[Redditolavoro] GLI OPERAI, LA FIAT E IL 1917...

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Sat Nov 10 17:19:19 CET 2007







			
			
		

				
			
			

				





	
	
	
	

	

		
		
				
		
		
		GLI OPERAI ALL'ASSALTO DEL PALAZZO (1917-2007)

		
			
				da				 falce
			 	@ 2007-11-07 - 11:35:17			 

				Gli operai all’assalto del Palazzo d’Inverno
	Novanta anni fa, il 7 novembre del 1917, gli operai prendevano il Palazzo d’Inverno.
	Il potere dei ricchi, dell’aristocrazia, degli industriali e dei banchieri era finito.
	Il potere sociale passava di mano.
	Ora erano gli operai delle officine Putilov e di tante altre fabbriche a comandare. Assieme ai contadini poveri.
	Iniziarono un’opera di riorganizzazione sociale tentando di introdurre un modo di produzione non più fondato sullo sfruttamento.
	Operai come noi iniziarono la gestione diretta della produzione, della distribuzione dei prodotti.
	Gli strati più poveri della popolazione ne
trassero subito dei miglioramenti sostanziali, inimmaginabili in quegli
anni in tutti i paesi capitalistici. Distribuzione gratuita dei generi
di consumo per chi li produceva, giornata lavorativa di 8 ore con due
giorni di riposo la settimana e 6 ore di lavoro la vigilia di festa,
assicurazioni sociali per tutti i lavoratori.
	Per i ricchi fu il terrore, la bella vita era finita, i privilegi aboliti.
	La parte più decisa di quegli operai si definiva comunista ed era organizzata in partito.
	I padroni di tutto il mondo subirono uno shock spaventoso dal quale non si sono ancora ripresi.
	Gli operai si erano sollevati ed avevano rovesciato il loro potere.
	Attaccato dal’’esterno e minato dall’interno l’esperimento è fallito, era un primo tentativo in mezzo a mille difficoltà.
	Del potere degli operai e dei contadini
poveri in Russia non ne era rimasto che una vuota sembianza che si
definiva repubblica socialista e copriva lo sfruttamento dei padroni di
Stato.
	I padroni di oggi hanno dovuto sbarazzarsi anche di questa copertura.
	Ma anche se per poco tempo, gli operai
hanno potuto mandare ai lavori forzati i padroni, liberarsi del
dispotismo di fabbrica, tagliare privilegi di borghesi grandi e
piccoli. Anche solo per questo la rivoluzione operaia nella Russia del
‘17 rimane il più importante esempio della possibilità degli operai di
liberarsi.
	I suoi limiti sono problemi nostri, solo
un nuovo tentativo degli operai potrà riscattare la rivoluzione russa
dalle menzogne e dal dimenticatoio in cui i padroni la spingono ogni
volta.
	Non parliamo poi di quelli che l’hanno
imbalsamata e cercano di spacciare la salita a Palazzo Chigi per la
versione moderna dell’assalto al Palazzo d’Inverno.
	Ogni operaio che oggi tira la cinghia, che
vede il capitale farsi sempre più ricco e potente sulle sue spalle non
dimentichi il 7 novembre di novanta anni fa. La piramide fu rovesciata
sottosopra.
	Fu solo il primo tentativo, la prossima volta faremo meglio, molto meglio.
	
	Una rete di operai che la pensa allo stesso modo si può annodare.

Collegarsi, scrivere, inviare messaggi.
	

Operai Contro - AsLO Via Falck 44 - 20099 Sesto S. Giovanni (MI)
	Internet: http://www.asloperaicontro.org

E-mail: perai.contro at tin.it">operai.contro at tin.it



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	“Io operaio licenziato perché occorreva tapparmi la bocca”
	di Donatantonio Auria
	su Liberazione del 10/11/2007
	Lettera aperta a Sergio Marchionne
	Lei
sicuramente non saprà nemmeno che esisto, sono uno dei suoi centomila
operai che a turni lavorano negli stabilimenti del gruppo Fiat a
produrre auto e con esse gli utili per gli azionisti, per i finanzieri,
gli stipendi dei manager. Sono Donantonio Auria, operaio di Melfi,
sospeso e poi licenziato dalla direzione dello stabilimento con una
motivazione che fa talmente a calci e pugni col normale sistema di
rapporti giuridico- contrattuali da diventare un esempio tipico di come
nelle fabbriche ed in particolare nelle sue, si manifesti un arbitrio
senza limiti.

Il fatto è semplicemente spiegato: un magistrato di Potenza ordina la
perquisizione dica s a mia nell’ambito di un’inchiesta sulle
associazioni sovversive con finalità terroristiche in Basilicata, nulla
viene sequestrato, nessuna prova viene acquisita. Risulto e sono
estraneo alla vicenda. Come per ogni cittadino in Italia dovrebbe
valere la regola che non solo non sono colpevole fino a sentenza
definitiva, ma qui sono solo coinvolto marginalmente in una inchiesta
di cui non si conoscono ancora i termini.

La direzione dello stabilimento di Melfi mi sospende con effetto
immediato, mi licenzia. Non aspetta gli sviluppi dell’inchiesta, la
pronuncia della magistratura. Nel suo regno, signor Marchionne, lo
Stato di diritto non ha spazio. Il dirigente Fiat è nello stesso tempo
legislatore e giudice, la sua volontà inappellabile.

La giustificazione semiseria di questo comportamento è il venir meno
del rapporto di fiducia tra me e la Fiat, ma non le basta che per mille
euro al mese tutti i gironi vengo in fabbrica a sgobbare sulle linee
con migliaia di altri operai, vuole anche che gioisca di questa
condizione e tutti i giorni dichiari di essere fiducioso del vostro
comportamento? Non si sembra di chiedere oltre il convenuto?!

Per sorridere un po’, si immagini se lo stesso modo di agire si
applicasse in Parlamento, se solo un’iscrizione nel registro degli
indagati comportasse il licenziamento, più di due terzi andrebbero a
casa subito. Invece stanno lì anche i condannati per via definitiva, e
per questi che è venuta meno la fiducia di tanti elettori. Il paragone
non si può fare, le fabbriche sono un territorio a parte, dove valgono
altre regole del gioco. Ma almeno non si blateri più di nuovo
capitalismo, di profitto coniugato con la libertà individuale, il
rapporto di lavoro è dispotico e non può essere altro.

Ma, signor Marchionne, conosco bene le ragioni che hanno spinto i suoi
subalterni a cogliere la palla al balzo e licenziarmi. Io, con Antonio
Auria, sono uno degli operai che è stato in prima fila nella lotta dei
21 giorni, ha sostenuto che all’accordo sul welfare occorresse dire un
bel no tondo, sono fra coloro che resiste ad ogni intensificazione dei
ritmi, sostengo che è necessario chiedere più soldi. Occorreva tapparmi
la bocca. Mi chiedo: Marchionne, è così rovinato da non poter
sopportare nei suoi stabilimenti n3emmeno un sano sindacalismo operaio?
Lei sicuramente sa che i suoi predecessori, capitani d’industria
nell’800 e nei primi decenni del ‘900, sopportarono ben altro che
qualche lotta per il salario, qualche resistenza ai ritmi di lavoro…
Certo metterò in atto tutte le misure legali per difendermi, per far
rientrare il licenziamento, per tornare al mio posto di lavoro, ma il
guasto è fatto. Le sue intelligenti parole sul capitalismo del futuro
possono andar bene sulle pagine del Corriere della Sera, ma naufragano
sui cancelli della Sata di Melfi. Piuttosto che affrontare il rancore
degli operai sulle pensioni, sui salari, sulla pesantezza del lavoro,
ha preferito tagliare le teste, ma ne dovrà tagliare tante, operai che
la pensano come me si formano e riformano in continuazione. Se non lo
sa è il regime di fabbrica che li produce.

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	L'Ottobre operaio, rimosso dalla Russia

di Rita Di Leo
	Al
ritorno da un viaggio a Pietroburgo mi trovo a rispondere alla solita
domanda: ma com'è veramente? In quel «veramente», ripetuto in epoche
diverse, c'è un interesse tutto speciale: come se lo stato delle cose
prima nella Russia sovietica e poi postsovietica avesse, abbia riflessi
su chi fa la domanda. Sul disagio di oggi, sulle illusioni di ieri.
Questa volta ho risposto che i giovani stanno alla grande. E mi
riferivo a quelli con cui avevo avuto a che fare, studenti
dell'università, uguali ai nostri e persino migliori. Con gli stessi
iPod, You Tube e sabati sera, epperò più informati e attenti a quel che
accade nel mondo. E poi, a differenza dei loro padri, ti guardano
dritto negli occhi, alla pari. Senza più quel misto di invidia,
subalternità, venerazione verso chi arrivava dal favoloso modo
«oltrecortina». Adesso anche per loro c'è quel che c'è oltrecortina e
così possono confrontare, criticare, apprezzare. E' con i giovani che
ho discusso del 1917, del passato sovietico, il tempo dei loro nonni,
da cui sono presi molto meno che dalla guerra in Iraq o dal conflitto
arabo-palestinese. Per discuterne, il pretesto è stata la mia visita
allo Smolny, oggi sede del Governatore della città, all'epoca quartiere
generale della rivoluzione, il posto dove Lenin visse dal novembre 1917
al marzo del 1918. Per tre quarti del Novecento, la sala dove si era
svolto il Congresso dei Soviet che aveva proclamato la vittoria e lo
spartano appartamento di Lenin sono rimasti come icone dell'evento.
Andare a vedere il «Proclama sulla pace e sulla terra» di Lenin sulla
scrivania dove forse era stato scritto non era proprio una bizzarria,
eppure tale è apparsa ai miei giovani interlocutori. Passi il museo
Puskin e la casa di Dostojevski, ma lo Smolny... La discussione sul
passato del loro paese è cominciata così. Come mai tanto interesse da
parte di un professore europeo? Per loro l'esperimento sovietico era
una fase storica da saltare, per tornare agli inizi del Novecento, a
Witte e Stolypin, i due ministri dello zar fautori per la Russia di una
via europea, con imprenditori, banchieri e intellettuali ai posti di
comando. I 74 anni dell'Urss e il caos degli anni di Eltsin, con gli
oligarchi, il degrado e la subalternità agli Usa, erano tutti
imputabili all'incapacità politica di chi li aveva sostituiti nel 1917.
I giovani, si sa, sono radicali e contraddittori. Infatti è unanime la
riconoscenza per Putin, l'uomo che ha ridato loro il rispetto per il
proprio paese. I contrasti con i paesi ex sovietici sono valutati con
spirito granderusso: mai i governanti attuali di quei territori
avrebbero osato, se non fossero sobillati dagli americani, preoccupati
per una Russia tornata a contare sulla scena internazionale. Per merito
di Putin. Sincero è stato il loro sconcerto quando ho ricordato che
Putin è un prodotto di quel passato che ripudiano, figlio un operaio
comunista, premiato per il suo lavoro con un appartamento e
un'automobile, privilegi distintivi del clima sociale dell'epoca.
Allora il percorso ottimale di un bravo figlio di un bravo operaio
portava a farlo diventare ingegnere e a spianargli la carriera
professionale e politica. Per Putin la scelta di lavorare per i servizi
segreti è stata un'affermazione di diversità, l'aspirazione a conoscere
il mondo grazie agli incarichi nei servizi segreti. Quando i mass media
e i cremlinologi lo raffigurano come uomo-spia, ancora una volta
mostrano di non essere in grado di capire né l'uomo né l'ambiente in
cui è cresciuto. Quanto ai miei giovani russi, è difficile far loro
accettare che proprio con il loro presidente è stata rispettata - forse
per l'ultima volta - la prassi sovietica per cui i leader politici
dovevano avere una estrazione operaia e contadina. Nel loro orizzonte,
infatti, di operai e contadini non c'è più traccia. Essi stessi sono
del resto la prova del cambiamento del paese, quasi del tutto
assimilato al resto dell'Europa. Certo ci sono ancora molte turbolenze
nell'economia e nella politica, ma il dato certo è che il potere è
tornato in mani borghesi. Il rovesciamento sociale, base
dell'esperimento sovietico, risale ormai al passato ripudiato. E'
rientrata la pretesa di considerare il lavoro manuale al primo posto
della scala sociale: un primato che aveva una ricaduta politica ben
precisa nel reclutamento di chi aveva la responsabilità di governo. Un
governo che, nel più breve tempo possibile, avrebbe mostrato di creare
un'economia migliore di quella capitalistica, e una società
alternativa. Il tutto grazie alla classe operaia che, con il 1917,
aveva conquistato la possibilità di farsi valere nei confronti di chi
l'aveva tenuta socialmente e politicamente subalterna. Con la vittoria
del 1917 era appunto possibile fare meglio degli sconfitti,
obbligandoli a prestare i propri specialismi, la propria cultura, al
nuovo potere: l'ingegnere come vicedirettore e l'operaio promosso
direttore della fabbrica espropriata. Per i miei giovani russi stavo
narrando una storia fantapolitica, mai sentita perché in famiglia e a
scuola nessuno aveva raccontato della fase del «comunismo di guerra».
Essendo di estrazione borghese e intellettuale, avevano succhiato con
il latte materno l'avversione per il Partito comunista, il disprezzo
per come governava il paese. Ma si trovavano sprovveduti di fronte
all'ipotesi che alla base di tanto disprezzo vi fosse un rovesciamento
sociale; che in famiglia potessero avercela con i dirigenti del Partito
per l'esclusione sociale subita; per le conseguenze personali che
potevano essere derivate dall'emarginazione sociale del lavoro
intellettuale; per non essere diventati loro, tecnici e intellettuali,
i dirigenti del partito al posto di Khrusciov e di Brezhnev, ex operai.
In mio soccorso parlò una fanciulla ebrea il cui nonno - «un grande
scienziato» - era andato in galera accusato di sabotaggio mentre la
famiglia aveva perso la casa e tutti erano stati cacciati dal lavoro e
dalle scuole. Ma dopo un po' lo avevano rimandato al suo laboratorio di
ricerca, ma sulla targhetta del direttore c'era il nome di un operaio
della manutenzione, segretario della cellula di partito del
laboratorio. L'esempio era così pertinente da sembrare inventato, solo
che (per mia fortuna) la voce della studentessa vibrava di derisione
per l'affronto subito dal nonno. Un operaio a capo di un laboratorio!
Subito i miei giovani interlocutori quasi gridarono che l'esperimento
sovietico non poteva riuscire proprio a causa di quel ribaltamento
sociale. Se i comunisti non avessero perseguitato e umiliato «il grande
scienziato», egli avrebbe lavorato al meglio per il proprio paese. E
così gli altri esperti, gli specialisti borghesi dell'economia e
dell'amministrazione, i professori, gli intellettuali. I giovani davano
insomma per scontata la cooperazione da parte dello strato sociale
sconfitto, e non avevano la minima cognizione della guerra civile,
dapprima combattuta col sangue e poi vissuta tragicamente per decenni
tra le pareti di casa, negli ambienti di lavoro, nei tribunali, nelle
carceri, nei campi. Non erano in grado di capire la sfida lanciata dai
rukovoditel'y, i capi d'estrazione popolare contro gli intelligenty,
gli intellettuali che a vario titolo facevano valere la propria
funzione. Una funzione che prevedeva ruoli di comando nei luoghi dove
si produceva, si amministrava, si studiava. Aspro e continuo era stato
il conflitto tra il Partito comunista, al governo in nome dello strato
sociale del lavoro esecutivo, e coloro che quel lavoro dovevano
renderlo effettivamente esecutivo e cioè far funzionare fabbriche,
uffici, scuole. Si trattava di chiedere, a chi si considerava al
potere, di lavorare come prima del 1917, quando c'erano i padroni. E
chiederlo in una situazione paradossale, essendo i dirigenti tecnici,
intellettuali borghesi, messi su un gradino sociale e politico
inferiore. I ragazzi di Pietroburgo mi hanno subito replicato che era
un assurdo: gli operai devono lavorare e quelli che hanno studiato
devono comandare. Ho replicato che l'esperimento sovietico era
consistito proprio in quell'assurdo, nella scommessa che la scala
sociale rovesciata facesse funzionare il loro paese meglio di prima. E
anzi che quello che stava accadendo nella Russia sovietica era assurto
all'epoca come modello di riferimento per chi nel resto del mondo
voleva liberarsi del capitalismo e della borghesia. Ho detto loro che
per decenni quell'ipotesi, quel modello erano stati tenuti in
considerazione in Europa, in America, nei paesi del terzo mondo. Erano
increduli e straniti. E obiettavano: ma gli intellettuali europei,
americani e tutti gli altri, come potevano auspicare un sistema sociale
che li rendeva subalterni? E subalterni al Partito comunista, fatto di
gente del popolo, di burocrati, di opportunisti? E' allora che mi sono
resa conto che non avevamo mai usato il termine «socialismo». E che
potevo utilizzarlo senza danni per la mia credibilità spiegando che in
passato gli intellettuali erano divisi al loro interno, tra chi in nome
del socialismo voleva il cambiamento della società e dell'economia, e
chi viceversa si riconosceva nel contesto borghese e capitalistico. In
tutto il mondo, il 1917 e l'esperimento sovietico erano stati appunti
identificati con il socialismo, erano la prova che il socialismo era
possibile e che capitalismo e borghesia erano il passato. Su una tale
scommessa gli intellettuali si erano appunto divisi, tra quelli che per
il socialismo accettavano i costi dell'apprendistato operaio e
contadino del potere e quelli che ne denunciavano ogni mossa con
disprezzo ed odio, covandone il fallimento. Padroni dei media, per 70
anni costoro hanno alimentato una furiosa guerra ideologica.
Innanzitutto hanno negato al socialismo il carattere di esperimento,
con un suo inizio, un suo svolgimento e fasi diverse e contraddittorie,
terribili e tragiche, così come era accaduto al capitalismo nei suoi
secoli di crescita, di crisi e di rinnovamento. Gli uomini del
capitalismo hanno avuto tutto il tempo per sperimentare il proprio
potere sugli uomini del lavoro, per passare dall'uso della forza alla
ricerca del consenso. Gli uomini del socialismo invece dovevano
rispettare ogni virgola delle promesse contenute nei testi sacri che lo
descrivevano. E fin da subito fu denunciato il distacco tra le belle
parole dei libri e tutto ciò che i sovietici facevano, in nome degli
operai al potere e del socialismo. Fin da subito da sinistra fu
avallata l'ipotesi del tradimento del socialismo e dell'Ottobre nei
confronti di chi per decenni rimase immerso e sommerso nella vita
quotidiana dell'esperimento. Da destra invece la versione corrente fu
che i russi in rivolta dovevano fermarsi al febbraio 1917 e lasciar
fare ai Witte e agli Stolypin. Proprio come pensano oggi gli studenti
di Pietroburgo. Non vi sono più intelligenty disposti a rappresentare
il punto di vista operaio sull'esperimento sovietico fallito, a
indagare sulle ragioni del fallimento, a ripercorrere i 74 anni di vita
dell'Urss. Non vi è più alcuna curiosità politica né culturale: né là
né qui. Sul primo esperimento di potere operaio, è calato un macigno
tale che forse è meglio negare addirittura che vi sia mai stato. Al
massimo, gli intellettuali discettano sulla precarietà del lavoro, ma
gli operai come attori politici sono usciti dal loro orizzonte. Non c'è
più nessuno interessato a comporre i fili che legano le vicende
dell'esperimento sovietico alla realtà degli operai di oggi.
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