[Redditolavoro] A gamba tesa: Sergio Bologna

clochard spartacok at alice.it
Wed Dec 17 00:30:54 CET 2008


Se non avete avuto la pazienza di andarci da voi...
Io l'copiato per poterlo archiviare.
Ciao!

e


A gamba tesa: Sergio Bologna
Toxic asset – toxic learning



di
Sergio Bologna

Nello spirito del ’68 – senza nostalgie nè tormentoni
(dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco 
Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008)
State vivendo un’esperienza eccezionale, l’esperienza di una crisi economica 
che nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai 
conosciuto. Un’esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, 
di cavarne insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, 
travolti. Non avete chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri 
docenti stessi la crisi precedente, quella del 1929, l’hanno studiata sui 
libri, come si studia la storia della Rivoluzione Francese o della Prima 
Guerra Mondiale.
Ho letto che l’Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede 
che nel 2009 un quarto dei lavoratori americani perderà il posto.
Qui da noi tira ancora un’aria da “tutto va ben, madama la marchesa”, si 
parla di recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 
dovrebbe già andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero 
che sia così, ma mi fido poco delle loro prognosi.
Torno da un congresso che si è svolto a Berlino dove c’erano i manager di 
punta di alcune delle maggior imprese multinazionali, con sedi in tutto il 
pianeta, gente che vive dentro la globalizzazione, che dovrebbe avere il 
polso dei mercati, gente che tratta con le grandi banche d’affari e con i 
governi. Mi aspettavo un po’ di chiarezza, qualche prognosi meditata. 
Balbettii, reticenze, sforzi per minimizzare, qualcuno che fa saltare la 
conferenza all’ultimo minuto perché richiamato d’urgenza. Pochissimi quelli 
che hanno parlato chiaro dicendo che la cosa è molto seria, che nessuno sa 
come andrà a finire e che le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.

Ma voi vi occupate – giustamente – dei tagli alla spesa universitaria e 
tutti vi applaudono, docenti in testa e politici d’opposizione e magari 
anche qualcuno della maggioranza, siete scesi in piazza autonomamente e 
tutto sommato tira un’aria di consenso attorno a voi. Non era così nel ’68, 
forse perché allora un po’ di violenza c’era, in parte provocata dal 
comportamento dello stato o delle forze dell’ordine. Ma quel che di buono c’era 
allora, di eccezionale, era la grande voglia di capire il mondo che avevano 
gli studenti. In Francia erano partiti dalle tasse universitarie, dal 
discorso della riforma degli studi ma tutto sommato quel che volevano era 
molto di più, volevano darsi gli strumenti per cambiare le cose, volevano 
capire cosa succedeva nei paesi comunisti, o nell’America Latina dove sei 
mesi prima Che Guevara ci aveva lasciato la pelle, volevano capire a cosa 
portava la politica di Piano del governo gollista, che cos’era un sindacato 
operaio, volevano vedere come funzionava una fabbrica e come parlavano gli 
operai dentro, come funzionava un ospedale e come venivano trattati i 
malati. E’ questa grande voglia di sapere, questa sconfinata ambizione di 
sapere, questa utopica sfida alle capacità della propria conoscenza, che io 
non vedo tra di voi. O, meglio, che all’esterno non si vede, non si 
percepisce.
Volete salvare l’Università, così com’è? Spero di no. Com’è oggi non vale 
una messa, come si dice. Oggi si taglia malamente, d’accordo, ma ieri si è 
speso peggio e tutti i governi ci hanno messo del suo. L’Università si è 
allargata come un virus, qualunque cittadina con un sindaco un po’ dinamico 
riusciva ad avere il suo pezzetto d’Università. L’Università come retail. 
Alla qualità della spesa nessuno ha pensato e ben presto è nato il sospetto 
che questo meccanismo dilatatorio non fosse – come ci raccontavano – animato 
dalla nobile intenzione di fare della conoscenza una merce a portata di mano 
ma dal meschino proposito di creare cattedre con il loro corollario di posti 
precari e malpagati. Se non temessi d’essere frainteso vi direi: “La 
difendano loro questa Università, i professori”. Voi che c’entrate? Avete 
mai avuto modo di partecipare sia pure alla lontana alle decisioni che sono 
state alla base della configurazione dell’Università com’è oggi? Finora, con 
le vostre tasse avete pagato un servizio sulla cui qualità ed efficienza non 
esistono parametri di valutazione di cui possiate disporre per chiederne il 
miglioramento. “Mangia questa minestra o salta da quella finestra”. E quasi 
uno studente su due salta, il tasso di abbandono nell’Università italiana – 
leggo sul sito www.lavoce.info – è vicino al 50%. E chi inizia gli studi e 
li abbandona sapete bene che è un soggetto ad alto rischio di 
disadattamento. Una volta, quando la lingua italiana aveva ancora un tono 
popolare, si diceva “E’ uno spostato”.
“Gli studenti italiani potrebbero fare causa a metà degli atenei italiani 
per i servizi che offrono”, scrive Roberto Perotti, nel libro L’Università 
truccata (Einaudi, Torino 2008) – un libro che spero tutti voi abbiate 
almeno scorso. A leggerne le prime 90 pagine vien da pensare che qualche 
abbandono può essere stato provocato dallo schifo di fronte a certe 
situazioni di nepotismo e di corruzione. Un libro che sfata alcuni miti, che 
combatte alcuni luoghi comuni, come quello delle scarse risorse dedicate in 
Italia all’Università. Sono scarse se si calcola l’ammontare della spèsa 
diviso per il numero di studenti iscritti ma se invece si assume come 
parametro non il numero degli iscritti ma di quelli che frequentano 
veramente a tempo pieno, l’Italia sarebbe ai primi posti nel mondo.
Ma molti di voi potrebbero dirmi che la lotta contro i tagli al budget 
universitario è solo un veicolo per esprimere a livello di massa e con 
facile consenso opposizione al governo Berlusconi. Dunque non di bassa 
cucina si tratterebbe, non di volgari valori economici, ma di alta politica. 
E come nel ’68 gli studenti francesi avevano lottato in definitiva contro il 
Generale De Gaulle, così quarant’anni dopo gli studenti italiani 
lotterebbero contro il Cavaliere Berlusconi. (Per inciso debbo dire che mai 
due si sono assomigliati di meno, il Cavaliere anche coi tacchi rinforzati 
non sarebbe arrivato alla cintola del Generale, l’uno alto alto, rigido e 
solenne come una statua di cera, l’altro piuttosto basso e tarchiato, 
gesticolante a dentiera scoperta). Ma se questa è l’alta politica che vi 
spinge all’azione mi sentirei in tutta franchezza di dirvi “scegliete un 
percorso diverso” perché altrimenti rischiate di farvi usare come carne da 
macello da coloro che condividono con la Destra il pensiero strategico 
sottostante alle scelte economiche della Seconda Repubblica e dunque sono 
sostanzialmente corresponsabili della crisi attuale e delle sue conseguenze 
future. Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della 
signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né 
voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema 
finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a 
un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive 
del proprio lavoro. Un sistema che è stato capace di creare ricchezza 
fittizia e di distruggere ricchezza reale in misura mai vista nella storia 
recente. Un sistema la cui follìa era già evidente a tutti almeno dallo 
scoppio della bolla del 2001, un sistema che premiava i manager che 
gestivano le imprese non per farle crescere ma per farle dimagrire, 
aumentandone il valore di borsa a furia di licenziamenti del personale, per 
rivenderle e intascare fior di premi e plusvalenze. Un sistema che in nome 
dell’efficienza e della competitività distruggeva soprattutto le competenze, 
il capitale umano (quando si licenzia per diminuire l’incidenza dei salari 
si comincia dalle posizioni meglio retribuite, cioè dagli impiegati e 
tecnici più anziani e con maggiore esperienza). Un sistema che ha riprodotto 
nella società le abissali differenze di reddito esistenti nelle grandi 
aziende (manifatturiere o di servizi che siano) e che quindi ha ridotto l’Italia 
in un paese con i maggiori squilibri tra la parte più ricca e quella meno 
ricca della popolazione, come ben testimonia l’indagine Bankitalia sulle 
famiglie italiane. Un sistema che ha consentito
“a chi lavorava nella finanza di guadagnare già nel 2000 il 60 per cento in 
più rispetto agli altri settori” – scrive Esther Duflo, che insegna al MIT 
di Boston - e aggiunge:
“Il problema delle remunerazioni è stato ovviamente affrontato negli Stati 
Uniti quando si è discusso il piano Paulson, che autorizza il governo 
americano a spendere 700 miliardi di dollari per acquistare i toxic asset 
rifiutati dai mercati. Sembra ingiusto far pagare ai contribuenti il 
disastro creato da coloro che in un’ora guadagnavano 17mila dollari”,
e conclude il suo intervento con queste parole:
“Osservando gli avvenimenti di questi giorni vien voglia di mandare a casa 
certi nostri amministratori delegati del settore finanziario. Speriamo 
almeno che la fine dei guadagni esorbitanti incoraggi i giovani a dedicarsi 
ad altri settori dove i loro talenti potrebbero essere più utili alla 
società. La crisi finanziaria potrebbe farci cadere in una recessione grave 
e prolungata. L’unico vantaggio potrebbe appunto essere quello di un 
migliore impiego dei nostri giovani più dotati”.
Le elezioni americane, portando alla presidenza Barack Obama, sono state una 
bella reazione a questa insopportabile situazione e fareste bene a 
riflettere in seminari di autoformazione su quel che è accaduto negli Stati 
Uniti. Tutta la stampa e l’opinione corrente è unanime nel dire: “E’ 
accaduto un fatto nuovo perché è stato eletto un nero, un afroamericano”. 
Soliti giudizi superficiali, da semianalfabeti della politica. Queste 
elezioni sono state importanti perché dopo circa 30 anni – dai tempi di 
Reagan – la tematica di classe è stata al centro del dibattito. Non del 
proletariato, ma della middle class (di cui fanno parte anche strati operai 
di grande fabbrica), cioè di quel ceto medio che per più di un secolo ha 
fatto da collante alla credibilità dell’american dream e che da alcuni 
anni – proprio in conseguenza dei processi scatenati da una forma di 
capitalismo senza regole e senza etica, un capitalismo di avventurieri e di 
giocatori d’azzardo – ha subìto un processo d’impoverimento che non trova 
paragoni se non nella grande crisi del 1929. Contro questa tendenza alla 
disgregazione sociale e all’impoverimento della middle class hanno 
cominciato a battersi da alcuni anni molte iniziative civiche (tra le tante 
quella messa in piedi dalla nota giornalista e scrittrice Barbara Ehrenreich 
con il sito www.unitedprofessionals.org). Barack Obama ha colto questo 
disagio, questo malessere, e ne ha fatto il suo tema dominante. Non ha 
parlato, come ormai ci hanno abituato questi bolsi, stucchevoli, 
“politicamente corretti” leader della cosiddetta Sinistra, di “quote rosa”, 
di gay, non ha parlato di bianchi e di neri, di aiuole pulite e di 
biciclette, è andato al sodo, ha puntato il dito sui disastri del 
neoliberalismo selvaggio, ha fatto per la prima volta dopo 30 anni un 
discorso di classe. E ha vinto riuscendo a portare alle urne anche i 
giovani, che al 70% hanno votato per lui. Ha colto la grande tendenza dell’epoca, 
quella che da tempo cerco di chiarire a me stesso ed agli altri nei miei 
scritti sul lavoro (l’ultimo mio libro si intitolava “Ceti medi senza 
futuro?” e non se l’è filato nessuno).
Sono convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi 
stessi e agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di 
pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto 
quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi 
ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati 
né da Destra né da Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. “Un 
sistema che si autoregola, per questo esistono le Authorities” - recitava la 
litania liberista in questi anni. Balle! Basterà dire che lo scandalo Enron, 
che spesso viene portato ad esempio della severità con cui il sistema USA 
punisce le aziende dal comportamento irregolare, non sarebbe mai scoppiato 
se una donna che era membro del Consiglio di Amministrazione non avesse 
deciso di “cantare”, di svelare gli imbrogli. Una “gola profonda” è stata 
all’origine di tutto, non certo l’FBI! Negli anni della forsennata 
privatizzazione (1992/93) con cui l’Italia ha messo nelle mani di nuovi 
raider della finanza immensi patrimoni pubblici (leggetevi a questo 
proposito il libro di Giorgio Ragazzi I signori delle autostrade, Il Mulino, 
Bologna 2008 – ma lo stesso se non peggio potrebbe dirsi di Telecom), 
suggellando il suo “golpe bianco” con l’accordo sindacale del luglio 1993 
grazie al quale oggi abbiamo i salari d’ingresso più bassi d’Europa, non 
erano certo personaggi della nuova Destra a menare la danza ma uomini come 
Romano Prodi ed altri ex manager pubblici. A beneficiarne sono stati i 
Tronchetti Provera, i Benetton, i Colaninno, i Gavio – li ritroviamo tutti 
guarda caso oggi nella vicenda Alitalia. L’Università di Siena ha la 
reputazione di essere un centro di eccellenza nelle discipline economiche e 
bancarie. Vi hanno mai parlato di queste storie e come ve ne hanno parlato? 
E della crisi odierna che vi dicono? Che è una solita crisi ciclica, forse 
un po’ più acuta ma in sostanza è tutto normale, razionale, un po’ di 
eccessi magari ci sono stati ma il sistema è saldo, è sano. Questo vi 
dicono? Non vi dicono che questo sistema, questi meccanismi, creano, 
stabilizzano, consolidano le disuguaglianze sociali, le ingiustizie sociali? 
Non vi dicono che questo sistema umilia, calpesta le competenze, il capitale 
umano? Che è l’esatto contrario della knowledge economy di cui si riempiono 
la bocca, l’esatto contrario di un sistema meritocratico? E se non ve le 
dicono queste cose, se continuano a raccontarvi le solite favole di 
Cappuccetto Rosso, se continuano a farvi flebo d’ideologia liberista – 
allora mandateli loro a protestare nelle piazze per i tagli all’Università.
Questa vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto 
costitutivo di un processo di autoformazione.
Quel che è avvenuto in questi mesi non è mai accaduto nell’ultimo secolo e 
cioè che istituzioni e persone le quali hanno prodotto danni incalcolabili 
(pensate soltanto ai fondi pensione che si sono volatilizzati con questa 
crisi!) invece di essere punite ed i loro beni sequestrati, sono state 
salvate senza che lo stato, che ha fornito i mezzi per salvarle, assumesse 
il controllo di queste istituzioni. Un regalo di enormi proporzioni agli 
avventurieri, ai ladri, una terribile lezione morale per le nuove 
generazioni. (Non che la gestione pubblica sarebbe stata migliore, in 
Germania le peggiori nefandezze le hanno commesse alcune banche pubbliche 
come la Landesbank della Baviera).
C’è stato qualcuno che vi ha chiamato in piazza per opporvi a questa 
vergogna?
Ma ha ragione in un certo senso anche chi dice: “che cosa si poteva fare d’altro?” 
Nessuno infatti ha saputo o voluto in questi anni immaginare una società 
diversa che non fosse un’utopia. Alternative globali nessuna, solo strategie 
di sopravvivenza. Ed è sostanzialmente questo che vi propongo anch’io: 
costruendo percorsi comuni di autoformazione costruite anche delle reti, vi 
liberate pian piano dalla costrizione all’isolamento, dall’individualismo e 
soprattutto dall’illusione che “una buona preparazione universitaria”, 
corredata magari da qualche corso o master post laurea, possa mettervi al 
riparo dalla crisi, dalla sottoccupazione o dall’umiliazione di vedervi 
trattati dal datore di lavoro come un puro costo.
In un paese dove i salari d’ingresso, quelli dei primi assunti, sono i più 
bassi d’Europa, la preparazione conta assai poco. I precari, i lavoratori a 
tempo determinato, hanno delle remunerazione parametrate su quelle dei primi 
assunti. Dunque anche loro sono pagati peggio che altrove. E le vostre 
generazioni rischiano di andare avanti con lavoretti precari fino ai 40 
anni. Pertanto è pura demagogia quella di coloro che parlano di 
democratizzazione degli accessi, che difendono di questa università il fatto 
che possono iscriversi anche i figli di famiglie povere. Il problema non è 
la massificazione della popolazione studentesca ma il fatto che il capitale 
umano di un laureato non vale una cicca sul mercato del lavoro! O i giovani 
riacquistano un minimo di forza contrattuale sul mercato del lavoro oppure l’università 
sarà solo un frigorifero di disoccupati, un osceno apparato di puro 
controllo sociale. Pesanti le responsabilità sindacali per questa 
situazione. Miope e meschina la strategia del padronato italiano da vent’anni 
a questa parte. Squallido il mondo dell’informazione che su questa realtà 
tace o si sofferma di sfuggita. Quarant’anni fa gli studenti sono andati 
nelle fabbriche, negli uffici, nei laboratori di ricerca, negli ospedali, 
nelle aule dei tribunali, nelle redazioni dei giornali a vedere come 
funziona il mondo reale, non si sono accontentati di lasciarselo raccontare, 
non hanno fatto visite guidate. Ficcatevi nei processi reali ovunque se ne 
presenti l’occasione! Usate la grande risorsa del web per procurarvi le 
notizie alla fonte, per attingere a visioni critiche del mondo, anche se 
questo esercizio talvolta vi costringe a rovistare nella spazzatura di 
Internet. Gli Stati occidentali che hanno smantellato i sistemi di welfare 
si sono ridotti a ingoiare toxic asset, voi cercate di non inghiottire toxic 
learning! Avrete già fatto un passo in avanti per vivere meglio.
Organizzate incontri con quelli che hanno alcuni anni più di voi, fatevi 
raccontare come vengono accolti dal mondo del lavoro, quando escono dall’Università. 
Frequentate i blog dove la gente racconta le proprie esperienze di lavoro, 
chiedetevi seriamente se val la pena di studiare in un’Università com’è 
fatta oggi oppure se non sia meglio costruire processi di autoformazione e 
di controinformazione. Scatenate la fantasia nel creare un’estetica della 
protesta, efficace, aggressiva, non ripetitiva, le forme della comunicazione 
sono state uno degli strumenti vincenti delle lotte del proletariato nel 
Novecento, ripercorrete le spettacolari performances degli occasionali dello 
spettacolo francesi che hanno tenuto duro per un paio d’anni, buttate nella 
spazzatura vecchi slogan, scanditi stancamente, parole d’ordine che sono 
ormai diventate banalità che fanno venire il latte alle ginocchia. Ai vostri 
colleghi che affollano le facoltà di comunicazione non viene nulla in testa?
Ho insegnato all’Università per quasi vent’anni, quando mi hanno cacciato 
non ho fatto nulla per restare, per difendere la mia cattedra, gli ultimi 
due anni d’insegnamento li ho passati all’Università di Brema, ormai un 
quarto di secolo fa. Ci sono tornato in questi giorni perché un mio collega 
di allora prendeva congedo definitivo dall’insegnamento e andava in pensione 
un anno prima del termine previsto dalla legge in Germania. Aveva 
rinunciato, com’è d’uso, alla lectio magistralis. E nelle poche parole di 
congedo davanti a un centinaio di amici e colleghi ha voluto dire perché se 
ne andava in anticipo. “ho fatto il Preside di Facoltà in questi ultimi 
cinque anni, mi ci sono dedicato completamente, pensando di fare il mio 
dovere, non ho avuto tempo né di studiare né di tenermi aggiornato, non me 
la sento di tornare a insegnare per dire le stesse cose di cinque anni fa, 
non me la sento per onestà verso gli studenti”. Quanti docenti italiani 
farebbero lo stesso? Questi fanno i Ministri e poi tornano tranquillamente a 
insegnare, specialmente se vengono da governi di centro-sinistra. Malgrado l’Università 
italiana sia un luogo da cui sono contento di essermene andato, sia un luogo 
che umilia le intelligenze invece di stimolarle, credo che siano ancora 
tanti i docenti e molti i ricercatori con i quali voi potete stabilire un 
patto di formazione negoziata. Le dinamiche di coalizione che si creano 
durante un processo rivendicativo, durante una protesta che chiede la 
restituzione di qualcosa – come la maggior parte delle proteste che nascono 
da situazioni difensive e non da un’iniziativa preventiva – sono molto 
fragili e rischiano d’impoverirsi e irrigidirsi, troppo focalizzate sull’obbiettivo. 
Pertanto occorre pensare ad attivare processi di continuità, svincolati dall’obbiettivo. 
Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non 
cambia. E’ questa condizione che dovete cambiare.



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