[Redditolavoro] Fw: [RK] Produttore di beni, consumatore di stupefacenti, la condizione del lavoratore nell'era post-industriale

clochard spartacok at alice.it
Sat Mar 15 23:11:03 CET 2008


Pezzo indubbiamente stimolante. Certo, che valutazione ingenua del 
sindacato!!!    :-((

e


----- Original Message ----- 
From: "Roberto Vignoli" <rvignoli at gmail.com>
To: <rekombinant at liste.rekombinant.org>
Sent: Friday, March 07, 2008 12:33 AM
Subject: [RK] Produttore di beni, consumatore di stupefacenti, la condizione 
del lavoratore nell'era post-industriale


Intervista a Francesca Coin, Sociologa e ricercatrice nell’Universita'
Ca’ Foscari di Venezia e presso la Georgia State University di Atlanta (USA)

Il consumo di sostanze stupefacenti ha precisamente un triplice scopo:
stimolare la produzione, manipolare l’essere umano per renderlo piu'
simile alla macchina e farlo diventare il piu' possibile docile

5 mar.- Con l’entrata della digitalizzazione nella produzione di beni,
negli ultimi decenni il mondo capitalista ha subito una trasformazione
nella produzione con alti profitti senza precedenti nella storia. Allo
stesso tempo, si è verificato un aumento del consumo di sostanze
psicotrope e di alcol da parte dei lavoratori che producono questi beni,
realizzando con il proprio malessere gli alti profitti del capitale.

Francesca Coin, nel suo recente saggio “Il Produttore Consumato. Saggio
sul malessere dei lavoratori contemporanei” (Ed. Il Poligrafo, Padova,
2006. €23,00) delinea questa trasformazione partendo dalla constatazione
che, secondo la sociologia “ufficiale” «Nell’era post-industriale i
lavoratori non sono più il perno della vita sociale. Essi non sono più
al centro né delle fabbriche né delle piazze. Il loro ruolo economico e
politico è oramai marginale, e parimenti poco importanti sono diventate
le loro storie di vita. Ma, a clamorosa smentita di una tale presunta
marginalità, all’alba del terzo millennio i lavoratori sono il bersaglio
primo delle riforme economiche e politiche del libero mercato, che
avanza precisamente sulle schiene della classe lavoratrice mondiale».

*Nella sua ricerca lei si sofferma in modo particolare sul crescente
ricorso di droghe che fanno i lavoratori, un uso in risposta alle
difficoltà e alle loro sofferenze che il mondo del lavoro infligge.
Diversi studiosi hanno già trattato questo argomento. Dov’è la novità
della sua ricerca?*

Fino ad oggi è stato trattato questo problema prevalentemente in chiave
psicologica, osservando il malessere dei lavoratori come un male
individuale. La novità di questo saggio è l’approccio collettivo con cui
ho affrontato questo malessere. Un malessere inserito dentro il mondo
stesso della produzione capitalista.

*Lei sostiene che questa produzione di beni è connessa, in modo
inestricabile, con la produzione di malessere di chi produce questi
beni. Da dove parte per sostenere queste affermazioni?*

Nel mondo capitalista abbiamo un mercato del lavoro che richiede sempre
un maggiore sforzo da parte del lavoratore, sia nell’aumento delle ore
lavorative che nell’intensità propria del lavoro. Osservando i paesi in
cui le ore di lavoro variano tra 12 e 72 ore continuative, senza
interruzione, ad esempio quelle delle zone di libero scambio commerciale
del Centro e un Sud America, spesso le anfetamine sono somministrate
direttamente dal datore di lavoro con lo scopo di portare a termine
turni di lavoro massacranti. Si è passati da un assenteismo a un
iper-presenteismo sul posto di lavoro.

*In Europa accade la stessa cosa?*

Abbiamo in Europa le testimonianze dei sindacati inglesi, che ci fanno
sapere che la gran parte dei lavoratori inglesi hanno problemi di
tossicodipendenza e di alcolismo. In Italia la cosa non è molto diversa.
Si dice con leggerezza che la tossicodipendenza riguarda prevalentemente
i giovani. Giovani studenti: una generazione spesso collegata con le
stragi del sabato sera. La realtà è diversa. Il 70% dei consumatori di
droghe non è costituito da studenti bensì da lavoratori dipendenti. C’è
un forte malessere dei lavoratori in fabbrica, i turnisti ad esempio,
compensano questo malessere con l’uso di droghe e farmaci.
Questo fatto è dovuto a due bisogni effettivi della produzione
capitalistica: quello di lavorare sempre di più e quello di consumare
sempre di più. Da una parte c’è bisogno dell’ iperlavoro, il quale è in
continua crescita, utile ad abbassare i costi di produzione. Dall’altra
c’è il bisogno di consumare quello che si produce. Siamo paradossalmente
in un’epoca della storia in cui la possibilità di consumare è la più
alta in assoluto: tanti beni a disposizione. Ma nello stesso tempo, tale
consumo non aiuta l’emancipazione dei lavoratori, bensì principalmente
la produttività economica e l’obbedienza politica. Il consumo di
sostanze stupefacenti ha precisamente un triplice scopo: stimolare la
produzione, manipolare l’essere umano per renderlo più simile alla
macchina e farlo diventare il più possibile docile. Un esempio di tale
“pacificazione” è il modo in cui nel 1968 l’LSD fu somministrata in
massa ai contestatori nordamericani quale “antidoto all’attivismo politico”.

*Alla luce di tutto ciò, come reagisce il sindacato in Italia? **
*
In Italia il sindacato reagisce come può, nel senso che in un contesto
caratterizzato dalla decentralizzazione produttiva il sindacato è sempre
più stretto dalla necessità di garantire il posto di lavoro e mantenere
la capacità contrattuale del salario. Schiacciato tra queste due realtà,
il sindacato chiude un occhio a tutto il resto. Ed è così che emerge un
sindacato senza una autentica forza contrattuale, risorse politiche o
motivazioni per affrontare il disagio dei lavoratori.

*Ci sono esempi che testimoniano questa debolezza sindacale?*

Nell’inchiesta che ho fatto nella zona industriale del Nordest d’Italia,
di alta densità produttiva, volevo verificare quanti lavoratori
facessero uso di droghe o di antidepressivi. Di fronte alla mia ricerca
il sindacato si è tenuto in disparte, non ha preso una posizione esplicita.


*E le politiche dei governi, che ruolo hanno?*

Le politiche dei nostri governi sono connesse all’economia dello Stato e
quindi soggette alle necessità di profitto della produzione
capitalistica. In quest’ottica essi fanno leggi che puntano sempre di
più alla precarietà e alla flessibilità del lavoro, invece che al
benessere dei lavoratori.

*A questo punto la soluzione sfuma.*

La soluzione al problema? No, non sfuma. La cosa che mi preme
sottolineare è che il benessere dei lavoratori non è marginale alla
lotta dei lavoratori stessi o del sindacato. È centrale. L’opposizione
collettiva è l’unica possibilità d’uscita da quella disperata ricerca di
auto-gratificazione dalle dipendenze. Come scriveva Jervis negli anni
settanta, la nevrosi operaia si sviluppa nella misura in cui l’operaio
non riesce ad inserire in una struttura collettiva di protesta il
proprio rifiuto, perché l’unica terapia è l’azione politica dei
lavoratori. in questo senso non c’è stato provvedimento in Italia ed in
Europa in cui il desiderio governativo di trasformare il lavoro in un
processo precario, flessibile e sottopagato non sia stato accolto con
una vera e propria lotta nelle piazze. Vi è stata una grande risposta
quando si è voluto cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori. Ancora una volta sono stati gli stessi lavoratori a mostrare
la soluzione.

*Lei fa riferimenti espliciti al coinvolgimento dei governi?*

Se guardiamo il mercato delle droghe nel corso della storia vediamo che
spesso i governi occidentali sono stati implicati in un modo o in un
altro nella somministrazione di sostanze psicotrope alle popolazioni. Se
ci pensiamo, il consumo di massa di sostanze psicotrope è cominciato con
la rivoluzione industriale prima e con il colonialismo poi, quando
questo commercio era considerato non solo uno strumento vantaggioso dal
punto di vista economico, ma anche uno strumento di pacificazione
politica. Si pensi solo alla politica coloniale dell’impero britannico
nei confronti della Cina, o al colonialismo olandese e francese nei
confronti dell’Indonesia e del Vietnam, o al ruolo delle droghe
nell’aumentare la ferocità conquistatrice dell’esercito statunitense, o
allo smercio di massa di LSD tra i manifestanti di San Francisco negli
anni Sessanta per ridurne le istanze di mobilitazione politica. Nei
ghetti neri degli Stati Uniti, ancora una volta la risposta l’hanno data
i lavoratori, che hanno messo in atto una campagna di mobilitazione e
denuncia contro il governo nordamericano, dopo che per decenni questo
aveva facilitato la diffusione di droghe pesanti nei ghetti così da
rispondere al problema dell’elevata povertà delle inner cities con la
criminalizzazione dei poveri.

*Abbiamo parlato del mondo di produzione capitalista, dove esiste un
padrone, che è il proprietario della produzione e dei lavoratori.
Esistono tuttavia esperienze di lavoro dove sono gli stessi lavoratori a
gestire la produzione senza i padroni proprietari. Un esempio di
riferimento sono le fabbriche occupate in Argentina. Secondo lei, qui
accade la stessa cosa? Si verificano gli stessi malesseri e lo stesso
consumo di droghe?*

Non ho fatto un’accurata ricerca nelle fabbriche recuperate in
Argentina, ma ho visto che, laddove il lavoratori si autorganizzano,
laddove il lavoratori si realizzano come persone nell’ambito della
stessa produzione di beni, laddove i lavoratori sono liberi di decidere,
essi non hanno bisogno dei psicofarmaci per poter lavorare. Per cui,
quello che ho visto nelle fabbriche in cui la dignità e la
responsabilità del lavoratore diventa protagonista della stessa
produzione, il sogno del benessere dei lavoratori non ha bisogno di
appagarsi con le droghe.



/A cura di Sabatino Annecchiarico/
sabalatino at libero.it





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