Re: [Redditolavoro] giornata nazionale di lotta contro i licenziamenti politico sindacali, per far cadere le montature giudiziarie, contro ogni repressione delle lotte operaie e sociali e delle organizzazioni dei lavoratori

Fulvio fuldigior at libero.it
Tue Jan 29 15:11:51 CET 2008


Il giorno lun, 28/01/2008 alle 13.08 CyberGodz ( cybergodz at ecn.org ) ha scritto:

... ma una giornata di lotta contro il lavoro non si fara' mai?...;-) 

Il termine lavoro viene utilizzato a sproposito posizionandolo sullo stesso piano al termine lavoro salariato, creando questa confusione volutamente o per ignoranza (nel senso che si ignora), si producono analisi e una prassi erronea  sull'agire politico e sociale, per il cambiamento di questa società basata sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Partiamo  da questa domanda: siamo contro il lavoro o siamo contro il lavoro salariato?

Se i miei interlocutori optano per la prima,  siamo contro il lavoro, il discorso può ritenersi terminato in quanto inutile alla comprensione materialista e scientifica dello stato di cose presenti, nel nostro contesto "spazio temporale", in quanto il mio interlocutore non comprende il perchè gli oggetti prodotti attorno a lui (computer, tavolo, sedia, vestiti, pavimento, casa, strada, mezzi di locomozione, ecc. ecc) si siano materializzati (magia?), che i cibi di cui si nutre gli arrivino in bocca con il teletrasporto da parte di qualche entità della settima dimensione. Quindi risulta pacifico a chiunque l'affermazione che, ogni cosa attorno a noi è il prodotto del lavoro che non è altro che è un'attività produttiva materiale o immateriale esplicata con l'esercizio di un mestiere o una professione e simili e ha come scopo la soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi. 

Se invece si opta per la seconda, cioè che siamo contro il lavoro salariato, allora si può discutere su altri ordini di idee e materializzare linee di cambiamento trasformatrici e di superamento della società capitalista. Senza stare ad aggiungere altro in questo caso sono più che sufficienti ad intavolare una discussione la lettura dai nostri iper - classici del marxismo (in maniera non dogmatica), in modo tale da sviluppare contributi di analisi, di teoria e prassi per poter spazzare via tutti i padroni dalla faccia della terra. Comunque la pensiate vanno letti ...

Come contributo veloce veloce vi allego alcuni passaggi (ce ne sarebbero altri) tanto per iniziare le danze ...

Saluti proletari

Fulvio

Sono per il diritto all'ozio, ma non a oziare.



(...) La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili. (...)
Tratto da: Il Manifesto del Partito Comunista - Karl Marx e Friedrich Engels (1848)



Lavoro salariato e capitale Marx (1847)
(...) Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato? 
Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco al giorno dal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di lavoro o per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa. Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il borghese paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. 
Il borghese compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro. Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro, per esempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro, sono il prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro, dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia. 
Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro, con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro. Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro, contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo. 
Prendiamo un operaio qualsiasi, per esempio un tessitore. Il borghese gli fornisce il telaio e il filo. Il tessitore si pone al lavoro e il filo si fa tela. Il borghese s’impadronisce della tela e la vende, poniamo, a venti franchi. È il salario del tessitore una parte della tela, dei venti franchi, del prodotto del proprio lavoro? Niente affatto. Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro che egli ricaverà dalla tela, ma con denaro d’anticipo. Come il telaio e il filo non sono prodotti del tessitore, al quale vengono forniti dal borghese, così non lo sono le merci che egli riceve in cambio della sua merce, il lavoro. È possibile che il borghese non trovi nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del tessitore. Il capitalista compera con una parte del suo patrimonio preesistente, del suo capitale, il lavoro del tessitore, allo stesso modo che con un’altra parte del suo patrimonio ha comperato la materia prima, il filo, e lo strumento di lavoro, il telaio. Dopo aver fatto queste compere — e in queste compere è compreso il lavoro29 necessario per la produzione della tela — egli produce soltanto con materie prime e strumenti di lavoro che gli appartengono. Tra questi ultimi è naturalmente compreso anche il nostro bravo tessitore, che partecipa al prodotto o al prezzo di esso non più di quello che vi partecipi il telaio! 
Il salario non è, dunque, una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di lavoro produttivo. 
Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere. 
Il lavoro, è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato. 
Il lavoro non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con il suo lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma il lavoro non è merce sua. Il servo della gleba vende soltanto una parte del suo lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra. 
L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita del lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma alla borghesia, alla classe borghese; ed è affar suo disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe borghese un compratore. 
Prima di esaminare ora più da vicino il rapporto fra capitale e lavoro salariato, esporremo brevemente i fattori più generali che intervengono nella determinazione del salario. 
Come abbiamo visto, il salario è il prezzo di una merce determinata, del lavoro. Il salario è dunque determinato dalle stesse leggi che determinano il prezzo di qualsiasi altra merce.  (...)



da Marx-Engels, Opere Complete, 1845-1848, vol. 6, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp.. 360-377

Friedrich Engels

I principi del comunismo (1)


1. Domanda: Che cos'è il comunismo?
Risposta: Il comunismo è la dottrina delle condizioni della liberazione del proletariato.

2. Domanda: Che cos'è il proletariato?
Risposta: Il proletariato è quella classe della società che trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un capitale qualsiasi; quella classe il cui benessere e i cui guai, la cui vita e la cui morte, la cui intera esistenza dipendono dalla domanda di lavoro, cioè dall'alternarsi dei periodi d'affari buoni e cattivi, dalle oscillazioni d'una concorrenza sfrenata. Il proletariato o classe dei proletari è, in una parola, la classe lavoratrice del secolo decimonono.

3. Domanda: Non sempre, dunque, ci sono stati dei proletari?
Risposta: No. Ci sono sempre state classi povere e lavoratrici e le classi lavoratrici sono state per lo più povere. Ma non ci sono stati sempre dei poveri, dei lavoratori che vivessero nelle condizioni ora indicate, e dunque dei proletari, così come la concorrenza non è stata sempre libera e sfrenata.

4. Domanda: Com'è sorto il proletariato?
Risposta: Il proletariato è sorto in seguito alla rivoluzione industriale, avvenuta in Inghilterra nella seconda metà del secolo scorso e che da allora in poi si è ripetuta in tutti i paesi civili del mondo. Questa rivoluzione industriale venne provocata dall'invenzione della macchina a vapore, delle varie macchine tessili, del telaio meccanico e di tutta una serie di altri congegni meccanici. Queste macchine, che erano molto costose e quindi potevano essere acquistate solo da grandi capitalisti, trasformarono tutto il vecchio modo di produzione e soppiantarono i lavoratori di vecchio tipo, giacché le macchine fornivano le merci a più basso prezzo e migliori di quanto potessero produrle i lavoratori con i loro filatoi e telai imperfetti. Così quelle macchine diedero l'industria completamente in mano ai grandi capitalisti e tolsero ogni valore alla poca proprietà degli operai (strumenti di lavoro, telai, ecc.), cosicché i capitalisti ebbero ben presto tutto nelle loro mani ai lavoratori non rimase nulla. In tal modo fu introdotto il sistema di fabbrica nella industria tessile d'abbigliamento.

Una volta dato l'impulso iniziale all'introduzione delle macchine e del sistema di fabbrica, questo sistema fu applicato ben presto anche a tutte le altre branche dell'industria, specialmente alla stampa delle stoffe e alla tipografia, all'arte vasaria e all'industria della lavorazione dei metalli. Il lavoro venne diviso sempre più fra i singoli operai, cosicché l'operaio, che prima faceva un intero pezzo di lavoro, ora fece solo una parte di questo pezzo. Questa divisione del lavoro fece si che i prodotti potessero essere forniti più rapidamente e quindi a minor prezzo. Essa ridusse l'attività di ogni singolo operaio a un movimento meccanico semplicissimo, ripetuto ogni momento, che poteva essere compiuto non solo altrettanto bene ma anche molto meglio da una macchina.

In questo modo tutte quelle branche dell'industria caddero, una dopo l'altra, sotto il dominio della forza-vapore, delle macchine e del sistema di fabbrica, proprio come la filatura e la tessitura. Con questo, però, esse caddero allo stesso tempo completamente nelle mani dei grandi capitalisti, e ai lavoratori venne sottratto anche qui l'ultimo avanzo di autonomia. A poco a poco oltre la manifattura vera e propria anche l'artigianato cadde sempre più sotto il dominio del sistema di fabbrica, poiché i grandi capitalisti soppiantarono sempre più anche i piccoli maestri artigiani, impiantando grandi laboratori che permettono un risparmio su molte spese e danno altresì la possibilità di una grande divisione del lavoro.

Così oggi siamo arrivati al punto che nei paesi civili quasi tutte le branche di lavoro funzionano col sistema di fabbrica e in quasi tutte le branche di lavoro l'artigianato e la manifattura sono stati soppiantati dalla grande industria. A questo modo si è sempre più rovinato il vecchio ceto medio, specialmente i piccoli maestri artigiani, le condizioni dei lavoratori sono state del tutto sovvertite, e sono state create due classi nuove, che a poco a poco inghiottiscono tutte le altre, e cioè:
I. La classe dei grandi capitalisti, che in tutti i paesi civili già ora hanno il possesso quasi esclusivo di tutti i mezzi di sussistenza, nonché delle materie prime e degli strumenti (macchine, fabbriche) necessari per la produzione dei mezzi di sussistenza. Questa è la classe dei borghesi, o borghesia.
II. La classe di coloro che non hanno possesso alcuno, che sono costretti a vendere ai borghesi il proprio lavoro per averne in cambio i mezzi di sussistenza necessari per il loro sostentamento. Questa classe si chiama classe dei proletari, o proletariato.

5. Domanda: A quali condizioni si attua questa vendita del lavoro dei proletari ai borghesi?
Risposta: Il lavoro è una merce come tutte le altre e il suo prezzo viene quindi determinato proprio secondo le stesse leggi che determinano quello di ogni altra merce. Ma sotto il dominio della grande industria o della libera concorrenza — il che, come vedremo, è poi tutt'uno — il prezzo di una merce è in media sempre uguale ai costi di produzione della merce stessa. Anche il prezzo del lavoro, dunque, è uguale al costo di produzione della merce stessa. Ma il costo di produzione del lavoro consiste esattamente nella quantità di mezzi di sussistenza necessaria a mettere l'operaio in condizione di rimanere atto al lavoro e ad impedire l'estinzione della classe operaia.

L'operaio non riceverà dunque, per il suo lavoro, più di quanto sia necessario a questo scopo; il prezzo del lavoro o salario sarà dunque il minimo necessario per il suo sostentamento. Ma, siccome i periodi degli affari sono ora peggiori ora migliori, egli riceverà ora più ora meno, proprio come il fabbricante riceve ora più ora meno per la sua merce. Tuttavia, come il fabbricante, nella media dei periodi buoni e cattivi, non riceve per la sua merce né più né meno dei costi di produzione, così l'operaio in media non riceverà né più né meno di questo stesso minimo. Questa legge economica del salario, però, sarà attuata tanto più rigorosamente quanto più la grande industria s'impadronirà di tutte le branche del lavoro.

6. Domanda: Quali erano le classi lavoratrici prima della rivoluzione industriale?
Risposta: Le classi lavoratrici hanno vissuto in condizioni differenti e hanno avuto posizioni differenti di fronte alle classi possidenti e dominanti secondo i differenti gradi di sviluppo della società.
Nell'antichità coloro che lavoravano erano gli schiavi appartenenti ai proprietari, come avviene ancora oggi in molti paesi retrogradi e perfino nella parte meridionale degli Stati Uniti. Nel medioevo erano i servi della gleba appartenenti alla nobiltà proprietaria di terre, come avviene ancora oggi in Ungheria, Polonia e Russia. Inoltre, nel medioevo e fino alla rivoluzione industriale vi erano nelle città garzoni artigiani che lavoravano al servizio di maestri d'arte piccolo-borghesi, e a poco a poco sorsero, con lo sviluppo della manifattura, anche operai manifatturieri che venivano occupati da capitalisti di una certa entità.

7. Domanda: In che cosa il proletario si distingue dallo schiavo?
Risposta: Lo schiavo è venduto una volta per sempre; il proletario deve vendere se stesso giorno per giorno, ora per ora. Il singolo schiavo, proprietà di un solo padrone, ha l'esistenza — per miserabile che possa essere — assicurata dall'interesse di questo padrone; il singolo proletario, proprietà per così dire dell'intera classe dei borghesi, e il cui lavoro viene acquistato solo se qualcuno ne ha bisogno, non ha l'esistenza assicurata. Questa esistenza è assicurata soltanto alla classe dei proletari nel suo insieme. Lo schiavo si trova al di fuori della concorrenza; il proletario si trova nel suo mezzo e ne risente tutte le oscillazioni. Lo schiavo è considerato un oggetto, non un membro della società civile; il proletario è riconosciuto come persona, come membro della società civile. Lo schiavo può quindi avere un'esistenza migliore del proletario, ma il proletario appartiene a uno stadio superiore di sviluppo della società, e si trova egli stesso a un grado di sviluppo superiore a quello dello schiavo. Lo schiavo si emancipa abolendo, fra tutti i rapporti di proprietà privata, solo il rapporto della schiavitù e divenendo così, dapprima, egli stesso proletario; il proletario si può emancipare solo abolendo la proprietà privata in generale.

8. Domanda: In che cosa il proletario si distingue dal servo della gleba?
Risposta: Il servo della gleba ha il possesso e l'uso di uno strumento di produzione, di un appezzamento di terra, in cambio di parte del provento o di prestazioni di lavoro. Il proletario lavora con strumenti di produzione altrui, per conto altrui, e riceve in cambio parte del provento. Il servo della gleba dà, al proletario vien dato. Il servo della gleba ha l'esistenza assicurata, il proletario non l'ha. Il servo della gleba è al di fuori della concorrenza, il proletario vi si trova in mezzo. Il servo della gleba si emancipa o fuggendo nelle città per divenirvi artigiano, o dando denaro, invece che lavoro e prodotti, al proprietario del fondo e divenendo così libero fittavolo, o scacciando il signore feudale e diventando proprietario egli stesso, in breve, entrando in un modo o nell'altro nella classe possidente e nella concorrenza. Il proletario si emancipa eliminando la concorrenza, la proprietà privata e tutte le differenze di classe.

9. Domanda: In che cosa il proletariato si distingue dall'artigiano?
[Nel manoscritto di Engels è lasciata mezza pagina bianca per la risposta mancante]

10. Domanda: In che cosa il proletario si distingue dall'operaio manifatturiero?
Risposta: L'operaio manifatturiero, dal secolo decimosesto fino al secolo decimottavo, aveva ancora, quasi dappertutto, uno strumento di produzione in suo possesso: il suo telaio, i filatoi per la sua famiglia, un campicello che coltivava nelle ore libere. Il proletario non ha nulla di tutto questo. L'operaio manifatturiero vive quasi sempre in campagna, in rapporti più o meno patriarcali col proprietario del fondo o col datore di lavoro; il proletario vive per lo più in grandi città, e i suoi rapporti col datore di lavoro sono esclusivamente di denaro. L'operaio viene strappato dalla grande industria alle sue patriarcali condizioni di vita, perde quel poco che ancora possedeva e diviene così egli stesso proletario. (...)
Note
1) Questo testo, che costituisce un abbozzo di programma per la Lega dei comunisti, fu scritto da Engels alla fine di ottobre 1847 in sostituzione dell'«Abbozzo della professione di fede comunista» da lui stesso redatto all'inizio del giugno precedente. Engels, che considerava i «Principi» un semplice schema provvisorio di programma, nella sua lettera a Marx del 23-24 novembre 1847 si dichiarava convinto che fosse meglio abbandonare la vecchia forma di catechismo e stendere un programma sotto forma di «Manifesto comunista». Il secondo congresso della Lega dei comunisti (29 novembre - 8 dicembre 1847), al quale Marx ed Engels esposero i principi scientifici del programma del partito proletario, dette loro l'incarico di elaborare il manifesto. Nella stesura del «Manifesto del partito comunista» essi svolsero alcune delle tesi enunciate nei «Principi del comunismo».

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