[Redditolavoro] L'amore secondo Toni Negri
clochard
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Sat Jun 7 18:51:11 CEST 2008
L'amore secondo Toni Negri
intervista a Toni Negri di Chiara Pastorini
Nelle sue ultime opere, tra cui Moltitudine, Lei parla di amore come
dell’unico fine per cui si debba combattere, o meglio, come di ciò che è in
grado di sostenere il potere della moltitudine. In che senso?
Il concetto politico di amore da me impiegato ha origine nella
filosofia di Spinoza. L’amore, egli afferma, deriva dalla cupiditas, dal
desiderio che fa vivere; questo, a sua volta, esiste prima sotto forma di
conatus di riproduzione, cioè d’impulso sensibile e di sforzo corporeo di
vivere e di unirsi agli altri nella costruzione del comune. Il legame tra
conatus-cupiditas e amor può essere esplicitato in questo modo: quando il
conatus è accompagnato dalla coscienza di sé diventa cupiditas e quando
questa, incontrandosi con altri enti finiti, potenzia il suo grado di
perfezione esprimendosi come gioia, essa diviene amor. L’amore è insomma
qualche cosa di razionale e socializzante, che costruisce nomi comuni e
istituzioni. L’amore mette insieme cose e parole per costruire concetti, e,
lungi dall’essere un motore individualizzante, avvicina tra loro i concetti
per dare origine a forme di vita e a pratiche di convivenza comune.
Questo concetto politico di amore si lega in qualche modo a una
dimensione teologica religiosa?
Credo di sì, se la religione è intesa come un legame che si stabilisce
tra gli uomini. Quasi sempre, però, quando si parla di religione si fa
riferimento a una dimensione trascendente, ci si affida a una proiezione
ontologica assoluta, al di fuori dell’orizzonte della vita e dell’umano. Di
contro, l’amore consente di cogliere l’insieme di passioni, affetti,
funzioni razionali e concetti all’interno della sfera naturale umana e non
su un piano eteronomo trascendente, da cui probabilmente è opportuno
prendere le distanze per evitare fanatismi e superstizione.
Una domanda allora, forse superflua: è credente?
No, sono ateo. Rispetto in ogni caso la religione, soprattutto in
quelle forme laicizzate e generose che ho conosciuto, ad esempio, nel Sud d’Italia,
oppure tra i contadini veneti o, ancora, in America latina (la teologia
della liberazione è stata per me un’esperienza d’importanza enorme).
Rimanendo alle sue ultime opere, uno dei principali concetti di cui
Lei si serve per descrivere la situazione globale attuale è appunto quello
di “impero”. Che cosa intende?
Con ”impero” intendo la forma politica che governa la globalizzazione
economica e sociale determinatasi con la fine del dualismo politico della
Guerra fredda. Abbiamo allora assistito alla creazione di un mercato
unificato, capitalistico e regolato da norme di divisione del lavoro, che si
estende sull’intero globo: insomma, alla vittoria del neoliberismo.
Le istituzioni intervenute a mediare questo nuovo assetto mondiale
sono di diverso tipo: in primo luogo di tipo giuridico, monetario e
commerciale (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, organizzazioni
per gli scambi commerciali), con capacità normativa forte, ma settorialmente
limitata; in secondo luogo, di tipo politico (l’ONU e gli strumenti
transitori di accordo e di organizzazione tra diversi Stati-nazione); in
terzo luogo di tipo civile (le ONG); da ultimo di tipo economico (le
organizzazioni transnazionali, che possono anche talora confondersi con le
ONG). In questo reticolato ordinato e strutturato su scala mondiale, si
assiste alla crisi dello Stato-nazione. È un fenomeno profondo e
irreversibile. I giuristi parlano, nell’ambito del diritto pubblico, di
“costituzionalismo senza Stato”. Paradosso? No, è quanto l’esperienza ci
presenta.
Si può parlare allora di un Impero senza centro e senza territorio, in
altri termini, ubiquitario?
In realtà, all’interno di questo fenomeno di globalizzazione, che si
manifesta come un processo aperto e che indubbiamente si rappresenta come
una transizione, si è affermata una forte volontà di prendere il potere per
dominare e dirigere questa trasformazione: c’è stato un colpo di Stato sull’Impero.
Mi riferisco al ruolo giocato dagli USA neo-conservatori, in particolare
durante la seconda amministrazione Bush, quando si è manifestata una precisa
volontà di restaurare la sovranità americana sul globo.
Questo colpo di Stato ha evidentemente fallito il suo obiettivo, sia
nella guerra irakena sia, più in generale, nella sua politica contro i
cosiddetti Stati canaglia. Sembra, di conseguenza, che ora ci si stia
muovendo verso un assestamento continentale con l’ingresso di nuovi
protagonisti nella storia mondiale: l’America latina, la Cina, la Russia, l’India
e tanti altri Paesi. Quanto all’Europa, da semplice appendice militare degli
USA, sembra essersi mossa nella direzione di utilizzare la propria enorme
capacità produttiva e culturale e la potenza di una moneta in grado di far
saltare il predominio del dollaro. Vedremo!
Il potere di cui ci si vuole impossessare all’interno dell’Impero,
facendo riferimento alla nozione foucaultiana di biopolitico da Lei spesso
impiegata, è definibile nei termini di biopotere?
Quando si parla di biopolitico si intende un dispositivo per cui, in
seguito alla trasformazione del lavoro e della produzione, il comando
diventa un tessuto di controllo generalizzato della vita. A partire dalla
nascita del liberalismo, come ci insegna Michel Foucault, il comando non si
esplicita più semplicemente attraverso le forme per cui passa lo
sfruttamento del lavoro produttivo, ma si dà come analisi e controllo delle
diverse forme di vita. Questo controllo investe la circolazione generale del
valore, non solo di tipo economico, ma anche etico, sociale, ludico etc. È
fuor di dubbio che la struttura imperiale tenda fortemente all’integrazione
della vita nel comando politico.
Questa volontà di dominazione è finalizzata principalmente alla
creazione di profitto economico e tutte le forme attraverso le quali la vita
si svolge devono essere per così dire “messe al lavoro”. Un solo esempio: il
caso della sanità. Fino a qualche decennio fa era impensabile la riduzione
attuale delle operazioni sanitarie a degli atti di tipo economico. Oggi
tutti gli ospedali, a Pechino come a New York, a Roma come a Mosca, vengono
invece fatti funzionare sulla base di criteri di impresa.
Il processo di trasformazione imperiale si lega all’apparizione di
nuove forme di lavoro?
Si. In particolare, è necessario far riferimento al lavoro
immateriale, o cognitivo. Questo è definibile come il lavoro in cui prevale
l’elemento mentale-culturale sugli elementi materiali e di addestramento dei
sensi. Il lavoro immateriale, utilizzando uno strumento tecnico-materiale
(ad esempio, il computer) di solito in rete, si definisce come lavoro
intellettuale e insieme come lavoro socializzato-comunicativo. Talora ci si
illude di poter definire questo tipo di lavoro come “libero”, in realtà anch’esso
è salarizzato e si riduce, per così dire, a lavoro “operaio”. Tuttavia, al
di là di questa riduzione, emergono importanti e decisivi elementi di
differenza. In realtà, in ogni tipo di lavoro, c’è sempre stata una
componente cognitiva: nessun operaio è mai stato semplicemente “mani
callose”, si è sempre anche costituito come forza intellettuale. Tuttavia,
qualsiasi seria analisi del lavoro deve riconoscere che, prima, il lavoro
(nella sua materialità) era assunto nella sua astrazione, cioè quantificato
nella sua totalità o in unità discrete, che era ripetibile, che era
calcolato su unità di tempo prefissate. Oggi, paradossalmente, il lavoro
produttivo (immateriale) è invece sempre più concreto, nel senso che esso
vuole singolarizzare un bagaglio di conoscenze nell’atto del lavoro.
Ricordo, ad esempio, durante le mie prime esperienze come sociologo qui a
Parigi, che, già quarant’anni fa, nelle officine dei TGV di Saint Denis non
c’erano più operai tradizionali, ma solamente tecnici che “auscultavano” il
treno come fossero medici.
Le vecchie leggi di regolazione del lavoro, basate su criteri di
astrazione e controllo dei tempi, sono quindi venute meno. Non è
concepibile, in altre parole, racchiudere il lavoro attuale (che ha una
figura singolare) in limiti di tempo che ne definiscano il valore: se si
lavora a un progetto, ad esempio, questo può occupare mentalmente il
soggetto molto più a lungo delle ore impiegate per la sua realizzazione. Il
3X8 (8 ore di lavoro, 8 ore di tempo libero, 8 ore di sonno), caratteristico
della giornata lavorativa tipo, salta. Venendo meno l’orario della giornata
di lavoro, è venuta meno anche la contrattualità classica, sindacale, e ciò
lascia spazio a maggiori flessibilità (nel tempo) e mobilità (nello spazio)
lavorativa: si può lavorare a casa, in macchina o di notte. Naturalmente,
queste attuali forme di lavoro debbono essere attraversate da una nuova
lotta di classe per combattere l’imporsi di nuove forme di divisione,
sfruttamento e precarizzazione del lavoro.
In questo nuovo quadro globalizzato del lavoro è ancora possibile
parlare di proletariato?
Si tratta solo di una questione terminologica. Io insisto piuttosto
sulla sostanza. Una volta, quando parlavamo di proletariato, intendevamo una
classe operaia generalmente composta da uomini, di razza bianca, più o meno
razionalmente omogenei, che lavorava nell’industria, per lo più “con le
mani”. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a un insieme di lavoratori
eterogeneo per genere (la femminilizzazione del lavoro è un elemento
centrale di questo nuovo assetto lavorativo) e per razza.
Ci sono poi ampie fasce della popolazione mondiale, ai margini, o
anche all’interno dei Paesi più sviluppati, che pongono problemi di
integrazione con la cosiddetta classe operaia centrale. Per tutte queste
ragioni preferisco parlare
di moltitudine piuttosto che di proletariato. Questo concetto
raccoglie elementi tra loro eterogenei della storia dello sfruttamento e
della soggettivazione della forza lavoro, che, se da una parte sono spesso
riflesso di sofferenza umana su scala globale, dall’altra contengono forze
di innovazione e di liberazione enormi.
L’insieme della moltitudine è l’insieme delle soggettività che si
oppongono alle forze dell’Impero cercando di organizzarsi tra loro per la
gestione del comune.
Presentandosi come una pluralità di singolarità eterogenee tra loro e,
allo stesso tempo, come un insieme che deve organizzarsi per gestire il
comune, il concetto di moltitudine non presenta una difficoltà intrinseca?
Come in tutti i fenomeni di associazione anche nella moltitudine si ha
sempre l’alternativa tra l’agire insieme per il comune e la disgregazione. È
chiaro che il comune non è altro che la realizzazione di un’associazione che
rende i singoli più forti. In questo senso, l’esempio del linguaggio è
formidabile: ogni intervento singolare nella dimensione linguistica
costruisce e arricchisce il comune. In questo processo di associazione,
dunque, c’è la creazione di un surplus che va a vantaggio di tutti. D’altra
parte, invece, il rapporto con il (bio)potere, cioè con le forze del
sovrano, blocca o distrugge le tensioni verso l’associazione e la crescita
del comune, riducendole al privato e all’individuale.
Si parlava prima di amore: sicuramente in questo processo di
comunitarizzazione sono presenti elementi di spontaneità amorosa (così come
è spontaneo il volgersi alla difesa dei più deboli in un gruppo familiare),
ma accanto a questi ci sono poi forze di blocco, di recessione e di comando
unilaterale che vanno nella direzione opposta. Siccome la spontaneità non è
semplicemente naturalità, ma è anche volontà e razionalità, la moltitudine
va organizzata, ma ovviamente in un modo che ne assecondi la forma amorosa e
libera (altrimenti si rischia il fallimento come è avvenuto, ad esempio, nel
socialismo reale).
Una delle svolte più significative rispetto al passato degli attuali
movimenti di sinistra è l’incorporazione di una coscienza pacifista e non
violenta. Penso soprattutto ai movimenti riuniti sotto l’etichetta alter
global o no global, dove il ricorso o la giustificazione della violenza
appartengono a una frangia minoritaria. E mi riferisco anche alle
manifestazioni pacifiste che in tutto il globo hanno cercato di scongiurare
la guerra in Iraq: si è trattato del più grande movimento di protesta contro
la guerra della storia. È ancora efficace e giustificabile secondo Lei l’uso
della violenza come strumento politico?
Diciamo subito che non ho mai considerato il pacifismo come non
violento. La tradizione pacifista non vuole certo creare la violenza, ma sa
difendere il movimento e conquistare effettivamente la pace. Le grandi lotte
gandhiane sono state un esercizio di forza immenso: milioni di persone hanno
bloccato la produzione e con i loro corpi hanno resistito ai massacri dei
colonialisti inglesi.
La violenza va distrutta attraverso istituzioni di pace e non di
guerra, ma questo non significa necessariamente senza armi. Prendiamo un
esempio molto significativo: l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto. Se in
testa c’è Mosè che porta un ideale di pace, dietro c’è una retroguardia
gestita da Aronne che difende il popolo esodante con le armi. La difesa
della pace è fondamentale per la costruzione di un’etica non bellicosa, ma
neppure disarmata.
Pensa che questi movimenti di sinistra (altermondialisti, no global)
abbiano un progetto politico valido?
No, penso che siano in crisi. I movimenti, da quello di Seattle nel ’99
fino a quello di Rostock nel 2007, al di là di una fase di resistenza e di
presa di coscienza molto importante sul ruolo imperiale degli USA, non sono
riusciti a far seguire alla fase distruttiva della protesta una fase
costruttiva. Oggi stiamo pagando questa impasse con una fase di recessione
dei movimenti.
È la prima volta, dagli anni ‘70, che sono un po’ pessimista... Anche
se il mio pessimismo è un “pessimismo della volontà” che è poi sempre
sostenuto da un “ottimismo della ragione”! Sono infatti convinto che all’interno
di questo Impero e di questa globalizzazione tutti i giochi siano aperti.
In questo panorama globalizzato, pensa che abbia ancora un senso la
classica divisione del politico in destra e sinistra?
No, la dicotomia destra/sinistra, nei termini della rappresentanza
politica, non ha più alcun senso. La democrazia parlamentare, così come la
conosciamo noi, ha completamente annullato il senso di questa differenza,
nonostante tenti disperatamente di ricostruirlo attraverso vari bipolarismi
o altre forme fittizie. La crisi della democrazia dei partiti risale ormai
all’inizio del Novecento, non a caso nel momento in cui le organizzazioni
operaie cominciano a diventare egemoni sul terreno sociale e sempre più
pericolose per le classi dominanti. Da quel momento, e in particolare dopo
la Rivoluzione russa, le classi dominanti non possono più permettersi il
gioco della democrazia: potrebbe diventare occasione di redistribuzione
della ricchezza, della trasformazione della proprietà e delle forme di
civiltà. È subito dopo il ’68, nei primi anni ’70, che il potere
capitalistico stabilisce la teoria dei “limiti della democrazia”. In questi
ultimi trent’anni abbiamo assistito alla deriva di queste pratiche teoriche.
Nella sua vita ha unito la riflessione filosofica all’attività
militante e all’impegno politico. In questi ultimi anni si sta dedicando
anche al teatro come autore di diverse pièce. Come si articolano queste
diverse aspirazioni?
La mia vocazione è sempre stata di tipo politico, ma in termini
filosofici. Quasi mai ho fatto politica nel vero senso della parola. A parte
un’esperienza come segretario di una federazione veneta socialista di
sinistra quando non avevo ancora trent’anni e l’impegno in Potere operaio
intorno ai primi anni ’70 (in una forma comunque molto teorica), in genere
il mio impegno politico è sempre stato mediato dalla ricerca.
Per quanto riguarda il teatro, invece, ho iniziato a dedicarmici nel ’99,
appena uscito di prigione (per la seconda volta). Allora, per qualche anno
non sono stato nella condizione di potermi muovere, quindi dovevo fingermi,
inventarmi l’esperienza reale. Quale migliore terreno di quello teatrale?
Tanto più che, ritornando sul rapporto tra filosofia e teatro, sono sempre
stato convinto che il linguaggio filosofico sia linguaggio dialogico,
lontano da qualsiasi forma di pensiero che si avviti su se stessa nel
tentativo di raffinare il concetto. Il raffinamento del concetto avviene
attraverso la dialettica intesa come parola, come retorica, come confronto
con le altre parole. Ora, il teatro ha la capacità di trasformare il
linguaggio filosofico di ricerca in linguaggio dialogico. La struttura
teatrale si basa sempre su almeno due voci, che naturalmente possono essere
rappresentate anche solo da me e dalla mia coscienza. Mi sono dunque
divertito ad applicare questo strumento teatrale-filosofico a fenomeni di
tipo politico.
Ho scritto in tutto quattro pièce, di cui l’ultima, Settanta, in
collaborazione. Le altre tre sono: Sciame, che, attraverso la storia di un
kamikaze che si veste e si spoglia dell’esplosivo, narra la scoperta di un
soggetto politico nuovo, la moltitudine; L’uomo piegato, che, narrando la
storia (vera, tra l’altro) di un uomo che si piega in due al momento della
chiamata alle armi nel ’40, costituisce un discorso sulla pace; e, infine,
Il Citerone, una lettura delle Baccanti di Euripide come di una storia di
migranti che entrano in conflitto con l’ordine prestabilito della città in
cui giungono. E vincono.
Se chiude gli occhi e cerca di immaginare l’Italia fra quarant’anni,
che cosa vede?
È veramente molto difficile chiudere gli occhi, quasi quanto prevedere
che cosa succederà. Spero soltanto che il meccanismo di autodistruzione a
cui questa società sembra affidarsi abbia fine. In ogni caso, due ipotesi
possibili: la prima è che se questo processo non avrà un termine, diverremo
un Paese del Terzo mondo all’interno della nuova strutturazione globale; la
seconda ipotesi prevede una sommossa degli spiriti, e porta con sé qualche,
molta speranza. Ma è più probabile che ci (o, meglio, vi) attenda un nuovo
Seicento.
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