[Redditolavoro] R: Recensione a MARX&SONS di Jacques Derrida

Emiliano Laurenzi emiliano_laurenzi at yahoo.it
Mon Dec 29 21:20:57 CET 2008


Scusate ma Joe Strummer era il leader dei Clash, il gruppo punk-rock inglese che aveva una precisa coscienza politica, mentre il leader dei Sex Pistols, Sid Vicious, a dispetto della canzone "Anarchy in the Uk" era obiettivamente qualcosa di molto meno politico.
Certo che iniziare un articolo che vuole fare della filosofia politica, svarionando così alla cazzo sui nomi,e per di più proprio da quelli con cui si vuole aprire il discorso.
Sid Vicious poveraccio era un drogato, morto di overdose, innovativo certo, ma vittima degi stereotipi del'industria culturale. In questo Sid Vicious, in quanto chiassosa alterità, era esatamente un "servo sciocco della realtà", capace solo di interpretarne le paure e la negazione.
el

--- Lun 29/12/08, clochard <spartacok at alice.it> ha scritto:

Da: clochard <spartacok at alice.it>
Oggetto: Recensione a MARX&SONS di Jacques Derrida
A: Undisclosed-Recipient at yahoo.com
Data: Lunedì 29 dicembre 2008, 00:41





MARX&SONS
 
 

L'immanenza spettrale di Jacques Derrida
 
 
 
Roberto Ciccarelli
Il futuro non è scritto. Probabilmente, Joe Strummer non ha mai conosciuto, né letto, Jacques Derrida, ma è indubbio che lo slogan più icastico, e filosofico, del punk-rock inglese, trovi risonanze profonde in Marx&Sons. Politica, spettralità, decostruzione (Mimesis, pp. 295, euro 22). Un libro che appare tardivamente in Italia, tradotto a quasi dieci anni dalla sua edizione inglese, ma che descrive con la stessa profeticità del leader dei Sex Pistols la tonalità fondamentale del nostro tempo. Questo cortocircuito popfilosofico non dovrebbe destare troppa sorpresa se all'elemento fantasmatico del futuro si attribuisse il giusto riconoscimento politico. 
Per Derrida, il futuro designa almeno due cose: in primo luogo, il rischio, per chi governa, di fronteggiare un evento imprevedibile, lo schianto delle previsioni statistiche in base alle quali commisurare il valore del presente, le regole delle istituzioni e dello sviluppo economico. In secondo luogo, questo futuro rivela una carica messianica che è tutto fuorché utopica: esso è il riferimento, nel presente, alla venuta dell'evento più concreto, e più reale, all'alterità più irriducibilmente eterogenea. Questa alterità è spesso confusa con la paura. Emerge di ora in ora, dentro e fuori le borse e le banche centrali di tutto il mondo alle prese con la terribile crisi finanziaria in corso e richiede un atteggiamento pragmatico per cauterizzare le ferite dei capitali e domare gli incubi dei risparmiatori. Ma se così fosse, l'alterità sarebbe solo il servo sciocco del presente, il costante invito ad adeguarsi a ciò che accade per evitare che la
 vita si scontri con il suo peggiore fantasma: l'idea della scarsità, della morte imminente, se non di un sistema, almeno del proprio menage familiare.
Derrida prospetta, invece, un «messianesimo senza Messia» in cui l'alterità è un evento irriducibile alla misura del nostro obliterato presente. Tale evento non è l'attesa della redenzione finale, la speranza cioè che l'ultimo giorno dell'umanità corrisponda all'avvento di un profeta, di una classe, della giustizia universale, ma è un futuro che si libera nella vita di ciascuno, ogni volta che si nasce, si prende la parola, si vive la propria storia. 
Il marxismo, esentato una volta per tutte dalla micidiale sanzione del socialismo reale è, ad avviso di Derrida, quanto di meglio può tradurre l'alterità in una politica di liberazione. Peccato, egli aggiunge, che pochi marxisti lo abbiano compreso, preferendo la maggioranza ridicolizzare gli alleati scomodi che rifiutano di raggiungerli nell'ortodossia del loro sonno dogmatico. Derrida intravvede in questo marxismo un problema filosofico che va ben oltre la sua statuarietà pietrificata. Che fare davanti al dilemma di un'eredità che trasmette ordini contraddittori, esprimendo da un lato la necessità storica di un'alternativa, e rifiutando dall'altro lato la sua incarnazione in un soggetto politico? C'è da restare sgomenti davanti a questa spettrale coesistenza di contrari. Il filosofo francese invita però ad ascoltare quanto di vero dice il fantasma di Marx che si rivolta contro i membri della propria famiglia, invitando i marxisti a liberarsi da
 ciò che amano, la genealogia dei padri, e ad essere figli responsabili di un'eredità che può vivere solo a condizione di essere reinventata. 
Non si tratta dunque di rimuovere le classi sociali nazionali o internazionali, le lotte politiche all'interno di uno stato-nazione, i problemi di nazionalità e di cittadinanza, la strategia dei partiti a favore di un cosmopolitismo ingenuo che relativizza le appartenenze e i conflitti, come molti hanno sostenuto dopo la lettura di Spettri di Marx nel 1993. Nel saggio conclusivo di Marx&Sons, Derrida sostiene che per «ripoliticizzare» l'eredità marxiana bisogna chiarire che oggi l'impegno politico dipende, in ogni istante, da una nuova valutazione della situazione singolare. 
Ciò che in realtà Derrida prospetta in questo passaggio è il superamento di uno dei fondamenti della cultura del Novecento: il legame tra l'ontologia e la politica, in altre parole l'idea che ad una decisione politica corrisponda l'esistenza di un soggetto universale, ontologicamente fondato su un'appartenenza generale o su un'identità universale, sempre uguale a se stesso e detentore di un universalismo capace di trasformare il mondo a misura della propria volontà. Così facendo, Derrida eleva il marxismo a principale destinatario della politica che ha rotto con ogni sanzione trascendente, anche quella che proviene dalla propria tradizione, e si trova riassorbita nel più vasto progetto di un'immanenza assoluta in cui ciascuno è parte della propria storia, non appendice dell'eredità altrui. 
Per ricamminare sulle proprie gambe, il marxismo dovrebbe dunque rompere ciò che Antonin Artaud ha definito il «periplo idiota» che lega i padri ai figli, e i fratelli ai fratelli, rendendosi protagonista di una filiazione orfana in cui il dovere del ricordo non deve sostituire l'esercizio del pensiero o l'esperienza della propria vita. La nostra eredità non è preceduta da nessun testamento, ha scritto il poeta René Char. Per questa ragione, il testo del futuro resta ancora da scrivere. 
 
 
 
 
 
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20081219/pagina/13/pezzo/237659/


      
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