[Redditolavoro] La tassa sull'aspettativa di vita

Rapt rapt at inventati.org
Mon Dec 14 16:49:40 CET 2009


La Repubblica: ecco la "tassa" sulla speranza di vita

Giovedì, 12 Novembre, 2009

La Repubblica pubblica oggi un articolo dedicato alla *_nuova "tassa" 
sulla speranza di vita 
<http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/economia/pensioni/tassa-vita/tassa-vita.html#commenta>_* 
che ridurrà la pensione dei giovani. A causa infatti della "revisione 
dei coefficienti di trasformazione", già a partire da gennaio scatterà 
la riduzione degli assegni pensionistici futuri, dovuti al fatto che... 
si vive più a lungo.

"Il fatto che gli italiani vivano più a lungo rispetto a quindici anni 
fa nasconde una contropartita che in pochi conoscono: la pensione sarà 
più bassa -- si legge sul quotidiano --. Con buona pace di chi annuncia 
che il sistema previdenziale non sarà toccato. Tutto nasce da un 
semplice problema: vivere di più significa, a parità di condizioni, 
ricevere la pensione per un numero maggiore di anni, con un costo che lo 
Stato ritiene fin d'ora insostenibile. La soluzione trovata è 
aritmeticamente ineccepibile: l'assegno mensile non potrà più essere 
quello di prima, ma necessariamente più leggero".

"Lo Stato -- prosegue l'articolo a firma di Marco Ruffolo --, invece di 
pagare poniamo 1.000 euro al mese per 19 anni (era la speranza di vita 
dei maschi ultrasessantenni una quindicina di anni fa), darà 905 euro al 
mese per 21 anni (speranza di vita attuale). E non è finita qui, perché 
ogni ulteriore aumento della vita media in futuro farà scattare di tre 
anni in tre anni un taglio della pensione. Insomma, campare di più non è 
un regalo ma ha un prezzo da pagare alla collettività".

"Ma lasciamo parlare i dati, cominciando dalla situazione del lavoratore 
dipendente cinquantenne (diciamo 52), assunto nel 1985. Immaginiamo che 
voglia andare in pensione nel 2020 all'età minima consentita: 62 anni e 
35 di contributi. Se non fosse introdotta la nuova "tassa sulla speranza 
di vita", prenderebbe il 62 per cento dello stipendio. Con la 
penalizzazione avrà invece il 58,5%. Per continuare a prendere il 62%, 
dovrà aspettare tre anni, fino al sessantacinquesimo anno di età. Se 
invece il lavoratore aveva deciso in ogni caso di andare in pensione a 
65 anni, perderà quattro punti percentuali del proprio stipendio: circa 
80 euro al mese su uno stipendio di 2.000 euro".

"Prendiamo ora un giovane ventisettenne -- spiega il giornale -- che 
dopo un lungo precariato sta finalmente per essere assunto all'inizio 
del prossimo anno. Nel 2045 avrà 62 anni e 35 anni di contributi (di più 
non è riuscito ad accumularne). Lasciando il lavoro a quell'età, se non 
venisse introdotta la nuova 'tassa sulla speranza di vita', avrebbe un 
assegno pari al 60 per cento del proprio stipendio. Con la tassa, 
otterrà solo poco più del 52%. Se invece decidesse di rinviare il 
pensionamento fino al sessantacinquesimo compleanno, otterrebbe il 57 
per cento, ossia recupererebbe qualcosa ma perderebbe comunque tre punti 
percentuali del proprio stipendio. Una stangata anche maggiore subirebbe 
chi avesse fin dall'inizio progettato di andare in pensione a 65 anni: 
perdita secca di nove punti, che per uno stipendio di 2.000 euro 
equivale a quasi 200 euro al mese in meno".



-- 


Ultimo aggiornamento: Giovedì, 12 Novembre, 2009 - 15:50

ECONOMIA


      Da gennaio scatta la riduzione degli assegni futuri dovuta alla
      circostanza
      che si vive più a lungo. Tagli da 150 euro solo in parte evitabili
      lavorando più anni


  La "tassa" sulla speranza di vita
  che ridurrà la pensione dei giovani


    di MARCO RUFFOLO

 


*ROMA -* Si potrebbe chiamare "tassa sulla speranza di vita". Il fatto 
che gli italiani vivano più a lungo rispetto a quindici anni fa nasconde 
una contropartita che in pochi conoscono: la pensione sarà più bassa. 
Con buona pace di chi annuncia che il sistema previdenziale non sarà 
toccato. Tutto nasce da un semplice problema: vivere di più significa, a 
parità di condizioni, ricevere la pensione per un numero maggiore di 
anni, con un costo che lo Stato ritiene fin d'ora insostenibile. La 
soluzione trovata è aritmeticamente ineccepibile: l'assegno mensile non 
potrà più essere quello di prima, ma necessariamente più leggero.

Lo Stato, invece di pagare poniamo 1.000 euro al mese per 19 anni (era 
la speranza di vita dei maschi ultrasessantenni una quindicina di anni 
fa), darà 905 euro al mese per 21 anni (speranza di vita attuale). E non 
è finita qui, perché ogni ulteriore aumento della vita media in futuro 
farà scattare di tre anni in tre anni un taglio della pensione. Insomma, 
campare di più non è un regalo ma ha un prezzo da pagare alla 
collettività. Non stiamo ovviamente parlando di quanti vanno in pensione 
adesso o ci stanno per andare: per loro l'assegno più o meno resta 
quello previsto. Stiamo parlando di tutti gli altri: i cinquantenni cui 
manca ancora una decina di anni, e soprattutto i giovani appena assunti 
o destinati ad esserlo. Che si porranno subito una domanda: scegliendo 
di andare in pensione più tardi, si eviterà la decurtazione 
dell'assegno? Per i cinquantenni la risposta è "sì", almeno in parte. 
Per i giovani "no".


Tutto questo non è un progetto, è già deciso e scatterà dal primo 
gennaio 2010. Lo ha disposto la riforma Dini del '95, lo ha tradotto in 
cifre una legge del 2007, lo ha confermato l'attuale governo. Dunque, 
decisione assolutamente bipartisan. Il fatto che non se ne parli tanto è 
almeno in parte dovuto all'astruso titolo di questa norma, 
incomprensibile per i non addetti ai lavori: "Revisione dei coefficienti 
di trasformazione". Si tratta di quei numeretti che moltiplicati per la 
totalità dei contributi versati danno come risultato la pensione dovuta 
a ciascun lavoratore. Ogni tre anni questi numeri andranno rivisti al 
ribasso man mano che crescerà la speranza di vita. Primo taglio a 
gennaio, dopo un lungo rimpallo tra i governi succedutisi dopo Dini.

Ma lasciamo parlare i dati, cominciando dalla situazione del lavoratore 
dipendente cinquantenne (diciamo 52), assunto nel 1985. Immaginiamo che 
voglia andare in pensione nel 2020 all'età minima consentita: 62 anni e 
35 di contributi. Se non fosse introdotta la nuova "tassa sulla speranza 
di vita", prenderebbe il 62 per cento dello stipendio. Con la 
penalizzazione avrà invece il 58,5%. Per continuare a prendere il 62%, 
dovrà aspettare tre anni, fino al sessantacinquesimo anno di età. Se 
invece il lavoratore aveva deciso in ogni caso di andare in pensione a 
65 anni, perderà quattro punti percentuali del proprio stipendio: circa 
80 euro al mese su uno stipendio di 2.000 euro.

Prendiamo ora un giovane ventisettenne che dopo un lungo precariato sta 
finalmente per essere assunto all'inizio del prossimo anno. Nel 2045 
avrà 62 anni e 35 anni di contributi (di più non è riuscito ad 
accumularne). Lasciando il lavoro a quell'età, se non venisse introdotta 
la nuova "tassa sulla speranza di vita", avrebbe un assegno pari al 60 
per cento del proprio stipendio. Con la tassa, otterrà solo poco più del 
52%. Se invece decidesse di rinviare il pensionamento fino al 
sessantacinquesimo compleanno, otterrebbe il 57 per cento, ossia 
recupererebbe qualcosa ma perderebbe comunque tre punti percentuali del 
proprio stipendio. Una stangata anche maggiore subirebbe chi avesse fin 
dall'inizio progettato di andare in pensione a 65 anni: perdita secca di 
nove punti, che per uno stipendio di 2.000 euro equivale a quasi 200 
euro al mese in meno.

Tutto chiaro. Ma resta un dubbio, anzi due. Finora ci hanno ripetuto 
fino alla nausea che per salvare il sistema previdenziale è necessario 
innalzare l'età pensionistica, anche più di quanto già previsto. E ora 
scopriamo che per tutti i giovani lavoratori e i futuri assunti, 
rinviare l'addio al lavoro non servirà affatto a evitare un taglio 
dell'assegno. Ci si aspetterebbe che il sacrificio richiesto andasse in 
una sola direzione, e invece non solo si dovrà andare in pensione più 
tardi, ma si riceveranno meno soldi.

Un doppio onere che per molti critici del nuovo sistema non sembra avere 
alcuna logica. Secondo dubbio: il taglio dei coefficienti si applica a 
tutta la massa dei contributi versati nel corso della propria vita 
lavorativa e non - come sarebbe più giusto per evitare la retroattività 
- solo a quelli successivi all'introduzione del nuovo sacrificio.

Alla fine, tirate le somme, il baratro che divide giovani e meno giovani 
non fa che allargarsi ulteriormente, con i primi costretti a pagare, 
oltre alle conseguenze della propria precarietà lavorativa, anche quelle 
della crescente speranza di vita. Su cui sta per abbattersi, silenziosa 
e implacabile, la nuova tassa occulta.

http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/economia/pensioni/tassa-vita/tassa-vita.html#commenta 


      -(Rapt)-
www.inventati.org/rapt

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