[Ezln-it] John Berger "Negli zapatisti autorità senza autoritarismo" - La Jornada 17dic07

Annamaria annamariamar at gmail.com
Thu Dec 20 11:28:02 CET 2007


*La Jornada – Lunedì 17 dicembre 2007*



"Questi passamontagna li rendono ancor di più umani", afferma
 John Berger sottolinea "l'autorità senza segni di autoritarismo" negli
zapatisti

I membri della giunta di buon governo di Oventic sembrano "incarnare la
giustizia; non come una forma di punizione, che è il senso che ha acquisito
per i poveri, ma di speranza"

Hermann Bellinghausen - Inviato

*San Cristóbal de las Casas, Chis. 16 dicembre*. Col saluto più militante
ascoltato in questo incontro della sinistra antisistema, John Berger ha
stregato l'auditorium nel trasmettere i suoi stessi incantesimi, quelli che
sempre incontra nel mondo del basso, perché lui guarda dal basso: "Compagni
presenti ed assenti", ha detto. Ed ha dichiarato che lui ed i suoi
accompagnatori, provenienti dall'Alta Savoia, a 10 mila chilometri di
distanza, sanno di essere giunti in un luogo in cui "anche la montagna più
piccola ha un nome".

Critico del visivo, narratore e compagno, Berger ha raccontato il suo
incontro con la giunta di buon governo di Oventic lo scorso 14 dicembre.
Aveva premesso che il suo contributo qui era limitato. "Tutti voi ne sapete
molto di più di me della lotta in Chiapas". Ha fatto solo riferimento a
quelle "cose che si presentano all'occhio del viaggiatore" ed ha offerto un
ritratto impeccabile, impressionante, dei quattro indigeni tzotziles
incappucciati, due donne e due uomini, che l'hanno ricevuto nell'ufficio
della JBG per un'ora. Ed ha descritto quattro cose che hanno catturato la
sua attenzione:

"Avevano autorità senza traccia di autoritarismo. E credetemi,
l'autoritarismo, una volta acquisito, impregna tutta la vita delle persone.
Questi passamontagna li rendevano ancora più umani. So bene che 'si sono
coperti per rendersi visibili'. Ma perché? Lo potete leggere nei loro occhi.
Il messaggio degli occhi è il meno controllabile delle espressioni facciali
e, di conseguenza, il più sincero".

In secondo luogo, gli indigeni "sapevano di dire la verità, perché non c'è
una sola verità. Niente inquieta di più che dire bugie, o mezze verità. Le
bugie producono paura in chi le dice. In questo senso, nessun membro della
giunta aveva paura. Ed essere così significa avere molta familiarità con il
dolore".

*"Fatica che divora l'anima"*

Terzo, "la resistenza prolungata ed il buon governo possono produrre fatica,
e la fatica divora a poco a poco l'anima come la ruggine, per cui bisogna
accettarla e consolarla. Quando qualcuno della giunta non parlava, allora lo
faceva un altro di loro, socchiudeva gli occhi, un gesto di consolazione
senza pretese, per rispetto alla fatica".

Quarto: "Per noi, vedendoli al loro tavolo ad esporre la visione politica
della loro situazione, qui e nel mondo, in quel momento rappresentavano
l'antitesi di tutti i discorsi politici dei leader di destra e di sinistra
che vediamo giorno e notte. Questa opposizione era nei loro corpi, nelle
loro voci, i loro ritmi, le loro menti, le loro dita, le loro anime.
Sembravano incarnare la giustizia. Non come una forma di punizione, che è il
senso che ha acquisito per i poveri in tutto il mondo. Non punizione ma
speranza. Si deve inoltre considerare che la speranza non è una promessa, ma
energia per l'interminabile e quotidiana lotta per vivere con un vero senso
della dignità".

A questo punto, ha annunciato che avrebbe raccontato una storia. "Da dove
vengono le storie?", si è chiesto. E come un mago che da una piccola scatola
ne tira fuori un'altra più piccola, e così via, e da ognuna ne estrae
tesori, racconti, illuminazioni, per primo ha estratto un messaggio
dall'Africa, un proverbio: "Finché i leoni non avranno storiografi, le
storie di caccia glorificheranno i cacciatori". Poi, un regalo per il
*subcomandante
Marcos,* per parlare dei sette colori e dei sette sensi, ricorrendo ad un
numero per il quale mostra predilezione: il poema *Settimo uomo* (1917), del
e poeta e proletario ungherese Atila Josef, che già in precedenza ha dato a
Berger l'ispirazione per una delle sue opere più importanti, *Il settimo
uomo*, sui lavoratori migranti in Europa.

(…)

Giorni prima, durante la sua visita al *caracol* zapatista di Oventic,
accompagnato da Beverly, la sua compagna, e dall'amico Lorenzo, John Berger
si è imbattuto nella serie di fotografie che decine di fotoreporter hanno
scattato e che oggi adornano permanentemente la caffetteria "Comandante Che
Guevara". Davanti ad una di queste, dove appare un compatto muro di donne
zapatiste, scalze e col volto coperto, che impugnano bastoni per impedire il
passaggio di una colonna dell'Esercito federale (la foto è di Pedro
Valtierra, scattata nell'ejido Morelia), ha deciso di cambiare i suoi piani.

Nell'incontro, questo mezzogiorno, avrebbe potuto parlare della situazione
del mondo, del capitalismo, dei movimenti, delle lotte per la terra. Alla
vista di questa foto ha deciso che avrebbe letto la lettera del suo
personaggio fantastico Aída, con la premessa che "il coraggio è fare un buco
attraverso il tempo imposto su di noi". Dove vanno le storie? Aveva chiesto
iniziando la lettura. "Senza di loro non sapremmo quanto ampiamente il
nostro godimento ed il nostro dolore sono condivisi".

Ad Oventic, Berger aveva mostrato un deciso interesse nel visitare la
clinica del *caracol:* laboratori, farmacia, ambulatorio di ginecologia,
camere di degenza. L'ha giudicata pulita, semplice, modestamente attrezzata,
in servizio. "Niente è più commovente di questo", è riuscito a dire,
ricordando forse l'incanto di una delle sue prime opere, la cronaca
giornalistica di un medico sulle montagne, intitolata molto appropriatamente
"Un uomo fortunato".



(Traduzione Comitato Chiapas "Maribel" – Bergamo)
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