[Redditolavoro] Lo Slai e le elezioni
Operai Contro
operai.contro at tin.it
Sat Apr 12 11:09:43 CEST 2008
Lo Slai Cobas dà l'indicazione di non votare alle prossime elezioni politiche, in un documento dal titolo "Elezioni: nessuno difende le condizioni dei lavoratori". A prima vista sembrerebbe un segnale di radicalizzazione politica per questa organizzazione che condivide con gli altri sindacati di base, anzi in misura maggiore degli altri, la confusione tra livello politico e sindacale. Confusione che fa di queste formazioni, chi più e chi meno, nient'altro che gruppetti politici travestiti da sindacati e condannati perciò ad un cronico minoritarismo riformista. Minoritarismo, perché la dimensione di gruppo politico spinge al settarismo e alla difesa della propria parrocchia, mentre compito prioritario di un sindacato è la conquista della maggioranza fra i lavoratori che vuole rappresentare. Riformista, perché la confusione dei due livelli, politico e sindacale, riduce la politica ad una proiezione della lotta sindacale e, visto che la lotta sindacale è sempre una lotta per la "pagnotta", in politica queste formazioni non riescono ad oltrepassare l'orizzonte ristretto di un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, fermo restando l'attuale sistema sociale.
Torniamo in particolare allo Slai. Certo, per un'organizzazione che, tanto per fare degli esempi, nel 1996 ha sostenuto la candidatura di una sua dirigente, Mara Malavenda, nelle liste di Rifondazione Comunista, con la motivazione che questo partito era quello che più difendeva i lavoratori, per poi ricandidare la stessa (a dimostrazione che il lupo perde il pelo ma non il vizio) nelle regionali 2005 in Campania nella lista del Partito dei Comunisti Italiani di Diliberto, l'attuale presa di posizione appare come una rottura con il passato. Tale impressione è ancora di più rafforzata se la si confronta al sostegno che, anche in maniera sotterranea, altri sindacati di base stanno dando alle varie liste presenti alla sinistra di "sinistra arcobaleno" se non addirittura a quest'ultima. Vale la pena, allora, soffermarsi ad analizzare le caratteristiche di questa "svolta" dello Slai.
Nel documento citato, leggiamo che lo Slai vuole "favorire la formazione di un'organizzazione politica indipendente del proletariato" e che per far ciò ritiene necessaria la creazione di un sindacato di classe che non può nascere dalla semplice unificazione dei sindacati di base, ma che necessita di "un processo di unificazione dei proletari, a partire dai posti di lavoro. Un processo che coinvolga lavoratori iscritti ai sindacati di base, ai sindacati confederali, non iscritti e si apra al territorio, agli immigrati, collegandosi a comitati di lotta, centri sociali, lavoratori a vario titolo organizzati. Un processo di unificazione su obiettivi e piattaforme comuni e condivisi, in cui tutte le realtà esistenti abbiano pari dignità e che si ponga quale strumento per coordinare in modo permanente tutti i vari episodi di lotta e resistenza, nei posti di lavoro e nel territorio". Siamo di fronte alla solita salsa movimentista e interclassista. La questione centrale della creazione del partito operaio (termine a cui, e non a caso, lo Slai preferisce quello più generico e indeterminato di proletariato) viene posticipata alla formazione di un fantomatico sindacato di classe, senza che nulla venga detto su cosa si intenda per "sindacato di classe" e su come, soprattutto, sia possibile pensare alla formazione di un'organizzazione sindacale degli operai che ne organizzi la maggioranza e che sia saldamente diretta da questi, prescindendo dal processo di organizzazione politica indipendente degli operai. Il sindacato, per sua propria natura, tratta la compravendita della forza lavoro. Fin quando si resta in questo quadro ristretto, si è sempre sensibili alle esigenze di conservazione di questo rapporto, per il semplice fatto che la rovina del padrone trascina con sé la rovina dei "suoi" operai. In altri termini, anche per il sindacalista "di classe" più arrabbiato e radicale vien sempre il momento in cui, per tutelare l'azienda e, quindi il posto di lavoro, è spinto ad accettare e a far accettare agli operai le condizioni imposte dal mercato, rinunciando o mitigando le proprie rivendicazioni. Poco cambia se prima che scatti questo meccanismo il sindacalista "di classe" abbia spinto le proprie rivendicazioni fino ad ottenere la nazionalizzazione dell'azienda. Viene sempre il momento del risanamento economico e anche su questo terreno padrone pubblico e padrone privato non fanno alcuna differenza. Non fa alcuna differenza neanche la versione più estrema di questo processo, che ogni tanto compare in alcuni momenti intensi di crisi sociale e in pochissimi esempi isolati, la tanto decantata autogestione dell'azienda. Gli operai, "padroni" della loro piccola fabbrica devono misurarsi con la concorrenza e stabilire al proprio interno le stesse gerarchie e lo stesso sfruttamento dell'azienda capitalistica tipo. La storia del movimento cooperativistico è la campana a morte di ogni illusione su questo terreno. Ben altro comportamento ha il sindacalista operaio che non si limita al ristretto orizzonte sindacale, ma che si muove nella prospettiva dell'eliminazione del rapporto di compravendita fra operai e padroni. Solo chi persegue l'obiettivo dell'eliminazione dei padroni può veramente essere insensibile alle esigenze del mercato, perché sa che le sue lotte di resistenza economica sono inserite in un più vasto tentativo di presa del potere politico per la liberazione degli operai dalla schiavitù del lavoro salariato, per eliminare la stessa necessità degli operai di vendersi ad un padrone per poter campare. Ecco perché la stessa successione gradualistica sostenuta dallo Slai, prima il sindacato di classe e poi il partito, è la variante, declinata in salsa movimentista, dello stesso opportunismo riformista che ha spinto negli anni precedenti questa organizzazione ad appoggiare prima Rifondazione e poi i Comunisti Italiani.
Come si dovrebbe costruire questo "sindacato di classe"? Coordinando le lotte di tutti i settori sociali. Un bel calderone in cui nessuna differenza viene posta fra chi, gli operai, produce la ricchezza per tutti e chi, sia pur sottoposto ad un lavoro subordinato, si appropria di una parte di questa ricchezza. Eppure è evidente, ad esempio, che i dipendenti pubblici hanno come interesse prioritario l'allargamento della spesa statale e che per loro, pur sostenendo magari l'esigenza di parziali modifiche nella distribuzione della ricchezza sociale, è essenziale che gli operai producano questa ricchezza e che nella misura maggiore possibile cresca la quota di essa non consumata dagli operai ma disponibile per le altre classi. Un alto livello di spesa pubblica è sostenibile solo se l'economia tira, solo se cioè gli operai sgobbano e producono crescenti quantità di plusvalore, di cui si appropriano in primis i borghesi e poi le altre classi sociali. Nelle fasi di sviluppo capitalistico questa fondamentale differenza fra i lavoratori tende ad attutirsi, in quanto l'aumento rapido della ricchezza sociale prodotta rende relativamente compatibile l'esistenza contemporanea di incrementi dei salari operai e della spesa pubblica, inclusi gli stipendi dei dipendenti statali. Ma in fasi di crisi come questa le situazioni e gli interessi tendono a divaricarsi, per cui è sempre più difficile parlare di coordinamento delle lotte. Lo Slai non solo non dice nulla su queste evidenti ed oggettive difficoltà, ma intende perseguire ancora una volta la strada dell'unità di tutte le lotte in cui tutte le realtà esistenti "abbiano pari dignità". Un patto interclassista in cui gli operai verrebbero posti inevitabilmente al carro della piccola borghesia.
Il programma "anticapitalistico" di questo fantomatico blocco sociale, organizzato nel "sindacato di classe" è perfettamente in linea con la sua natura interclassista. "Lavoro stabile", "salario e pensione decenti", "diritti certi", il tutto specificato in una lista della spesa di tredici punti, del tutto simile ai programmi elettorali dell'estrema sinistra dei vari Turigliatto, Ferrando e compagni, che pure lo Slai invita a non votare. Ma se il salario e la pensione "decenti" sono obiettivi anticapitalistici, allora il vecchio PCI degli anni '60 e '70, se non addirittura la Democrazia Cristiana, devono essere considerati dei veri e propri partiti anticapitalistici, visto che in quegli anni i lavoratori ottennero con le lotte nello sviluppo capitalistico tante belle cose, come l'assistenza sanitaria e l'istruzione pubblica gratuita, gli aumenti dei salari e degli stipendi, lo statuto dei lavoratori, per poi perderli progressivamente e inevitabilmente nel corso della crisi.
In conclusione, l'attuale "svolta" dello Slai invece di rappresentare la presa d'atto della necessità dell'indipendenza politica degli operai, segna un ulteriore estremo tentativo di riproporsi come una formazione politico-sindacale della piccola borghesia e dell'aristocrazia operaia, pronta ad opporsi con ogni mezzo ad ogni tentativo degli operai di mettersi in proprio. Un triste esempio di ciò lo abbiamo avuto con l'espulsione dallo Slai di Mimmo Mignano, reo di essersi opposto alla linea del gruppo dirigente di questa organizzazione. A questa espulsione ha poi fatto seguito una comunicazione dello Slai, che per quanto ci risulta non è mai stata resa pubblica, alla direzione aziendale e che ha reso possibile la destituzione di Mimmo dall'RSU (destituzione contro cui lo Slai nulla ha fatto), e ciò ha aperto così la strada al suo licenziamento.
La Sezione AsLO di Napoli
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