[Redditolavoro] vita lavoro desiderio lotta

Emiliano Laurenzi emiliano_laurenzi at yahoo.it
Sat Jun 21 12:36:02 CEST 2008


Il tempo della vita è il grande assente sulle riflessioni che riguardano il lavoro. Il suo innervare in prima istanza gli aspetti del quotidiano, passa sempre in secondo piano. La precarizzazione, spingendo la sottrazione del tempo sin dentro i pertugi della vita individuale, e soprattutto nelle dinamiche con cui ci rappresentiamo il nostro futuro, ha portato in risalto, per negativo, attraverso appunto la sua compressione, sottrazione e finalizzazione (la barbarie del funzionalismo...), la rilevanza del tempo della vita come dimensione in cui misurare la dignità della vita, la possibilità della felicità – che non è un'orizzonte prepolitico... – e in ultima istanza la capacità di pensare, immaginare il futuro. L'impossibilità di immaginare il futuro sottrae sin da subito la possibilità della condivisione, della solidarietà. In ultima istanza dell'azione politica come azione sociale. Il tempo della vita è lo snodo esistenziale su cui
 martella l'attuale regime capitalistico postmoderno per plasmarlo in un certo modo. Quello della disperazione e della solitudine, del nichilismo e del cinismo. Questo serve per “spremere” dagli individui il desiderio slegato dal progetto – quale che sia – ed utilizzarlo come carburante per i processi di smaterializzazione della fantasia, di mercificazione dell'esistente, di sottrazione del reale (e qui il lavoro ha subito una “scoloritura” simile a quella con cui si è andato instaurando il regime del virtuale).


Questo desiderio viene manipolato con precise strategie: allo smantellamento di tutte le strutture di aiuto e sostegno pubbliche – quelle che mediavano il conflitto sociale e permettevano la redistribuzione del capitale sociale attraverso i servizi (istruzione, sanità, trasporti, tutela giuridica, eguaglianza civile, etc. - fa da contraltare (e segue un preciso processo di riarticolazione statuale nella postmodernità matura) l'ipertrofia dell'apparato penale e di controllo sociale. Le risorse economiche sottratte alla ridistribuzione del reddito sotto forma di welfare, sono state dirottate verso la criminalizzazione della povertà e lo smantellamento delle garanzie sociali per i lavoratori. La precarizzazione ha come autentico obiettivo la riduzione del lavoro a variabile della produttività. La precarizzazione serve a disgregare in un orizzonte personale le possibilità di difesa, di rivendicazione e di lotta dei lavoratori. Non costituisce
 un'accumulazione precaria – non sono d'accordo con Fumagalli – bensì serve a rendere precari i legami sociali, gli orizzonti personali ed in sostanza le aspettative di una vita migliore. Il profitto generato su questa precarietà, infatti, non è precario, perché gli strumenti che la sanciscono sono gli strumenti che gli stati, nella loro nuova veste di servomeccanismi totali del capitale, sono il risultato di precise pressioni, lotte e offensive che si nutrono prima di tutto della stessa paura che la società globalizzata genera. Paura del diverso, paura del futuro, paura, quella sì, fluida e ispiratrice più che ideologica di tutto l'apparato normativo, emotivo, valoriale, legale e culturale che il capitalismo attuale dispiega e di cui si nutre. Precarietà del lavoro significa assoggettamento del desiderio – attraverso pratiche che però non sono per nulla immateriali e fluide, ma ben sedimentate, attraverso lobbies, pressioni, corruzione e
 vera e propria lotta politica – e controllo sociale. Le risorse sottratte al welfare sono state indirizzate verso il modello del workfare americano. La responsabilità individuale, la competitività individuale, la lotta dei poveri (il paradigma ideologico del neodarvinismo) sono alcuni dei capisaldi in cui si giustifica la situazione attuale, coagulando la paura in disposizioni valoriali ben precise. Un partito come la Lega, sin dalle sue scaturigini alla fin degli anni settanta con la Liga veneta, si fonda proprio sull'incapacità e sul volontario ritiro delle cosiddette istituzioni democratiche dal compito che si erano arrogate e prefissate di governare la società. La sfera dei poteri pubblici, a cui lo stato moderno apparteneva e in cui si identificava, viene smantellata, colpevolizzata nel suo sostenere gli emarginati, i poveri, i lavoratori dequalificati, gli operai, tutta la massa di forza lavoro che invece deve essere amministrata secondo
 logiche di gestione del potere e di amministrazione del consenso che sono di ispirazione penale. Le leggi, strumento normativo del capitale, sanciscono la legittimità e la legalità della precarietà e per converso criminalizzano qualsiasi forma di assistenza. Le forme del consenso si plasmano su quelle di uno stato penale, in cui ciò che era welfare diventa workfare, in cui il lavoro non è più produzione di ricchezza e strumento di emancipazione – neppure da un punto di vista retorico – bensì adeguamento agli imperativi dogmatici della competizione, interiorizzazione della propria responsabilità. Il campo del potere pubblico abdica alle sue funzioni e decide di regolare il conflitto sociale nelle forme della criminalità. Inutile enumerare la quantità di reati elaborati per sanzionare penalmente qualsiasi forma di conflitto sociale, assimilata al terrorismo, così come le rivendicazioni sociali, la lotta sindacale e per i diritti. Il campo
 penale si sostituisce a quello sociale, ed il lavoro, in questo senso, non può più essere il luogo in cui si accendono le contraddizioni, perché esso è solo un adeguamento obbligato alle forme di una sorta di panopticon statale. Chi è fuori dalle logiche di questo lavoro è scarto umano, rifiuto, immondizia. Il trattamento riservato a nomadi, cosiddetti clandestini, antagonisti, contestatori, lavoratori in nero e emarginati, è quello dell'immondizia. La discarica sociale è il sistema penale. Il lavoro è solo il luogo obbligato, materiale e valoriale, in cui si deve fare il proprio dovere. Lo strumento di controllo più che sociale, intimamente penale.

 
Il lavoro è sempre stato controllo sociale da quando è apparso nelle forme moderne. La finalizzazione della forza lavoro è stata un prerequisito che nessuno ha mai messo in discussione. La sua declinazione, semmai, è stato luogo di conflitto, motivo di contraddizioni propositive. Sulla differente declinazione di quale dovesse essere la finalizzazione della forza lavoro si sono giocati i conflitti che hanno visto il lavoratore come figura centrale. Ma già dagli anni sessanta quello che all'epoca veniva chiamato il neocapitalismo, e che oggi è il capitalismo postmoderno maturo, aveva iniziato a lavorare sulle forme organizzative della forza lavoro. Indubitabilmente, infatti, in termini quantitativi, le organizzazioni di lavoratori generavano quella massa critica che surriscaldandosi da quantità innesca processi qualitativi nella contrattazione, nella rivendicazione e nel conflitto. Oggi l'organizzazione del lavoro in quanto controllo sociale mira
 innanzitutto ad evitare che condizioni comuni generino linguaggi comuni, che forme di sfruttamento diffuse, e simili, inneschino processi di condivisione. E fanno questo sia materialmente – modi di lavoro, dislocazione del lavoratore, durata dei contratti, la ricattabilità, etc. (la legge 30 è in questo esemplare come forma di estensione del controllo penale, perché assimila l'attività lavorativa ad uno scadenzario ossessivo, senza speranza, in cui cui la dimensione del futuro, eventualmente dell'espiazione, come nella retorica dello stato moderno e nella cosiddetta etica del lavoro, scompare) – sia con la criminalizzazione, dal punto di vista dell'immaginario e conseguentemente con azioni legittimate dal sentire diffuso, di qualsiasi deroga da queste forme, di qualsiasi contestazione. La controrivoluzione del capitale ha prima abolito lo spazio comune in cui il lavoro esercitava il suo controllo, poi ha fatto sciogliere – soprattutto con un
 uso politico delle innovazioni tecnologiche – le forme di condivisione del tempo e dello spazio fra i lavoratori, poi ha saturato questo spazio vuoto, immaginario e fisico, di divieti, di competizione, di criminalizzazioni. Tutto ciò che non si conforma alle modalità di erogazione del lavoro, va fatto sparire. Questa strategia accomuna lavoratori estromessi dal processo di sfruttamento e migranti che violano le leggi del mercato della cittadinanza, e genera la massa delle “vite di scarto”. Qualcosa di enormemente più inquietante dello stesso “esercito di riserva” di marxiana memoria.
In queste condizioni, il lavoro così come è oggi non riesce più a funzionare come catalizzatore di contraddizioni e di conflitto. Diviene semmai la misura più puntuale dell'irregimentazione, della conformità e dello sfruttamento come unico orizzonte di vita desiderabile dallo stesso soggetto. Al di fuori c'è solo il nulla sociale, la propria inutilizzabilità, il destino di spazzatura che attende miliardi di persone. Senza mediazione. O si è sfruttati, o si è gettati via nella pattumiera penale, esposti a ronde, carceri, forze dell'ordine, razzismo, violenza.


La distruzione del diaframma 'pubblico-privato', della sua capacità di inserire il vissuto soggettivo in dinamiche sociali (un diaframma fatto di comportamenti, idee, ideologie, pratiche, ragionamenti, mobilitazioni, leggi, etc.) è infatti uno dei cardini su cui si gioca il potenziale desocializzante del lavoro oggi, conformemente al suo essere la controparte del potere di sanzione, controllo e penalizzazione con cui il capitale ha profondamente riplasmato le funzioni dello stato. Questa desocializzazione, oltre a dover sbriciolare la possibilità di condivisione, deve anzi favorire, innescando dinamiche risarcitorie di tipo individualistico, la trasformazione del vissuto in mero biografismo. La vita personale, le esperienze, i vissuti, le emozioni – anche qui con l'uso politico dei media – non devono più essere mediate attraverso la socializzazione in tutte le forme che la modernità aveva allestito. No. Esse devono indurre la messa in produzione
 del vissuto, la conformità di ciò che il tempo della vita anima (gioia, dolore, speranza, sofferenza, allegria, etc. etc.) con le regole della sua spendibilità, della sua reificazione nei format dell'immaginario mediale. La difficoltà e sotto certi aspetti l'attuale impossibilità della condivisione e dell'azione politica comune, è inversamente proporzionale alla facilità con cui il vissuto viene messo in produzione. In questo, un aspetto centrale della rivoluzione tecnologica – l'abolizione del tempo e dello spazio come elementi di separazione sociale – è stato rimodulato nelle forme di un controllo immateriale delle persone, inducendo non solo la spettacolarizzazione della vita, bensì la sua riduzione a portato informativo variabile, a elemento dell'infosfera. Virtualizzazione, mercificazione, smaterializzazione, carattere informazionale e non comunicativo. Queste le cifre della messa in produzione del vissuto come conseguenza della
 distruzione del diaframma 'pubblico-privato'. Questo fatto è fondamentale perché scardina un altro cardine del lavoro come luogo di conflitto: la dinamica soggettiva del desiderio e la sua possibilità di saldarsi con altri desideri.


La cosiddetta colonizzazione dell'immaginario entra nel vissuto personale esattamente attraverso la sottrazione di un vocabolario comune, di un linguaggio che restituisca ai soggetti un territorio politico – reale e immaginario – comune, su cui muoversi con intenti comuni, con forme di orientamento e di azione comuni. E l'obiettivo della messa in produzione del vissuto è proprio il disinnesco del desiderio individuale, della capacità di immaginare altro, di riuscire a vedere le cose diverse da come sono. Disinnescare questo processo, serve fra l'altro ad indurre la disperazione, il cinismo, il nichilismo, l'opportunismo che sono le marche comportamentali minime proprie e conformi del capitalismo postmoderno maturo, e le forme di adeguamento alla vita carceraria, per inciso. Distruggere e colpire al cuore il desiderio è anche il modo più sottile di cancellare la memoria, perché senza immaginazione non solo non esiste il futuro (letteralmente non
 emerge da una dimensione puramente e volgarmente trascendentale... ma qui si aprirebbe un discorso sui legami fra l'attuale organizzazione del lavoro e gli imput mistici che essa contiene in termini di negazione del mondo), ma non si condensa neppure più il passato sottoforma di storia personale, almeno, ovvero di memoria. L'individuo, ridotto a produttore di emozioni sterili, a consumatore di vite fittizie, in preda all'impossibilità di immaginare un futuro, di condividere un presente, perde anche la sua storia. La sua vita si riduce all'eterno presente, al senza ieri e senza domani scandito dagli orari, dalle scadenze, dalla propria colpevole inadeguatezza e povertà (altri sentimenti di disadattamento su cui prospera l'industria dei prestiti e delle finanziarie). La vita è puntiforme, la voce è muta perché non può parlare se non il linguaggio in cui come un bit viaggia il vissuto personale.


      ___________________________________ 
Scopri il Blog di Yahoo! Mail: trucchi, novità, consigli... e la tua opinione!
http://www.ymailblogit.com/blog/
-------------- next part --------------
An HTML attachment was scrubbed...
URL: http://riot.ecn.org/pipermail/redditolavoro/attachments/20080621/0080269e/attachment-0001.html


More information about the Redditolavoro mailing list