddisfare le folli esigenze del capitalismo, cioè della riduzione
dell'esistente a merce e della sua messa a valore ai fini
dell'accumulazione entro una coazione a ripetere che deve (dovrebbe)
perpetuarsi all'infinito in una spirale poco virtuosa di accrescimento
permanente. Fuori dall'ambito capitalistico, avrebbe senso mantenere
tutto questo? Avrebbe senso cioè mantenere una produzione sfrenata di
oggetti spesso per lo più inutili, con le conseguenze ambientali e
sociali che ciò provoca? Oppure si potrebbe pensare ad una produzione
più razionale che abbia di mira il soddisfacimento di bisogni non
indotti e comunque la realizzazione della felicità delle persone più che
non la valorizzazione monetaria della merce? Avrebbe ancora senso
produrre milioni di elettrodomestici al giorno, o di automobili, o che
altro, in numero ben superiore al necessario, con il solo scopo -- e la
necessità -- di venderli per ricavarne profitto monetario?
Ovviamente no. La decrescita, quando critica la crescita e lo sviluppo,
lo fa tenendo d'occhio la follia e l'inutilità di un sistema produttivo
che causa per lo più dolore e distruzione, e ammiccando invece ad un
sistema di produzione più ragionevole e rispettoso sia dell'ambiente che
delle persone.
Questo in soldoni il senso ultimo della proposta decrescente, che è
importante tener fermo per entrare correttamente nel suo spirito.
Uno degli equivoci più ricorrenti ritiene che parlare di decrescita oggi
significhi condannare irreversibilmente i popoli del terzo mondo, o
comunque quelli che noi occidentali sfruttiamo impietosamente per
garantire il nostro meraviglioso standard di vita, ad una miseria
definitiva e senza ritorno. Ovvero, che impedire una crescita economica
a questi popoli sia condannarli in eterno all'ade dell'indigenza. Ma la
decrescita si guarda bene dal predicare tutto ciò. La decrescita
promuove invece un allontanamento, innanzitutto culturale prima che
economico, dall'orizzonte della crescita, un distacco solo grazie al
quale si apre l'effettiva possibilità anche per quei popoli oggi
soggetti alla dominazione dell'occidente di inaugurare una loro strada
di benessere e ricchezza. Un occidente non più capitalistico, che non ha
più lo scopo primario della crescita economica costi quel che costi e
soprattutto a spese dei paesi cosiddetti "terzi", lascerebbe molti più
margini e spiragli per il resto del mondo, con il quale magari aprire
una collaborazione reale e duratura per fini diversi da quelli
dell'accumulo e della ricerca del profitto.
Determinante è insomma l'uscita dall'orizzonte, soprattutto culturale,
della crescita economica. Una "decrescita", infatti, entro una società
della crescita, sarebbe solo un immane disastro (come sta peraltro di
fatto avvenendo oggi con la crisi capitalistica in corso). "Come non c'è
niente di peggio di una società del lavoro senza lavoro, non c'è niente
di peggio di una società della crescita in cui la crescita si rende
latitante ... Per tutte queste ragioni, la decrescita è concepibile
soltanto all'interno di una 'società della decrescita', ovverosia nel
quadro di un sistema basato su una logica diversa" (p.18).
In questo senso, la decrescita non solo non è assimilabile ad alcun
"sviluppo sostenibile" o cose del genere, ma se ne distacca
radicalmente. Lo "sviluppo" economico non può essere sostenibile né
durevole né altro. Lo "sviluppo", concetto molto ambiguo sostenuto a sua
volta da concetti ancora più ambigui quali "progresso" o "modernità",
non è che l'altra faccia della crescita economica. Nessun popolo ha mai
richiesto di "svilupparsi" (verso dove, poi, e perché?) così come non ha
mai chiesto di "crescere": ha solo subito l'imposizione di queste parole
d'ordine dall'occidente. Un'economia che trova un suo equilibrio, che
riesce a sfamare e a soddisfare un popolo, non ha alcuna necessità di
"sviluppo". La necessità subentra solo quando viene imposta come un
Diktat da una forza e una cultura esterne. Al di là del giudizio che si
possa dare su di esse, molte civiltà "avanzate", per usare un termine
decisamente improprio, sono durate millenni senza muoversi di un passo,
e non per questo hanno sofferto particolarmente né si sono estinte per
questa ragione. Molte di queste civiltà avevano i mezzi tecnici per dar
vita ad una rivoluzione industriale ben prima di quella inglese: per
esempio la civiltà greca o quella egizia, ma anche quelle che abitavano
il continente americano prima dell'indesiderato e quanto mai nefasto
arrivo dell'uomo moderno europeo. E tuttavia, queste civiltà si sono ben
guardate dall'inaugurare un sistema folle e autodistruttivo come il
nostro. Perché? Perché erano "inferiori" o "primitive"? Oppure? Qui non
si tratta di fare un'apologia di quelle civiltà, che avevano comunque
molti punti oscuri e aspetti quanto meno problematici, tuttavia una
volta o l'altra dovranno pur essere prese sul serio certe questioni ed
affrontate senza le insostenibili semplificazioni dettate dalla
posteriore ideologia del progresso, che con la sua supponenza ha sino ad
oggi impedito uno sguardo più chiaro e sereno sul rapporto con il passato.
Per tornare al nostro tema, ci basta qui cercare di chiarire per quanto
possibile il contributo che può dare la decrescita ad un progetto di
liberazione dal capitalismo. Una critica serrata allo "sviluppo", sia
esso sostenibile o meno, così come alle inquietanti ideologie che lo
accompagnano, si rivela, in questo senso, determinante, e la decrescita
fa di ciò un punto di forza: "parlare di un 'altro' sviluppo, come pure
di un''altra' crescita, sta ad indicare o una grande ingenuità o una
grande ipocrisia" (pp.21-22). Il primo passo, invece, deve essere una
"decolonizzazione dell'immaginario": specificamente, questo significa
uscita dall'orizzonte della fede nell'accumulazione illimitata. Un
percorso non privo di problemi specie se, con Marx, riconosciamo che il
capitalismo come sistema è essenzialmente un "soggetto automatico", che
trascina con sé i destini del mondo più che non essere esso stesso
frutto di decisioni e scelte consapevoli. Però, è anche vero che non è
possibile una trasformazione e una liberazione senza un cambio di rotta
che non può che avvenire in modo consapevole e cosciente, e per questa
ragione una "decolonizzazione dell'immaginario" assume un'importanza
decisiva, specie nell'orizzonte di crisi capitalistica nel quale ci
stiamo trovando ed entro il quale, con ogni probabilità, resteremo a lungo.
Si tratta, in altre parole, di promuovere un "cambiamento di paradigma",
che forse proprio la crisi può aiutarci ad affermare. Il rischio, ben
presente, è che -- mancando una esplicita messa in discussione del
"soggetto automatico" - la rivolta decrescente si limiti ad una riforma
interna al soggetto stesso, per il quale allora rappresenterebbe un
aiuto insperato. Ma, a parte che lo stesso pensiero della decrescita
contiene in sé gli anticorpi, se ben interpretato, per contrastare
questa deriva (Latouche stesso insiste spesso, come abbiamo visto, sul
fatto che la decrescita non è possibile in una società che resta ferma
entro l'orizzonte della crescita), sta comunque a noi saper dirigere la
critica e la conflittualità nella direzione giusta, e non è pensabile
altrimenti, a meno che non si voglia insistere nel comodo e patetico
gioco della delega e della "rappresentanza", e si rinunci ancora una
volta a prendere la nostra vita nelle nostre mani, passaggio questo
forse molto più faticoso e duro - almeno all'inizio - ma di fatto
ineludibile.
"Dunque il cambiamento di rotta oggi necessario non è del tipo
realizzabile semplicemente con delle elezioni, mandando al potere un
nuovo governo o votando per una nuova maggioranza. Ci vuole qualcosa di
ben più radicale: né più né meno che una rivoluzione culturale, che
porti ad una rifondazione della politica". (pp.42-43)
Ma, in concreto, come dovrebbe attuarsi questa rivoluzione culturale?
Dovrebbe assomigliare a quella della Cina di Mao? Oppure?
Niente di tutto questo. Prima di pensare ad una rivoluzione
"strutturale", si tratta di lavorare su un piano diverso, diciamo "più
umano": "l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la collaborazione
sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l'ethos del
gioco sull'ossessione del lavoro, l'importanza della vita sociale sul
consumo illimitato, il locale sul globale, l'autonomia sull'eteronomia,
il gusto della bella opera sull'efficienza produttivistica, il
ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale, ecc.". (p.45)
Tutte cose queste, in realtà, già proprie delle culture popolari e ben
diffuse fra la gente comune, ma negate e ostacolate dal quel "soggetto
automatico" di cui abbiamo parlato poc'anzi. Tuttavia, forse proprio la
crisi in corso può aiutare ad uscire da questo dominio alienante, e a
ritrovare i "valori" (per usare una parola tipica proprio di questo
soggetto e che credo dovremmo disimparare ad usare) che Latouche
auspica, che possono anche diventare non solo una scelta ma proprio una
necessità in un momento come questo.
Si tratta di operare dunque un passaggio non facile, anzi decisamente
difficile, ma indispensabile. Un passaggio che implica anche la ricerca
di un rapporto diverso con l'ambiente, e quindi anche una critica alla
scienza matematico-sperimentale della natura, in vista di un suo
depotenziamento e di una messa in discussione della sue pretese
assolutistiche e universalistiche - il che non deve necessariamente
significare consegnarci ad un mondo di superstizioni (che sono poi di
fatto l'altra faccia dell'assolutismo scientista).
"Soprattutto, è necessario passare dalla fede nel dominio sulla natura
alla ricerca di un inserimento armonioso nel mondo naturale. Sostituire
l'atteggiamento del predatore con quello del giardiniere". (p.46). Per
realizzare una simile impresa, è necessario uscire dalla dimensione del
tutto moderna che va dalle pretese galileiane per le quali ciò che non è
misurabile né calcolabile, non è reale - quindi, secondo questo
linguaggio, non esiste e non ha efficacia, non ha statuto di "verità" -
alla sentenza hegeliana per la quale "tutto ciò che e' razionale, è
reale; tutto ciò che è reale, è razionale" - ovvero, solo tutto ciò che
corrisponde ai criteri della ratio è reale, e viceversa. Un passo
necessario per uscire al tempo stesso dall'orizzonte capitalistico. Il
risultato non deve, è il caso di ripeterlo, per forza essere una caduta
in un nuovo oscurantismo medievale (sempre poi che questo medioevo sia
stato così "buio"). Si tratta piuttosto di ridimensionare l'ipertrofica
presenza della verità scientifica, l'unica oggi come oggi deputata a
giudicare sulle veridicità o meno dell'esistente e quindi ad avere
efficacia e riconoscimento. Per fare un esempio, della luna si può dire
che è il satellite della terra, ma anche quella cosa in cielo dove il
bambino della poesia di Hebel "der Sommerabend" (la sera d'estate) vede
passeggiare un omino in giacchetta o quella che ispira la poesia "alla
luna" di Leopardi. Solo che un'asserzione "poetica" non ha valore di
verità effettuale, al massimo è vista come un lazzo estetico, una
"licenza" concessa al discorso che comunque poggia la sua verità unica,
ultima e definitiva nell'imperiosa asserzione scientifica. Si tratta
invece di far valere anche le istanze espresse proprio da un discorso
come quello poetico, che decisamente non poggia su solide basi
"scientifiche" ma non per questo non ha una sua ragione d'essere e
addirittura una sua necessità per l'umano, necessità che ha bisogno di
tornare ad essere riconosciuta e apprezzata come verità effettuale per
la quotidianità e la vita delle persone. Lo stesso si potrebbe dire per
le culture popolari, trattate in genere come espressione di relazioni
primitive e ingenue tra uomini e terra, e i mestieri artigianali,
altrettanto deprecati come inefficaci ed insufficienti rispetto alle
esigenze di una civiltà che si basa su una cultura industriale capace di
punte di produttività impensabili nell'antichità. Un tale
ridimensionamento non significa però, diciamolo ancora una volta,
rinuncia tout court alla scienza e al suo metodo, ma appunto
"ridimensionamento", ovvero riduzione delle sue pretese assolutistiche e
"confinamento" entro l'ambito che le è proprio -- così anche in realtà
inverandola e rendendola più "misurata", più a forma umana e legata ad
altre istanze meno oggettivanti. Una ricerca della "misura", dunque, a
fronte della "hybris" dei moderni, ovvero quella "dismisura" propria
della folle prometeica ambizione e delirante volontà di potenza
dell'uomo moderno, tanto temute e aborrite dagli antichi e in generale
da tutte le culture legate alla terra; ambizione e volontà che, unite ad
un frenetico quanto insensato affaccendarsi e ad una oscena cupidigia,
hanno partorito un autentico mostro - o forse più semplicemente il
pidocchio di nietzschiana memoria. Dice Latouche, con termini forse un
po' troppo tecnici: "la hybris, la dismisura del signore e padrone della
natura, ha preso il posto dell'antica saggezza dell'inserimento in un
ambiente sfruttato in modo ragionevole". (p.31-32) Uno "sfruttamento
ragionevole", per usare le parole latouchiane, che presuppone
l'allontanamento dal paradigma economicista e produttivista
dell'insaziabile assetto capitalistico del mondo, il quale piaccia o no
si appoggia su uno scientismo che non a caso nasce insieme ad esso. Un
economicismo che rende il mondo artificialmente "scarso" e quindi più
facilmente manipolabile ai fini della mercificazione e dell'accumulo:
"Come hanno perfettamente indicato Ivan Illich e Jean-Pierre Dupuy,
l'economia trasforma l'abbondanza naturale in rarità con la creazione
artificiale della mancanza e del bisogno attraverso l'appropriazione
della natura e la sua mercificazione". (p.47)
Un'autentica rivoluzione, dunque, anche se di una forgia forse ancora
mai vista, una rivoluzione che poggia anche sulla fiducia nelle capacità
dell'essere umano, una volta liberato dalla morsa del "soggetto
automatico", di riappropriarsi del proprio destino, ed anche in modo
creativo. Una sfida, che ci lancia l'epoca stessa in cui viviamo, e che
dobbiamo cercare di raccogliere e portare a compimento. "Per affrontare
questa sfida, è lecito scommettere sulla grande ricchezza
dell'invenzione sociale, una volta che la creatività e l'ingegnosità si
siano liberate dalla cappa economicista e 'produttivista'". (p.78)
Anche il lavoro, in questo contesto, assume un'altra posizione. Una
volta che non è più determinato dalle esigenze di accumulo e di
sfruttamento proprie del capitalismo, il lavoro cambia diciamo così
"statuto" e non divora più l'esistenza delle persone come accade oggi,
lo si abbia o meno. Acquista invece un ruolo diverso, quello che di
fatto più gli compete, e cioè di attività, non frenetica né totalitaria,
che ha come fine la produzione di beni che siano utili all'umano e ne
promuovano il benessere, ora valutato in termini di relazioni sociali e
libertà invece che possesso e alienazione, e la felicità. La produzione
sfrenata e senza senso di merci che nessuno di fatto ha mai chiesto e
che per essere vendute necessitano di incessanti campagne pubblicitarie
che ne inducano il bisogno, la devastazione di ambienti naturali e
culture, l'assalto omicida a paesi e a popolazioni la cui unica colpa è
quella di detenere risorse indispensabili al mantenimento della follia
capitalistica, tutto questo viene a cadere in favore di una produzione
sensata e con finalità completamente diverse. "La decrescita implica ...
al tempo stesso una riduzione quantitativa e una trasformazione
qualitativa del lavoro". (p.100) Tuttavia, anche questo passaggio è ben
più complesso di quanto si possa immaginare. Non si tratta
"semplicemente" di sovvertire l'ordine economico in vigore, di ridare il
maltolto agli espropriati e mettere in piedi una più equa distribuzione
dei beni. Sicuramente tutto questo, ma occorre anche altro. Occorre
anche ritrovare il senso della vita, e la capacità di goderne. "Senza
recuperare 'l'incanto della vita', la decrescita sarebbe votata al
fallimento. È necessario ridare un senso al tempo liberato ... La
fuoriuscita dal sistema produttivista e lavorista attuale presuppone
un'organizzazione sociale completamente differente, nella quale il tempo
libero e il gioco vengono valorizzati accanto al lavoro, e le relazioni
sociali prevalgono sulla produzione e il consumo di prodotti deperibili,
inutili o addirittura nocivi... Per riprendere Hannah Arendt, non
soltanto le due componenti rimosse della vita activa, l'opera
dell'artigiano o dell'artista e l'azione propriamente politica,
ritroverebbero il diritto di cittadinanza accanto al lavoro, ma la vita
contemplativa stessa sarebbe riabilitata". (p.103)
Dunque, alla luce di questo breve excursus la decrescita non sembra
dunque essere quella ideologia retriva e tendenzialmente destrorsa che
viene dipinta. Il rischio di una deriva indubbiamente c'è, soprattutto
per quanto riguarda la possibilità che, annacquata e usata con astuzia,
possa rappresentare una via d'uscita per il capitalismo di fronte alla
crisi forse più forte che abbia mai dovuto affrontare. Per il
capitalista, infatti, non potrebbe esserci scappatoia migliore del
riuscire a convincere le popolazioni che una vita "sobria" e morigerata,
guidata da criteri virtuosi di risparmio e povertà, sia la soluzione
migliore in questi tempi oscuri, così riuscendo una volta di più a farla
franca, e magari continuare a devastare mondi e popoli senza che
emergano chiaramente e collettivamente le sue responsabilità. Sta però a
noi evitare un simile epilogo, e la decrescita per come la descrive
Latouche ce ne dà sicuramente i mezzi. "La nostra concezione della
decrescita non né un impossibile ritorno all'indietro né un compromesso
con il capitalismo. È un 'superamento' ... della modernità. ... La
decrescita va necessariamente contro il capitalismo". (p.109) Non si può
infatti neanche concepire la "rivoluzione" della decrescita come
risultato di politiche di riforma del sistema, lasciandolo però intatto
nei suoi fondamenti. I passaggi che richiede la decrescita sono di fatto
incompatibili con le esigenze di produzione e di accumulo del
capitalismo. "Il programma di una politica nazionale di decrescita si
presenta dunque come un paradosso. La realizzazione di proposte
realistiche e ragionevoli ha poche speranze di potersi concretizzare, e
ancor meno di avere successo, senza un sovvertimento totale
dell'esistente. E a sua volta questo sovvertimento presuppone il
cambiamento dell'immaginario che soltanto la prospettiva della
realizzazione dell'utopia feconda di una società autonoma e conviviale
può generare". (pp.92-93) Un sovvertimento dell'immaginario che, abbiamo
visto, richiede una messa in mora della modernità e dei suoi ideali di
progresso e completa messa a disposizione del mondo e dei suoi abitanti.
Ma, tranquilli, non si tratta di un rifiuto tout court che apre ad un
mondo di superstizioni e di paure, quanto un "inveramento" degli ideali
stessi della modernità. "D'altra parte, la critica della modernità non
implica il suo rifiuto puro e semplice, ma piuttosto il suo superamento.
È esattamente in nome del progetto di emancipazione dei Lumi e della
costruzione di una società autonoma che noi possiamo denunciare il
fallimento della modernità, di fronte all'eteronomia oggi imperante
della dittatura dei mercati finanziari". (p.122)
Con una paradossale realizzazione di quegli ideali che la decrescita, di
fatto, dice di combattere, Latouche ci consegna un pensiero che ritengo
meriti considerazione e rispetto. I tempi veramente bui che stiamo
attraversando richiedono una spiegazione e una via d'uscita che abbiano
un respiro diverso e sappiano indicare verso possibilità forse molto
utopiche e remote, tuttavia seducenti e coinvolgenti. Se troveranno mai
realizzazione, non sta a noi dirlo. Una cosa è certa: non sarà un
semplice supplicare i nostri governanti o imprenditori o chi per loro a
realizzarle: non si è mai visto infatti che la causa del problema sia
anche il suo rimedio. Coloro che hanno contribuito in maniera decisiva a
portarci sull'orlo dell'abisso, non possono essere i nostri referenti,
se non polemici, né coloro a cui rivolgerci nella speranza che ci
conducano fuori dalla misera che loro stessi hanno in gran parte
determinato. A noi piuttosto spetta il compito - diciamo anche questo
ancora una volta, perché mai come oggi ripetere fa bene - di provarci in
prima persona, di inaugurare un nuovo autonomo percorso di liberazione
dal capitalismo che porti, si spera, definitivamente fuori da questo
sistema criminale e folle, e apra verso una nuova era, quella in cui
l'uomo, per riprendere una famosa metafora di Marx, si alzi in piedi e
cominci finalmente a camminare con le sue gambe. Si tratta in un certo
qual modo di fare una scommessa, anch'essa forse paradossale come quella
di Pascal, ma quanto mai necessaria. In fondo, oggi più che mai quello
che ancora abbiamo da perdere sono le nostre catene, e un mondo, invece,
da guadagnare. :-)
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