[Ezln-it] Intervento di Gustavo Esteva su Etica e Politica - Parte 2/2

Annamaria maribel_1994 at yahoo.it
Thu May 12 15:23:54 CEST 2011



Il Messico non è Gaza

No, no lo è. Ma potrebbe esserlo. Esistono analogie scandalose che meritano
considerazione. Non sarebbe utile riflettere su alcuni somiglianze
raccapriccianti, come quella che sembra esistere tra i palestinesi in Israele
ed i messicani in Arizona? O la sproporzione tra la forza militare/fisica di
Israele e quella della Palestina e quella che esiste tra i corpi militari,
polizia, paramilitari e parapolizie degli Stati Uniti e del Messico, da una
parte, e la gente, dall'altra? E c'è qualcosa di più grave di queste analogie.
La cosa più grave, là e qui, è il silenzio, l'abitudine: abituarsi a vedere con
naturalezza l'insopportabile.

Molte voci esprimono, dentro lsraele, crescente preoccupazione per gli
atteggiamenti che osservano nella loro società. Neppure riescono a risvegliarla
gli orrori del recente libro che riporta le testimonianze dei saldati
israeliani che hanno partecipato negli ultimi 10 anni all'occupazione della
Palestina. "Quello che passa come normalità sotto l'occupazione",
segnala David Shulman, "è anche peggiore che negli anni di combattimento
per il giogo incessante, quotidiano, disumanizzante. Chiunque leggerà questo
libro vedrà il modo in cui l'occupazione si è trasformata in un sistema
degradante di controllo… Ho constatato gli effetti devastanti della droga
dell'abitudine… Ho visto come il male, inserito in un sistema ramificato e
spesso impersonale, può scomporsi in piccole azioni quotidiane che, per molto
ripugnanti che siano al principio, presto diventano routine" . 2

Non voglio mettere l'analogia al servizio del mio argomento. Forse, dopo
l'Accordo, dagli schermi scompariranno gli spettacoli di violenza che sono
andati aumentando. Si ridurrà la dose di droga. Forse, come hanno commentato
flemmaticamente alcuni giornalisti dopo aver ascoltato il decalogo dei criteri
editoriali, cambierà il linguaggio. Ora si dirà: "Due decapitati con poca
violenza". Oppure: "Gli asociali hanno smembrato gli arti della
vittima che non ha sofferto"… Mi preoccupa che in qualche misura ci siamo
abituati a quelle immagini di violenza. Ma mi preoccupa molto più che si sia
fatta l'abitudine alla criminalizzazione dei movimenti sociali. I media si
accanirono in alcuni aspetti della violenza ad Atenco o Oaxaca. Ma eludono od
omettono sempre di più quella che si impiega quotidianamente in tutto il paese
contro i più diversi movimenti sociali, ed in particolare quella che si è impiegata
per anni in tutti i territori indigeni e contro le comunità zapatiste e che si
è recentemente intensificata.

Mi preoccupa che questo silenzio non copra solamente i media ma abbracci
già ampi settori sociali - perfino quelli che teoricamente difendono le cause
popolari. Gli stessi che denunciano con risalto ogni gesto di Calderón o dei
suoi rivali politici. Quelli che proclamano il loro impegno per la giustizia
sociale o per il bene del paese e promettono di riportare quello che i
neoliberali ci hanno tolto e portare molte altre benedizioni. Quelli che
tracciano la loro linea rispetto alla repressione. Perché restano in silenzio
davanti agli oltraggi costanti contro la gente ed i movimenti che dicono di
difendere? Perché non denunciano, con lo stesso risalto, le repressioni e le
aggressioni in cui incorrono i loro stessi colleghi e soci di partito e di
governo? Perché ormai al potere adottano gli stessi comportamenti, incorrono
nella stessa corruzione, proteggono la stessa impunità? Alla luce dell'esperienza,
con quale autorità morale pretendono ora che si cancelli tutto e non si prenda
in considerazione quello che è successo e continua a succedere in nome di una
nuova illusione, di una semplice promessa?

Di questo passo, se invece di iniziative degne e conseguenti seguitiamo a
intrattenerci con questi passatempi, non ci sarà nazione nella quale possa
materializzarsi il sogno di un vago "progetto alternativo" che si
continua ad alimentare.

"Vi auguro l'Egitto", ha scritto alcuni giorni fa il palestinese
Omar Barghouti. "Vi auguro la capacità di resistere, di lottare per la
giustizia sociale ed economica e di ottenere la vostra vera libertà.   

"Vi auguro la volontà e la capacità di uscire dalla vostra prigione
camuffata con tanta cura. Nella nostra parte del mondo i muri delle prigioni
sono troppo ovvi, dominanti, asfissianti. Per questo siamo ancora ribelli,
preparandoci al giorno della nostra libertà. Quando raccoglieremo potere
popolare sufficiente, romperemo le catene ossidate che hanno imprigionato per
tutta la vita menti e corpi. Le celle della vostra prigione sono differenti. I
muri sono ben nascosti, non sia mai che evochino la volontà di resistere. Non
ci sono porte nelle celle della vostra prigione: potete spostarvi 'liberamente'
senza riconoscere mai la prigione più grande nella quale siete confinati….

"Vi auguro l'Egitto per decolonizzare le vostre menti e fare a pezzi
la scheda con la domanda: 'che cosa volete?', perché tutte le risposte che date
sono sbagliate. Lì la vostra unica opzione sembra essere tra il male e il male
minore.   

"Vi auguro l'Egitto affinché, come i tunisini, gli egiziani, i libici,
i bahreinesi, gli yemeniti, e certamente i palestinesi, possiate gridare:
"No! non vogliamo scegliere la risposta meno brutta. Vogliamo un'altra
opzione che non c'è nella vostra maledetta lista". "Vi auguro
l'Egitto affinché possiate collettivamente, democratica e responsabilmente
ricostruire le vostre società, per restaurare le leggi affinché siano al
servizio del popolo, non del capitale selvaggio e del suo esercito di banche;
per farla finita col razzismo ed ogni tipo di discriminazione; per preservare
ed essere in armonia con l'ambiente; per tagliare guerre e crimini di guerra e
non posti di lavoro, prestazioni sociali e servizi pubblici; per abbattere il
governo tiranno ed oppressore delle multinazionali, e per cacciare l'inferno
dall'Afghanistan, dall'Iraq e da tutti i luoghi in cui, col pretesto di
"diffondere la democrazia", i vostri moralmente superiori crociati
hanno sparso la disintegrazione sociale e culturale, la povertà abietta e la
disperazione assoluta… 

"La nostra oppressione e la vostra sono profondamente correlate e
intrecciate… La nostra battaglia collettiva per diritti e libertà non è uno
slogan, ma una lotta per la vera emancipazione e l'autodeterminazione, un'idea
il cui momento è arrivato. Dopo l'Egitto toccherà a noi. È l'ora della
liberazione e della giustizia per la Palestina. È ora che tutti i popoli di
questo mondo, in particolare i più sfruttati ed oppressi, riaffermiamo la
nostra comune umanità e recuperiamo il controllo sul nostro destino comune”.

 

Rese e resistenze

La lettera a don Luis descrive con precisione la situazione attuale in
Messico e le prospettive. Voglio aggiungere un altro aspetto che permette di
illustrare le risposte.

Felipe Calderón non ha saputo governare, ma può ancora distruggere e
prosegue nell'azione che ha orientato le politiche ufficiali degli ultimi 30
anni: mettere il paese nelle mani del mercato, del capitale. Non c'è altra
soluzione, sosteneva Salinas, che salire sulla locomotiva statunitense, anche
se come camerieri. Per facilitare l'aggancio aprì al mercato la terra ejidale e
comunale, e nella sua febbre privatizzatrice smantellò buona parte del settore
pubblico.

Aggrappato a questa tradizione, Calderón ha messo in vendita quanto ha
potuto ed ora deve consegnare la merce. Per esempio: ha ceduto in concessione
quasi la decima parte del paese per 50 anni, e queste concessioni prevedono
l'obbligo da parte del governo messicano di disfarsi della gente che abiti nei
territori dati in concessione. Un altro affare sta nel demandarle se questo non
avviene nei termini previsti. Ed i termini non si rispettano perché la gente
resiste.

La resistenza incomincia di solito come lotta localizzata di un piccolo
gruppo che cerca di proteggere le proprie terre e acque, ma presto incontra
legami orizzontali e s’incatena a lotte simili in altre parti fino a formare
ampie alleanze che si estendono in tutto il paese. Questa lotta racchiude una
mutazione politica di grande trascendenza: rappresenta il passaggio dalla lotta
per la terra alla difesa del territorio. Chi è riuscito ad ottenere un pezzo di
terra che assicuri la sua sussistenza e mantenere il tessuto sociale
comunitario, affronta in maniera organizzata la nuova sfida. Non difende più, o
non solo, quel pezzo di terra. Esercita una forma di sovranità popolare in cui
la difesa del suo territorio è anche la difesa della sovranità nazionale.
Abbondano esempi di queste lotte specifiche che si collegano anche con alte
simili, come quelle contro le dighe e contro molti megaprogetti. In tutti i
casi è evidente il significato e le conseguenze della guerra descritti nella
lettera a don Luis. La distruzione, a prima vista insensata, irrazionale, senza
ragione, una distruzione che colpisce la natura ma ancor di più la gente che si
occupa di essa e vive dei suoi frutti, acquisisce il suo senso ultimo nella
ricostruzione - quando sono spariti il tessuto sociale e la sussistenza
autonoma, e gli individui, uno alla volta, separati, restano esposti alla
volontà del mercato, del capitale, alla schiavitù che questi impongono.
"Che facciano i giardinieri in Texas o mettano su un negozietto",
diceva Fox quando gli domandavano che cosa avrebbero fatto quelli che il suo
governo sgomberava. Anche quelli di Calderón se ne vanno dal paese, sono già
sotto terra o sono "antisociali" - l'etichetta che le forze pubbliche
appiccicano indistintamente a delinquenti e ribelli.

Oggi abbiamo bisogno della spinta che ci augura il palestinese Barghouti,
quella che 17 anni fa ci permise di fermare la guerra di sterminio di Salinas
ed oggi può fermare quella di Calderón e liberarci di lui. Ma non basterebbe
disfarci delle classi politiche… per poi ricominciare di nuovo con la pratica
elettorale, fosse anche con facce nuove. Cerchiamo un'altra trasformazione, una
molto altra, più vicino e più lontano: vogliamo smantellare gli apparati
politici ed economici della dominazione, invece di tentare di conquistarli con
l'illusione di utilizzarli in maniera diversa; e vogliamo mantenere nelle
nostre mani la transizione, per assicurare che sia l'inizio della nostra
ricostruzione, non più della stessa cosa. E per quello che bisogna fare, adesso
e dopo, abbiamo bisogno dell'etica critica.

 

Perché don Luis?

È utile domandarci perché gli zapatisti hanno deciso una corrispondenza
pubblica col filosofo Luis Villoro richiamando nuovamente la nostra attenzione.
Non si tratta più di estendere l'omaggio che gli resero a San Cristóbal. È che
don Luis incarna, come molte poche persone, i temi che gli zapatisti
considerano urgente esaminare. Esprime in pieno il rapporto tra etica e
politica. 

Negli anni ’90 scrisse El poder y el
valor: Fundamentos de una ética política, un libro che segue e culmina la
sua opera. Aveva vissuto, come filosofo, nel seno della ragione sul cui dominio
ha confidato l'Occidente negli ultimi due secoli - quella che concepì "il
progetto storico di rompere con la dominazione e la miseria e di raggiungere,
finalmente, una società liberata e razionale, degna dell'uomo". Invece di
arrendersi al fallimento di quella ragione e la sua sequela di conformità e
delusione, don Luis tentò una riflessione innovativa. "È ancora possibile
- si domandò - un comportamento politico che proponga di contrastare il male?
Si potrebbe rinnovare, davanti alla delusione, una riflessione etica?... È
inevitabile l'opposizione tra la volontà di potere e la realizzazione del bene?
Come si può articolare il potere col valore?”. Il libro risponde radicalmente a
queste domande: "È un progetto di riforma del pensiero politico moderno,
con la speranza di contribuire, in questa triste epoca, a scoprire i 'mostri
della ragione' che hanno devastato il nostro secolo".

Don Luis ha sofferto e goduto, come tanti di noi, la scossa del 1994 -
quella che mosse il mondo intero, come riconoscono oggi tutti i movimenti
antisistema. Da allora ha accompagnato gli zapatisti, vicino o lontano a
seconda delle circostanze. Fu loro consulente nei negoziati col governo, nel
1996, e fu uno dei tre che si sedettero al tavolo principale in cui si giunse
ai principali accordi. Soffrì come pochi la conclusione - che non dobbiamo
dimenticare. Siamo nel 10º anniversario della Marcia del Colore della Terra,
alle cui riunioni parteciparono circa 40 milioni di messicani. Migliaia di
organizzazioni, a nome di milioni di persone, appoggiarono l'iniziativa di
riforma costituzionale concordata con la commissione del Congresso, la Cocopa.
Non ci fu una sola organizzazione, una sola, che si oppose. Ma il Congresso
produsse una controriforma infame e la Corte Suprema, ovviamente, se ne lavò le
mani.

Il culmine dell'opera di don Luis, in quel libro ed in altri testi,
riflette la sua stessa trasformazione. Trovò ispirazione negli zapatisti e
nelle comunità indios e lì scoprì l'alternativa che stava cercando.
Trasformandosi, don Luis ci trasforma: la sua lucida riflessione apporta
elementi centrali a quello che oggi manca. L'utopia si è fatta realtà nel
presente, ci dice dal 2009; ha già posto in questo mondo, nelle comunità
zapatiste. La democrazia non può stare in un luogo diverso da quello in cui sta
il popolo, affermò, ed osservò "un'inversione dei rapporti di potere
esistenti" e "l'abolizione di ogni dominazione dall'alto"
nell'azione comunitaria che riorganizza la società dal basso, nella propria
geografia, nel proprio calendario…

"Il desiderio di autenticità", insiste don Luis, "è
l'impulso a liberarsi dell'oppressione della farsa". Della farsa, dice; la
farsa. La ragione che risponde a quel desiderio scopre i veri valori, e così
"assumono primato quelli che integrano la dignità insostituibile della
persona: libertà, autenticità, responsabilità, uguaglianza". E non
dimentichiamo le ultime parole di quel libro eccezionale: si tratta di
"compiere il proposito dell'amore: realizzare sé stesso per l'affermazione
dell'altro". Oltre ogni farsa.

Tra interminabili risse e circhi mediatici, aggrappati alle loro poltrone,
le classi politiche continuano a lacerare il tessuto sociale e distruggere la
natura fino a minare le basi stesse della sopravvivenza. E' una strada senza
uscita. È inutile, profondamente immorale continuare a percorrerla. Dobbiamo
uscirne. E questo esige, innanzitutto, impegnarci seriamente nella riflessione,
nella critica, nell'etica. Con integrità. Seguendo le orme di don Luis e la
nuova convocazione degli zapatisti. 

San Pablo Etla, 

marzo 2011

 

Note: 

1 Tomo della rivista Conspiratio,
2, nov.-dic. 2009, citazioni di Pietro Ameglio, Iván Illich e Jean Robert.

2 David Shulman, “Israel & Palestine: Breaking the Silence”, The New
York Review of Books, LVIII-3, February 24-March 9, 2011, p.43

 

(Traduzione "Maribel" -
Bergamo)

Versione in castigliano http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/10esteva.pdf
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