[Ezln-it] L. Martinelli: Una dolorosa lettera d’amore per il mio Messico

Annamaria maribel_1994 at yahoo.it
Tue Feb 13 11:18:42 CET 2018


Una dolorosa lettera d’amore per il mio Messico

Luca MartinelliLa retorica del“Paese fallito” e di uno “Stato debole” serve solo a giustificare violenza e violazionidei diritti umani, che non sono frutto dello strapotere dei narcos ma di una precisaorganizzazione del potere. I giornalisti italiani lo capiranno mai?



Negli ultimi cinquant’annila ricchezza prodotta in Messico, misurata dalla Banca Mondiale, si è moltiplicataper quasi quaranta volte (in Italia di 23), e la popolazione del Paese è praticamentetriplicata (fino a 127 milioni di persone). Eppure per i media italiani, ancoraindecisi sull’appartenenza geografica al Nord o al Centro America, la quindicesimaeconomia mondiale, che è anche il decimo Paese per numero abitanti, è soltanto uncliché, è il “Narcostato”, è il Paese dove oltre 230mila persone sono mortenell’ambito di una presunta guerra alla droga promossa a partire dal 2006 dall’allorapresidente Felipe Calderon.
È fatta, e peril lettore italiano l’equazione è pronta, Messico = droga; non era del restogià così ai tempi di Diego Abatantuono e Claudio Bisio protagonisti di Puerto Escondido(1992), tratto dal librodi Pino Cacucci?

Eppure, a darela colpa di tutto al narcos, cioè a quelli che vengono presentati come cartellidella droga, ha un unico effetto: riduce a zero la complessità del Messico, la complessitàche la realtà di ogni Paese vive e contiene (gli italiani non sono stanchi di esseredescritti come il Paese dei fannulloni, in mano alla mafia?). Fa sì, questo atteggiamentocomplice, che non ci si pongano domande (ad esempio, che cosa ha reso possibileuna crescita economica così significativa? Chi l’ha pagata? Le relazioni commercialiprivilegiate con Stati Uniti, Canada ed Unione europea hanno avuto solo effetti“benefici” sull’economia?), e fa sì che la forza apparentemenre schiacciante deinarcotrafficanti non lasci emergere l’esistenza di uno Stato forte, fortissimo,in particolare quando si tratta di mettere in piedi meccanismi di repressione neiconfronti del conflitto sociale. Non fa notizia, in Italia, che un Parlamentoin scadenza abbia approvato a dicembre una legge che, in nome della sicurezza pubblica,“apre” alle forze militari le strade del Paese, dove l’esercito sarà impegnato anchenegli interventi di ordine pubblico. Una legge condannata anche dalle Nazioni Unite.

Resta il cliché,che in quest’anno elettorale (si vota il prossimo 1° luglio) rischia di essere strumentalizzatoed ingigantito: a dicembre, ad esempio, un lungo articolo pubblicato da un quotidianoha dato risalto alla storia dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa,in Guerrero, scomparsi il 26 settembre del 2014. Bene, ma quello scritto riportavafinte o false verità, già smentite scientificamente da anni, come la favola deicorpi che sarebbero stati bruciati in una discarica dopo esser stati affidati ai“narcos”.

Lo stimolo a scriverequesto commento, però, è una frase, letta il 7 gennaio su un autorevole settimanale:“C’è poi la piaga della corruzione, figlia endemica del narcotraffico”. 
Non è possibile affermare che in Messico la corruzione è figlia del narcotraffico,e basterebbe guardare agli archivi dell’OCSE, alle classifiche di Transparency Internationalo anche alle cronache economiche del Paese negli anni Settanta, Ottanta e Novanta(si può leggere ad esempio il coccodrillo dedicato dal Guardian all’ex presidenteLopéz Portillo, in carica dal 1976 al 1982). 
Non c’è solo il narcotraffico, il Messico e i messicani non vivono ogni giorno pensandoe rivivendo la cattura di “el Chapo”.

Ecco che, sconfittoil fantasma dei narcos, potremmo iniziarci a porre altre domande.

Perché dall’altraparte dell’Atlantico, e legato all’Italia da salde e solide relazioni commerciali(sono stati in visita a Città del Messico: il presidente della Repubblica SergioMattarella, luglio 2016; il presidente del Consiglio Matteo Renzi, aprile 2016;il ministro degli Esteri, poi presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, marzo 2015)e da un volo aereo diretto Roma e Ciudad de México, c’è un Paese che negli ultimiquindici anni ha compiuto solidi passi indietro sul terreno della tutela dei dirittiumani, in particolare dei popoli indigeni (certificati a novembre 2017 dall’ultimamissione della Relatrice speciale ONU), che èsotto processo alla Corte interamericana per i diritti umani per tortura, anchesessuale, nei confronti di cittadini che manifestavano la propria contrarietà aduna grande opera (il “caso Atenco”, così simile alla nostra Genova),che ha privatizzato le riserve di petrolio e gas, che sui migranti si è trasformatoin un argine per conto degli Stati Uniti d’America.

Nel 2014, a Tenosique,in Tabasco, nei pressi della frontiera con il Guatemala, ho capito che Messico ed Italiasono simili, due Paesi di transito per migliaia di migranti che nonvogliono restare entro quei confini. A partire dalla metà degli anni Novanta (epersonalmente nei primi anni Duemila), invece, l’Esercito zapatista di liberazionenazionale in Chiapas ha insegnato a migliaia di persone in tutto il mondo l’importanzadi lottare contro le politiche neoliberiste. Ecco perché il Messico non può essereconsiderato una “sconfinata ecatombe” (letto sempre domenica 7 gennaio, sull’insertoculturale di un quotidiano), ma resta un Paese da indagare nella sua gigantescacomplessità. Quella che nel 2018 porta per la prima volta una donna, che è ancheun’indigena, a tentare la candidatura alla presidenza della Repubblica. Il segnale,anche se il nome di Marichuy, all’anagrafe Maria de Jesus Patricio Martinez, nondovesse arrivare sulla scheda elettorale, di un Paese ancora vivo. Oltre ogni cliché.https://medium.com/@lucamartinelli130180/una-dolorosa-lettera-damore-per-il-mio-messico-c092e6c3a4ad

 
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