[Redditolavoro] Ritorno alla Thyssen tra i fantasmi della Linea 5

clochard spartacok at alice.it
Sat Dec 6 01:52:01 CET 2008



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To: spartacok at alice.it 
Sent: Saturday, December 06, 2008 12:53 AM
Subject: h.0.53 del 6 dic. 2007 Anniversario con allegato...




Lo stabilimento oggi è immerso nelle tenebre, c'è solo qualche neon acceso negli uffici
Sul muro di cinta coesistono scritte anarchiche e teneri ricordi di chi non c'è più 

Ritorno alla Thyssen 
tra i fantasmi della Linea 5 


di MAURIZIO CROSETTI La Repubblica.it
TORINO - Il buio è circondato da seicento metri di muro, e più nessuna insegna. Là sopra, sul tetto lungo e piatto stava scritto ThyssenKrupp Acciai Speciali: adesso niente, la fabbrica dei tedeschi non si chiama più. I girasoli attaccati al lampione in una specie di antico funerale sono secchi, e nel vento penzolano brandelli di scotch. Silenzio profondo. Poi, improvviso, il rombo dei camion. Qui tutto appare due volte morto: 6 dicembre 2007, il fuoco, un anno fa. E adesso, e domani. 

La grande magnolia col tronco annerito era un monumento ai caduti, proprio davanti all'ingresso della fabbrica color ruggine. Forse un altare, o un grido nel vuoto. Sulla corteccia è rimasto il cartellone con le sette fotografie, Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario, Giuseppe, poi un drappo rosso che il tempo ha scolorito. A terra, i resti di qualcosa che fu un fiore. Arriva una guardia. "Via, qui non si può stare". Ma come? Neanche per guardare un albero? "Non si può più, per favore, via". Pietro Russo è rimasto lì dentro fino a qualche giorno fa. Ex impiegato tecnico ora cassintegrato. 

E' stato tra gli ultimi ad abbandonare le navate alte dieci metri e lunghe trecento. Uno degli ultimi, anche, a poter raccontare cos'è oggi la "linea 5", quella dove l'aria prese fuoco ingoiando persone. "Ci sono i sigilli dei giudici tutto attorno ai macchinari, rimasti esattamente come quella sera - spiega - Hanno spento le luci, non si vede quasi niente. Lì dentro il sole non entrava mai. E intorno ci sono le fosse, ovviamente in sicurezza, gli enormi buchi delle macchine smontate e portate a Terni, nell'altro stabilimento Thyssen". 

Bisogna immaginare un interminabile corridoio, racconta Pietro, con una specie di vagone accanto: il forno. Rossi i pavimenti e i piloni, gialli i tubi e le ringhiere. Nero tutto il resto. Il buio è un calamaio, un pozzo sfregiato dall'inferno più o meno a metà strada, 150 metri oltre l'inizio dei sigilli rossi e bianchi. Manca poco all'una di notte. Il nastro d'acciaio scorre, sbanda, scintilla, olio e carta innescano la bomba, scoppia un flessibile pieno d'olio, l'onda è una bocca rossa che divora ogni vita. "Si vedono ancora le strisce di olio bruciato, uscito dalla macchina e subito incendiatosi". Gli acidi, i gas, l'elettricità. L'apocalisse. Dopo un anno, è come guardare dentro il motore di un'immensa auto carbonizzata: tubi, manicotti, cilindri, bulloni, dischi, tutto però cristallizzato da una specie di morte nera. Per salvarsi, ed era impossibile, si sarebbero dovuti attraversare almeno quindici metri compatti di fiamme. 


Il fumo ha disegnato per sempre i contorni della strage, anche se i padroni avrebbero voluto portare via tutto, smontare e rimontare altrove, rimuovere, dimenticare. Lo ha impedito l'inchiesta. "Ma io ricordo che il mattino dopo il disastro, i tedeschi volevano ripartire con la produzione" dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese. "Non fu facile impedirlo". Cosa resta dopo un anno? "La ferita della domanda: si poteva evitare? Io dico di sì. La sconfitta sindacale, perché la fabbrica adesso è chiusa. E la conferma della generale svalutazione del lavoro operaio, se le merci diventano più importanti delle persone". 

Qualche pallido neon illumina le palazzine degli impiegati, in un lucore da camera mortuaria. Invece la fabbrica è totalmente buia. Nell'immensa navata - nell'area delle vecchie Ferriere lavoravano 13 mila persone negli anni Ottanta, e adesso zero - si aprono gli abissi della dismissione. Le squadre delle aziende che montarono gli impianti, come la tedesca Demag, sono venute a smontare, pezzo per pezzo, il corpo di una fabbrica e la storia di migliaia di persone, sette delle quali uccise. Prima del rogo avevano già portato via la linea B/A e il laminatoio Sendzimir 54; dopo tre mesi di stop, a marzo si è tornati a svitare, tagliare, togliere. Via un secondo laminatoio più grande, il Sendzimir 62, e un terzo più piccolo, lo Skinpass 62. A seguire, due linee di taglio. "Adesso si sta dismettendo la linea 4" spiega Pietro Russo. La maledetta linea 5 resta lì, circondata dal nastro bianco e rosso: a gennaio inizierà il processo in Corte d'Assise. "La cosa strana è che non c'è puzza di bruciato, e neanche odore di ferro. Ma neppure prima si sentiva, o forse eravamo talmente abituati da non sentirlo più". 

La massa impressionante è il rotolo d'acciaio da settemila chili, il termine tecnico è aspo, un enorme cerchio grigio ancora pieno di macchie d'olio bruciato. "Nella linea 5 lo si rendeva sottile, adatto alla fabbricazione di oggetti di qualità: posate, pentole, vassoi, ma anche la lamina delle lavatrici, oppure tubi". Qui ha preso forma l'esatto contenuto della parola inferno, eppure la voce di Pietro conserva l'orgoglio del lavoro fatto bene, una specie di bizzarra felicità. "Perché lo voglio dire: qui, fino al 2006 abbiamo lavorato tanto, in condizioni di sicurezza. Poi l'azienda decise di chiudere, e allora smise di occuparsi anche delle cose minime però essenziali, non solo la salute dei lavoratori, persino la carta igienica nei bagni". 

Il silenzio è innaturale per chi conserva nelle orecchie e nella pancia il boato di una produzione che non si fermava mai, sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno. Nella palazzina degli uffici si aggirano come zombi una decina di impiegati: cinque "si collegheranno" alla pensione, altri cinque faranno compagnia ai 28 operai "da ricollocare", attualmente a Camerana per un corso d'aggiornamento. Completano l'elenco due disabili e due distacchi: uno è Antonio Boccuzzi, il superstite della linea 5 diventato deputato. 

La cassa integrazione scadrà il 3 marzo 2010. Chi alla Fiom si è battuto più di tutti per il loro posto è il sindacalista Fabio Carletti. Adesso il lavoro è quasi finito, e può scuotere per bene la testa. "Il mio cruccio è avere perso. Ma, di più, avere conosciuto un padrone che non ha nessuna considerazione degli altri. Uno che dice con brutalità anche sincera che il lavoratore è suo, lo paga e dunque ne fa quello che vuole". Invece Giorgio Airaudo prende a schiaffi l'aria, mentre quasi parla con le mani: "Quando il lavoratore è debole, anche il sindacato lo è. Forse è venuto il momento di chiedersi cos'è, oggi, la classe operaia". A Torino, 170 mila metalmeccanici. Il dieci per cento del totale nazionale. Invisibili. "Io provo tanta rabbia. Poteva non avvenire, doveva non avvenire". 

Il mostruoso vagone della linea 5 è il più lontano dall'ingresso su corso Regina Margherita: sta quasi addossato all'ex Ilva, altra acciaieria fantasma. Poi, i centoventi metri del capannone - in larghezza - e la strada che separa la fabbrica dagli uffici con lo spogliatoio, al piano di sopra, e sotto la mensa. Dentro, i passi rimbombano come in una cattedrale sconsacrata. Ma sono gli ultimi rumori. Qualche mese ancora e il silenzio sarà assoluto, magari non servirà neppure la guardia che adesso si è seduta nella sua macchina bianca e verde, con le insegne cubitali di una polizia privata, e aspetta che il ficcanaso metta in moto e sparisca. 

Perché questo è il turpe desiderio, questa l'insana speranza: cancellare ogni cosa, far scappare gli ultimi residui di memoria. Renderli come il fiocco nero, segno di lutto che qualche mano pietosa legò al mancorrente e dopo un anno giace a terra, stinto, insieme ai petali secchi, al cellophane di una remota era preistorica. È diventato pallido anche l'inchiostro delle scritte. Una, bianca sui mattoni della palazzina, dice "Mase vive". E magari un po' è vero, finché anche solo un essere umano ti vuole bene se pure non ci sei più, però Mase - cioè Giuseppe Demasi, 26 anni, la settima e ultima vittima dopo quattro interventi chirurgici, una tracheotomia e tre rimozioni di cute in vana attesa della pelle nuova - sta nello stesso angolo di cimitero degli altri, non tutti, cinque, dove una striscia azzurra tracciata dal Comune indica la strada, aiutando a trovare i ragazzi morti nel fuoco della fabbrica. Anche così si prova a non dimenticare. L'altra scritta in realtà sono due, spruzzate dodici mesi fa da una bomboletta contro il cemento del muretto esterno, dove si appoggia la ringhiera verde. 

"Di lavoro si muore, sciopero selvaggio" con tre punti esclamativi. E più a destra, continuando: "Operai bloccate tutto!" e il simbolo dell'anarchia. Remotissimo, quest'ultimo slancio a battaglia ormai conclusa, perduta. 

Invece la quarta scritta è un tabellone pubblicitario, messo proprio dove comincia la fabbrica e dove finisce la città. Dice: "Christmas Village, vola in un magico Natale". Appesi a un secondo lampione, due mazzetti di rose rosse hanno resistito alle stagioni, all'estate torrida e a questo freddo cattivo: i fiori stanno imbozzolati dentro il cellophane, con molti giri di nastro adesivo per isolare e difendere. Viene quasi da immaginare il gesto d'amore feroce, certamente di mano di donna, che pose quei fiori. Proteggerò tutto di te. 

Il traffico della tangenziale sposta l'aria con schiaffi decisi. Ogni tanto la sbarra del parcheggio si solleva e libera un'auto che pare guidata da nessuno: chi è rimasto non è meno spettro di chi è andato. Dalla montagna in fondo al corso, nitida e netta come una cartolina o forse un sogno, scende aria gelata. Il cielo ha lo stesso colore dell'acciaio che si srotolava da gomitoli alti come una casa, finché lo maneggiavano gli operai della Thyssen. Ma stasera sembra un coperchio posato sul mondo. 

(5 dicembre 2008)
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