[Redditolavoro] I: SIAMO UNA CLASSE,
O NULLA - LE CRISI LE CREANO I PADRONI. CHE LE
PAGHINO LORO (sciopero del 12)
gianfranco
ombre.rosse at tin.it
Thu Dec 11 21:26:30 CET 2008
SIAMO UNA CLASSE, O NULLA - LE CRISI LE CREANO I PADRONI. CHE LE PAGHINO LORO
5 anni fa, per un vecchio numero di Primomaggio, usammo il titolo “Sono i padroni che creano le crisi. Che le paghino loro”. L’articolo, che allora si riferiva ad alcune situazioni territoriali, si concludeva con un appello alla costruzione di un tavolo di confronto permanente tra i lavoratori per respingere il tentativo di scaricare sulle loro spalle gli effetti di politiche industriali ed economiche fallimentari. Oggi, a 5 anni di distanza, nuove mobilitazioni si sviluppano con la parola d’ordine “non paghiamo la vostra crisi”.
L’esplosione della bolla finanziaria che a settembre ha portato al collasso una serie di istituti finanziari (assicurazioni, banche d’investimento, banche commerciali, gestori di mutui…) americani - e non solo - è al tempo stesso l’effetto di una crisi dell’accumulazione capitalistica (quella che sui giornali viene chiamata “crisi dell’economia reale”) e la causa di un suo ulteriore aggravamento.
Capitalisticamente parlando, la finanza “funziona” quando funziona la produzione di ricchezza reale. Non ci può essere creazione dal nulla di valore (e di denaro, che dovrebbe rappresentare questo valore). Quando un paese stampa moneta a proprio piacimento (e dopo la nascita dell’euro neppure gli USA possono più farlo liberamente) quello che ottiene è solo di diminuire il valore di questa moneta ovvero di aumentare il tasso di inflazione. Quando la speculazione arriva ad un certo punto avviene il crack e l’economia fittizia deve riallinearsi a quella reale.
Se le fabbriche e gli uffici chiudono per essere de-localizzati in paesi in cui il costo della forza-lavoro è inferiore, se il potere d’acquisto dei salari continua a diminuire costantemente, se il lavoro è sempre più precario, se i consumi diminuiscono… è chiaro che anche la “roulette russa” della finanza, prima o poi, è destinata ad esplodere il suo colpo.
Ma per chi rischia di essere fatale questo colpo? Per chi in questi anni ha lucrato, sfruttato, speculato? No di certo; ai manager si offrono liquidazioni di centinaia di milioni di dollari; alle banche e alle imprese in via di fallimento si erogano finanziamenti statali per centinaia di miliardi di dollari (“viva il libero mercato quando c’è da guadagnare e sfruttare, viva lo Stato quando c’è da pagare il conto e mettere una pezza per evitare il tracollo”). Invece, per i lavoratori italiani che hanno visto azzerare i milioni di euro di azioni Lehman (e non solo) presenti nei “portafogli” dei loro fondi pensione integrativi (come Cometa) si preparano cassa integrazione, riduzione del salario, licenziamenti, disoccupazione.
Nel 2007, quando tutto il sistema politico-sindacale di regime (dal PRC ad AN, dalla CGIL all’UGL) permetteva che i lavoratori fossero sottoposti alla truffa del silenzio-assenso per lo scippo del TFR verso i Fondi Pensione Integrativi, noi dicevamo che non si poteva affidare il proprio futuro alla borsa.
Oggi, quanti sono i lavoratori che farebbero volentieri marcia indietro e non possono farlo perché la legge prevede che la destinazione del TFR ai FPI sia irreversibile? Avevamo ragione noi. E i partiti e i sindacati di regime sbagliavano o mentivano, si scelga pure, ma il risultato non cambia perché in ogni caso, di imbroglioni o di imbecilli, i lavoratori che se ne fanno?
In questi 30 anni i padroni si sono arricchiti e i lavoratori si sono impoveriti. Lo dice anche l’OCSE - che non è certo un organismo sindacale - nel suo recente rapporto 2008 (OECD, Growing unequal?). Ora che la situazione rischia di precipitare i padroni riceveranno aiuti dalle casse dello Stato (cioè dai lavoratori salariati che pagano le tasse) mentre molti lavoratori cominceranno ad assaggiare la fame sul serio.
Ma siamo solo all’inizio. I dati sul ricorso agli ammortizzatori sociali (CIGO, CIGS, mobilità) di settembre (prima del crack di Wall Street) evidenziano un’impennata del 70%. E nel 2007 si è avuto un +65,2% di ore di sciopero rispetto all’anno precedente (nel 2008 +62,3% di ore rispetto allo stesso periodo del 2007, gennaio-agosto) il che significa che i conflitti aumentano e che l’attacco ai lavoratori è già in corso da tempo. Sono i dati ISTAT relativi alla fase precedente allo scoppio della crisi finanziaria. Chissà cosa verrà fuori quando arriveranno i dati dei mesi successivi a settembre. Già si parla di previsioni di aumento del 250% nel ricorso alla CIG e di centinaia di imprese sull’orlo della chiusura.
Certo, i padroni enfatizzano la crisi per avere più finanziamenti statali a fondo perso e per costringere i lavoratori ad accettare aumenti di produttività e riduzioni del salario globale (andava in questo senso anche la “trattativa” sull’affossamento del Contratto Nazionale di Lavoro che oggi si muove sui binari dei rinnovi contrattuali di categoria - pubblico impiego, commercio… - e che la CGIL è stata costretta ad abbandonare per non dover rischiare la sollevazione interna degli iscritti).
Ma la crisi c’è e - se è per questo - c’è da molto prima del crollo di Wall Street di settembre che semmai è solo un nuovo passaggio di un “percorso accidentato” i cui momenti salienti sono stati il “black monday” del 1987, i tracolli del Sud-Est asiatico, della Russia e del Brasile della fine anni ’90, i crolli di Enron, Worldcom e dell’Argentina nel 2000, l’esplosione della bolla della “new economy” e delle “dot.com” nel 2001, ecc…
Ma davvero qualcuno pensava che le guerre fatte (Afghanistan, Iraq) o minacciate (Iran) o le missioni umanitarie a cui partecipa(va) anche l’Italia avessero come motivazione la difesa dei diritti umani e l’esportazione della “democrazia”? Ma quale, quella “a stelle e strisce” nata dallo sterminio di milioni di nativi americani e dalla schiavizzazione di milioni di africani? La democrazia delle bombe atomiche, del sostegno alle dittature in America Latina, di Guantanamo, di Abu Ghreib? Non scherziamo.
Per un paese come l’Italia, dove prevalgono le piccole e medie imprese (e il “piccolo taglio” di quelle grandi) che cercano di mantenersi “competitive” spremendo anche il sangue dai lavoratori italiani e, soprattutto, immigrati, i margini di resistenza alla crisi sono sempre più limitati e si potrebbe assistere ad una trasformazione “di scala” poderosa del sistema industriale italiano (fallimenti, fusioni, acquisizioni).
Vedremo. Quello che è chiaro è che i governi dei paesi capitalistici salvano le proprie banche e le proprie imprese dal fallimento con l’appoggio delle opposizioni e dei sindacati compiacenti (bisogna “unirsi per superare la crisi” e che diamine !) e, ovviamente, con i soldi dei lavoratori.
Ma è davvero una novità? No di certo, se - tanto per fare un esempio recente - il “governo amico” appoggiato dalla combriccola Prodi-Bertinotti-Ferrero-Padoa Schioppa-Fassino-Mastella-D’Alema-Pecoraro-Diliberto-Dini… aveva realizzato, con la riduzione del “cuneo fiscale”, un bel regalo di 6 miliardi di euro all’anno ad imprese che facevano da anni notevoli profitti grazie alla riduzione costante del costo del lavoro, alle de-localizzazioni e alle esternalizzazioni (aiutate da contro-riforme del lavoro come quella di Treu del 1997, non a caso appoggiate dagli stessi partiti che sostenevano il “Prodi versione 2007”).
Ma questa volta anche i poveri avranno qualcosa e cioè una bella “tessera del pane” da 40 euro al mese che costerà allo Stato complessivamente qualche milione di euro a fronte delle decine di miliardi che si andranno ad elargire alle imprese. Perbacco, questa sì che è giustizia! Verrebbe da dire: becchi e bastonati.
I lavoratori, intanto, sempre lì a pagare tessere sindacali e a votare partiti/governi “amici”.
Non sarà venuta l’ora di darci un taglio con pagare e votare, votare e pagare? Quando cominceremo a riprendere nelle nostre mani il nostro destino senza più delegarlo a partiti e sindacati che in questi decenni hanno dimostrato, come meglio non si poteva, da che parte stavano?
Ora che la crisi - peraltro già in atto da molti anni - si approfondisce, ora che migliaia di posti di lavoro verranno spazzati via, non è arrivata l’ora di fermarsi a riflettere e pensare come costruire una nuova forza sociale di lavoratori, indipendente dai partiti e dai sindacati di regime?
Non è arrivato il momento di mettere in discussione, non qualche padrone, ma tutti i padroni ovvero le fondamenta stesse della società capitalistica entro cui viviamo che per i lavoratori significa solo sfruttamento, morte e infortuni sui posti di lavoro, miseria crescente nel mondo (come evidenzia il rapporto di dicembre della FAO che parla di un miliardo di persone che fanno la fame mentre manipoli sempre più ristretti di potenti accaparrano tutte le ricchezze)?
Noi pensiamo che questo momento sia proprio arrivato.
In questi decenni i lavoratori hanno dovuto leccarsi le ferite di una profonda sconfitta. Ma ora basta. Che siano i padroni a cominciare a leccare le loro, di ferite, quelle che saremo noi ad infliggere.
Non è con lo stupido egoismo, con il “tirare a campare” o, peggio ancora, con il razzismo dell’ignoranza e della disperazione contro gli immigrati che i lavoratori faranno passi in avanti. Anzi, ne faranno mille indietro perché la prima regola di chi vuol comandare è “divide et impera”; dividi i tuoi nemici per poterli poi controllare più agevolmente. Italiani contro immigrati, “garantiti” contro precari, nord contro sud, statali contro privati… tutte le differenze vengono trasformate in contrasti per poterci dividere e sfruttare meglio. No, noi dobbiamo unire quello che il padrone cerca ogni giorni di dividere perché la nostra divisione è la nostra debolezza, la nostra morte sociale e in molti casi, anche materiale.
Certo, la crisi può essere una grande occasione per il padronato per prelevare altra ricchezza dalle nostre tasche; ma può essere anche la nostra occasione per rialzare la testa e riconquistare con la lotta il diritto a decidere del nostro futuro e quelli dei nostri figli. Come potremo guardarli negli occhi, questi figli, e dire loro che non abbiamo avuto neppure il coraggio di lottare?
Non andremo a testa china, con il cappello in mano, ad elemosinare qualche “ammortizzatore”. E quando accetteremo lavori duri, malpagati, precari, terremo comunque sempre ben alta la testa perché noi siamo una classe che, come avrebbe detto un vecchio compagno, a dare un calcio nel culo al capitalismo e ai capitalisti non ha nulla da perdere se non le proprie catene.
Sono i padroni che hanno tutto da perdere. Loro senza di noi non possono vivere; noi senza di loro e senza i loro servitori politici e sindacali, semplicemente, vivremmo - e vivremo - meglio.
Dicembre 2008
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