[Redditolavoro] Massimiliano Tomba. Le merci sono per natura cosmopolite

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Wed Jun 18 23:53:38 CEST 2008


Liberazione 14/06/2008


Massimiliano Tomba


Le merci sono per natura cosmopolite




Le merci sono per natura cosmopolite. Con lo sfruttamento del mercato mondiale, scrivevano Marx ed Engels nel 1848, la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. I prezzi bassi delle merci sono stati l'artiglieria pesante che ha costretto ogni nazione ad adottare il modo di produzione capitalistico; dovevano anche costringere «alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari». Così non è stato. O meglio: barbarie e civiltà si sono invertite.
In Italia è iniziata la caccia al romeno. La paranoia antiromena ha conquistato le prime pagine dei giornali con l'aggressione della donna a Roma nel settembre 2007. A questa ha fatto eco la richiesta di Walter Veltroni di estendere anche a casi di violenza sulle persone e sulle cose la normativa sull'espulsione immediata prevista per i cittadini comunitari quando mettono a repentaglio la sicurezza nazionale. La «xenofobia dei barbari», pur di non capitolare di fronte al cosmopolitismo della merce forza-lavoro, è pronta a sacrificare pezzi dello stato di diritto sull'altare della sicurezza nazionale. Evocando stati emergenziali viene confermato il carattere opzionale del nesso tra democrazia e mercato. La libertà di quest'ultimo è glorificata quando si tratta del movimento delle merci, diventa un problema quando invece riguarda il movimento di una merce particolare: la forza lavoro. Alla quale è anche maledettamente attaccato un corpo.

È di questi corpi che si occupa la ricerca etnografica di Veronica Redini ( Frontiere del "made in Italy". Delocalizzazione produttiva e identità delle merci , Ombre corte, 2008, pp. 175, euro 15). L'autrice afferma infatti che il lavoro deve «essere inquadrato in una prospettiva che focalizzi l'attenzione sui processi di incorporazione, sulla corporeità e la soggettività in quanto dimensioni centrali in un'analisi critica dei processi di produzione» (pp. 8-9). Si tratta di un percorso etnografico che si è svolto a varie riprese tra il 1999 e il 2007 in due città della Romania, Cluj-Napoca prima e Timisoara poi. La ricerca, nata con l'obiettivo di analizzare l'attività delle imprese italiane localizzate in Romania, ha posto attenzione a ciò che avviene in fabbrica, alle relazioni tra imprenditori e operai, cogliendo però anche tutta l'importanza di ciò che avviene nelle pratiche del consumo. È questo il tratto specifico della ricerca etnografica di Veronica Redini: l'interesse per le «pratiche di soggetti che producono oggetti deve spostare il proprio sguardo dal prodotto e dai significati che gli vengono attribuiti a quell'ampio contesto in cui tali oggetti nelle fabbriche, nei negozi o nei luoghi istituzionali operano quegli stessi significati» (p. 8). Occuparsi di merci italiane prodotte all'estero significa infatti occuparsi anche dei processi politici di costruzione dell'identità delle merci.
Nel 2001 più del 41% dei prodotti calzaturieri italiani sono stati importati. In larga misura dalla Romania. Sono infatti circa 16mila le ditte a capitale italiano attive in Romania. L'analisi del made in Italy , delle sue frontiere, come recita il titolo del libro di Veronica Redini, deve dunque partire da là. Dai laboratori romeni. Dall'analisi dei corpi che producono, patiscono e resistono in un pezzo di Italia situato in Romania. Si tratta di corpi di operaie costrette a mangiare alla linea della produzione; di corpi che vengono sistematicamente insultati e che, quando sbagliano, vengono presi a schiaffi dal tecnico italiano di turno. È qui che prende corpo il razzismo. Anche quello rabbioso che urla contro i romeni in Italia. Cioè il lato perturbante dell'Italia in Romania.

I salari romeni sono raggiunti velocemente dal capitale, il disciplinamento della forza-lavoro ai ritmi di lavoro occidentali deve essere prodotto con gli strumenti della violenza. La stessa violenza che accoglie gli occupati romeni che cercano di varcare i confini e riequilibrare il differenziale salariale emigrando in Italia.

È a partire dai laboratori della produzione, dalla sfera del comando sulla forza-lavoro che si mostra come il tentativo di imporre una divisione etnica del lavoro, una differenziazione geografica di salari e intensità del lavoro, così come si sta delineando in Europa, presuppone la preliminare etnicizzazione di gruppi di popolazioni. Quando i "civili" imprenditori italiani, vestendo gli abiti di una lunga tradizione razzista, affermano che «quello che manca in Romania è l'armonia», mentre invece i «popoli sviluppati sono popoli armoniosi» (p. 110), stanno con ciò marcando lo spazio culturale del made in Italy a partire dal suo altro: dalla costruzione del romeno. Lamentano infatti che la lunga permanenza in Romania esporrebbe l'italiano al rischio di «romenizzazione», che, come viene spiegato da un altro imprenditore italiano, è sinonimo di abbrutimento. L'italiano romenizzato è «distrutto», «degradato», «degenerato dentro», perché la «romenizzazione è una dimenticanza di quella che è la propria identità italiana» (p. 111). Un'identità che segue il destino della merce. Che, dal momento che i confini economici e del made in Italy non coincidono con quelli dello Stato-nazione, deve quindi essere costruita.

La difesa della propria identità italiana è l'immagine vista allo specchio della difesa del made in Italy delle merci fabbricate in Romania. L'identità italiana viene affermata per distinguere servi e padroni. Il tecnico italiano imprime il ritmo (p. 56), le operaie e gli operai romeni lavorano con «il cronometro attaccato al collo» (p. 63). È il comando italiano sulle produzione a determinare l'identità delle merci. Chi imprime il ritmo, imprime anche il marchio. Nel mercato mondiale non importa la localizzazione geografica della produzione: merci fabbricate in Romania possono essere e sono di fatto made in Italy . Non solo infatti l'etichetta con scritto made in Italy non indica e «non vuole indicare il luogo dove effettivamente il prodotto è stato realizzato, ma lo stesso made in è oggetto di molteplici interpretazioni» (p. 98). Come quando l'italianità della merce viene negata alle merci fabbricate in Italia nei laboratori cinesi. O quando, negli Stati Uniti, viene occultata la provenienza cinese delle divise della Major League di baseball «perché considerate dai consumatori tra i prodotti di abbigliamento sportivi "più americani"».

Molte sono le osservazioni possibili sul marchio, sulla sua costruzione culturale e il suo potere di innalzare il prezzo del prodotto nel mercato. Veronica Redini segue i molteplici fili di queste interpretazioni, ma riporta poi la barra sul carattere di feticcio della merce, vale a dire sul «processo di occultamento della fonte del valore» (p. 109). Nel caso studiato dall'autrice del volume emerge che la fase romena della vita di queste merci è un momento «che non è incluso nel processo di riconoscimento del prodotto» (p. 131). Un ex amministratore dello stabilimento Geko (il nome è fittizio) dice espressamente che sullo stabilimento non vedi il marchio Geko, ma c'è scritto "Magic Development". Per molto tempo l'azienda «non ha voluto neanche mettere i quadri, i poster della Geko. Perché non si doveva sapere che c'era la Geko qui e che produceva con un'azienda di duemila dipendenti» (p. 117). Un'azienda che in Romania, come in Italia, continua a praticare una feroce politica antisindacale.

Conformemente al feticismo delle merci, che rimuove il momento della produzione, l'identità delle merci, tutta giocata nella sfera della circolazione, rimuove la fase romena della loro creazione. Rimuove il lavoro di operaie e operai romeni, per poter appiccicare alla merce l'etichetta di un'identità che permette di rialzarne il prezzo. Un'identità italiana per un mercato non romeno. I processi di costruzione di identità passano sempre attraverso linee di inclusione ed esclusione. Solo la decisione delle operaie romene di riappropriarsi, anche attraverso il furto, di ciò che loro stesse hanno prodotto, ha indotto le ditte italiane a prendere in più seria considerazione il mercato interno.
Tutto questo mostra come la definizione del made in Italy , l'identità della merce, sia innanzi tutto una attribuzione connessa con l'autorità, con un «procedimento di oggettificazione culturale attraverso il quale si delinea l'esistenza di cose e idee italiane». Così se la dicotomia vero/falso viene messa in questione dal fatto che molti produttori che producono i "veri", producono anche i "falsi", la dicotomia culturale-egemonica che viene ad affermarsi nella difesa del "vero" falso, cioè del made in Italy in Romania, è quella tra italiano-bello-armonioso da un parte, e romeno-brutto-degenerato, dall'altra.

La merce, se solo la si va a vedere là dove essa riceve il proprio valore e non solo dove essa si presenta con un prezzo, parla già il linguaggio del razzismo. Feticismo è invece l'occultamento della produzione, come avviene per il «cosiddetto capitalismo "immateriale" nel quale tanto più viene affermato il valore di concetti come il design, lo stile e la ricerca, opacizzando tutto ciò che di pratico viene svolto altrove, tanto più però esso fonda il proprio funzionamento sulla materialità, l'alto impiego di manodopera e la standardizzazione delle mansioni» (p. 131). La delocalizzazione a Est non rappresenta il mondo, ma una porzione di Timisoara dice del mondo più di quanto non dica Silicon Valley da sola.


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