[aha] architettura, innovazione e qualche sconfitta
pAt
alessio.chierico a gmail.com
Mer 29 Set 2010 12:35:15 CEST
Ciao Kilroy... ciao a tutti,
scusate, la mia è un po una divagazione...
Beh non avevi bisogno di conferma... infatti è proprio Rossi... ; )
Ti dico... da perugino io sono passato miriadi di volte sulla strada che
ci passa a fianco,
e quella roba, penso che c'è sempre stata da quando sono nato, o l'hanno
fatta che ero molto piccolo.
Per questo non mi è mai saltata significativamente all'occhio.
Non conosco l'architettura, ma verissimo, la volontà è metafisica, e a
me effettivamente
dà la stessa sensazione di un quadro di De Chirico... un senso di
desolazione...
se era questa l'intensione di Rossi... beh, c'è riuscito...
E' fantastico per come, forse anche per ragioni non dovute all'architettura,
(a parte la possibilità di avere molte vie di fuga ed essere vicino alla
stazione) la desolazione
ha preso ha preso forma nella vita di quel posto.
Qualche piccolo mercatino, o evento, ogni tanto provano a farlo, ma
essenzialmente
ci sono solo uffici, e non è mai un posto frequentato...
Ma la cosa più interessante è che nella piazza, che si chiama piazza del
bacio,
per tessere le lodi della onnipotente Perugina (anche perchè l'azienda
una volta era lì)
c'è da sempre uno spaccio di eroina molto famoso e apprezzato da tutti i
maggiori intenditori del centro italia.
Ci vengono veramente da tutte le regioni vicine ad assaggiare il
prodotto tipico, che sembra veramente prelibato.
Non a caso in Umbria c'è il più alto tasso di morti di overdose in europa.
A parte la divagazione nella divagazione... mi sembra interessante,
forse futile, forse causale,
il presunto legame tra l'architettura metafisica del posto e la vita
dello spaccio di eroina al suo interno.
La stazione a cui ti riferisci è quella del Minimetrò... una buona e
recente scusa per spillare soldi all'UE,
ma a me sembra anche utile... ma diciamo pure che il perugino medio non
apprezza ne il Minimetrò,
ne le sue stazioni... però hai ragione architettonicamente hanno la loro
funzionalità, minimalismo,
e un estetica che per Perugia è veramente innovativa, senza tante
baroccaggini ne estetiche, ne di pretese.
scusate, ma ho sentito tirare in causa il mio nostalgico
campanilismo.... ; )
Alessio
Il 24/09/2010 13:25, kilroy ha scritto:
> Caro XDXD, ti risponde uno che dal primo giorno di facoltà di architettura si pone queste questioni (parlerò solo di architettura, non ho mai usato una app).
> In realtà non credo affatto che gli architetti siano tutti uguali e tutti mossi da questo gigantismo o dalla volontà di essere la prossima archistar.
> Quando ho cominciato io, a metà anni '90, si combatteva (battaglia non ancora vinta, i posti chiave nelle università sono gli stessi di 20 anni fa) contro il postmoderno strapaesano, contro le schifezze incommensurabili di Aldo Loris Rossi e compagni, contro un'idea nostalgica e conservatrice, totalmente fasulla di città, fatta di carinerie posticce, recupero del merlo guelfo e altre sonore porcate, false, ipocrite e del tutto distanti dalla realtà (basterebbe dire che più della metà degli edifici in questo paese è stato costruito dopo la guerra per capire quanto questa gente vivesse nell'isola che non c'è). Questa architettura è stata il massimo della fasullaggine, nata come risposta ad un modernismo mal digerito che ha prodotto troppa bruttezza e troppa alienazione, il post-modern italiano (parola che in architettura assume connotazioni diverse che in altri campi) fu come dire: il postmodern è localizzato e specifico delle nostre realtà, ricostruisce il nesso storico interrotto con le nostre radici, è su misura per i centri storici, è la via italiana all'architettura. Salvo poi esportare queste cacate in tutto il mondo.
> Almeno in America i seguaci di Venturi (un abisso intellettuale separa i nostri e i loro) sono arrivati a fare una "piazza d'italia" a New Orleans (Charles Moore), una sonora presa per i fondelli.
> Dopo questa sbronza di vani ascensore a forma di colonne corinzie (cfr Ricardo Bofill) è successo un fatto, due di quelli che erano considerati architetti postmodern, tanto di essere inclusi da Portoghesi nella "strada novissima" della Biennale, Frank Gehry e Rem Koolhaas, sono finiti anche in un altra mostra al MOMA, quella che sanciva la nascita del decostruttivismo (per me non c'è contraddizione, postmodern e decostruttivismo sono due facce della stessa medaglia, ma non in Italia).
> Lasciando stare Koolhaas che è un personaggio complicato, di intelligenza e cattiveria vertiginose (uno di quei geni che guardano tutti gli altri umani come pidocchi, ma geni restano) a livello di pubblico il cambio di paradigma l'ha portato Gehry, con quell'immane bignè glassato di titanio che è il Guggenheim di Bilbao, sul quale nei '90 omnitel e audi ambientavano le pubblicità. Con quell'edificio lì si sono rotti gli argini. Gehry è stato un visionario, ha preso un manifesto dell'architettura futurista di Boccioni (ritrovato nel '56) e l'ha messo in pratica sfruttando software di modellazione solida che non eran mai stati usati in architettura (Catia). Boccioni sosteneva che un giorno avremmo vissuto dentro enormi sculture e Gehry, che non nega di adorare Boccioni ha eseguito, diventando una superstar e continuando imperterrito ad eseguire cosi che sono dei Gehry, così come un Pollock è un Pollock. La nascita di un fenomeno del genere è parallelo al sempre più frequente branding delle città, Gehry fa dei loghi tridimensionali.
> Dopo 15 anni l'unione di scultura informale a scala gigante e software molto potenti ha creato una situazione in cui dal pericolo costante di scadere nel kitsch (rossi portoghesi e friends) siamo passati al pericolo costante di sprofondare nel trash (Libeskind you sucks!)
>
> Ora immagina che periodicamente io mi trovi di fronte alla stazione di Perugia ad aspettare, di fronte a me ho un orripilante aggeggio fuori scala progettato da Rossi (non ho bisogno di andare a cercare conferma, Rossi è inconfondibile), la solita piazza che nessuno frequenta, l'orologetto rotondo che nessuno guarda, la finestra morta... Rossi non è mai arrivato a capire che le città ideali rinascimentali e quelle metafisiche sono quadri e che a viverci dentro si sta di merda.
> Di lato ho invece la stazione della (non so come si chiami, è una specie di metro sopraelevata a cabina unica) di Jean Nouvel, l'edificio è appropriato e piacevole, nessun gigantismo, nessun guardami esisto, oh! E che cazzo! Strano ma vero, esiste anche chi, se gli chiedi una pensilina dove aspettare il mezzo pubblico, la realizza, non ci piove dentro, non richiama nostalgie e nemmeno magnifiche sorti progressive, fa la stazioncina, bontà sua.
>
> Jean Nouvel va per i '70, non ha bisogno di dimostrare un cavolo a nessuno, non ha neanche bisogno di assomigliarsi pedissequamente, ne di urlare, continua a fare sperimentazione tecnologica e i suoi lavori sono se non altro appropriati, non sono un manifesto di alcunchè, sono grandi quanto serve, pensati per quelli che li devono usare, così se deve fare un algido grattacielo per il centro di Tokio lo fa senza remore, se deve fare una folie parigina per attirare i turisti la fa, se deve fare uno spazio temporaneo per prendere il the (la serpentine di quest'estate) la fa e gli riesce molto bene.
> Siamo arrivati a questo dunque, uno come Nouvel che è in giro dalla fine dei '60, fa delle belle architetture perchè non gli serve più di dimostrare nulla, non c'è più un paradigma da rompere, non c'è più una generazione da superare, l'architettura post-ideologica è migliore di quella ideologizzata e risulta paradossalmente dirompente, perchè ci si sta bene dentro.
>
> Gli architetti sono tutti delle gran puttane, fa un po' parte del lavoro di gente, che a volerla infamare, ha in fondo anche il ruolo di fornire un plusvalore estetico alla sede delle banche, di giustificare lo stesso principio del progresso, gli architetti non possono accogliere la distopia tra i propri argomenti, tra le loro soluzioni non c'è mai "distruggo per liberare", c'è solo "distruggo per ricostruire". Anche uno come Yona Friedman (il più adorabile nemico interno che abbiamo nella categoria) è in fondo un costruttore.
>
> Ora questo secondo me è un bel momento per la storia dell'architettura, i giornali di settore non fanno altro che parlare d'interventi come quelli di Alejandro Araveda, o Giancarlo Mazzanti, le architetture più interessanti sembrano tutte legate a storie di riscatto (soweto, medellin bogotà, libano, new dehli), le archistar sono sempre meno interessanti e così gli edifici a forma di fungo, e anche nel primo mondo stanno tornando al centro gli uomini, i sensi, il piacere, l'architettura sta diventando femmina, per fortuna! Tu invece sei andato a vedere una conferenza tenuta da un individuo evidentemente fallocratico.
>
> Andiamo alla biennale, che anche lei quest'anno è femmina.
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> kilroy
>
>
>
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>> Ho un problema.
>> Oggi siamo andati all'Acquario Romano, la sede dell'Ordine degli Architetti di Roma, alla presentazione/lancio di CitiVision Mag, un freepress di architettura molto bello, con un occhio particolarmente attento ai progetti degli architetti più giovani e con il preciso e dichiarato intento di tentare di alzare il livello della discussione sull'architettura contemporanea a Roma, e di trasformarla in un dialogo più internazionale.
>> Se da un lato ammiro molto l'impostazione del progetto e l'atteggiamento con cui gli organizzatori lo pianificano ed eseguono, dall'altro sono rimasto un po' atterrito dalla lecture dell'invitato principale.
>> Non ho nulla contro di lui, ovviamente: esprime dei concetti interessanti, seppur molto centrati sulla forma. E l'inizio della sua presentazione è stato anche molto interessante, con le sue analisi sul linguaggio degli spazi pubblici e privati.
>> E' solo che pian pianino, durante la conferenza, veniva insinuato nella discussione un assunto che, per quel che penso e sento, non è per nulla scontato. Piano piano, tra le descrizioni di un progetto e l'altro, emergeva una tensione verso il futuro, verso l'innovazione, verso "l'opportunità" che era incentrata su immaginari utopici e, a tratti, degni dei più sfarzosi faraoni dell'antico Egitto.
>> Venivano presentati progetti grandiosi, con cantieri sterminati che duravano 5-6 anni, con centinaia di camion che trasportavano "robe" gigantesche. Era inevitabile scivolare verso visioni di schiavi che tirano enormi blocchi di pietra per costruire piramidi.
>> Questi grandi progetti, a New York, in Germania, a Valencia e in tanti altri posti, venivano presentati candidamente come le dimensioni più avanzate della ricerca contemporanea, come le utopie che, creando meraviglia, liberando l'immaginazione e "usando anche la dimensione di gioco dell'Architettura", potevano modellare gli immaginari, creare visioni sul futuro e, quindi, opportunità.
>> Ma davanti agli occhi c'era una persona che presentava fiero delle immagini di cantieri enormi, con centinaia di migliaia di pezzi di impalcatura tirati su per costruire curve azzardate fatte di dozzine di strati di materiali differenti, che contrattava tra istituzioni e corporation globali del cemento, dell'acciaio, del legno per costruire cose enormi in grado di "far fare una passeggiata suggestiva in cima alla città, di mangiare in un buon ristorante con una vista incredibile, di creare delle zone coperte e di ombra - presupposto fondamentale per la fruizione dello spazio pubblico -, creando tre livelli di utilizzo e interpretazione del territorio". (cito a memoria e in ordine sparso: mi scuserà l'architetto se sbaglio qalcosa, e si senta pure libero di correggere, ovviamente)
>> E, oltre ogni "ministero dell'amore" di orwell, venivano anche decantate le caratteristiche di ecologia e sostenibilità delle produzioni architettoniche.
>> Ora: lo so. Le utopie *possono* essere utilizzate per creare immaginari, per stimolare la fantasia, per abilitare la "fuga" che spesso permette di avere nuove idee. La meraviglia, la suggestione, l'"eccezionale" serve. Perchè se abito in un cubo di pietra e ne esco solo per andare a lavorare in un altro cubo di pietra, muoio. E quindi le cose eccezionali hanno un loro uso: possono essere utilizzare per riinventare la realtà, creando visioni e spazi di espansione.
>> Ma proprio non riesco ad identificare queste cose faraoniche con una via praticabile. Mi sembrano più oggetti del potere. Le suggestioni che mi fanno venire in mente sono quelle che rigurdano come l'architetto, in quel momento, si debba sentire una specie di semi-dio, con tutti quei camion, quei materiali, quelle enormi travi d'acciaio che si innalzano al cielo, proprio come le ha disegnate, o come le ha fatte disegnare ai suoi collaboratori, comunicando loro la sua visione. Mi viene in mente quanto costino questi oggetti. Quanto siano ogegtto di potere queste enormi cifre. Quanto siano oggetto di contrattazione tra professionisti, istituzioni, costruttori, politici, sindacati. E quanto siano belli nel disegno, ma di come sia poi ben più misera la realtà, fatta di lavoratori in tuta arancione e casco giallo, di stagisti che lavorano gratis, di poveracci con carta di credito che provano a rimorchiare portando veline a mangiare aragosta in cima ad un blob enorme a forma di fungo, e di come siamo cambiati poco nelle nostre aspirazioni.
>> Ecco: superuomini, in grado di avere potere, che si esprime con questi enormi "cosi".
>> Non che non siano belli o interessanti, ripeto. Sono interessanti come usano il software, come usano i nuovi materiali, come riescano a rendere reali cose che prima non c'erano e possibili cose che si immaginano dopo aver visto il "coso".
>> Non mi sembra un "dibattito contemporaneo", questo. Non mi sembra, perchè ci sono cose più fondamentali nel contemporaneo, cose che hanno più la caratteristica di essere "nodi". E riguardano probabilmente maggiormente l'ambiente, il lavoro, il debito, e l'identificazione di modelli che creino un po' di sostenibilità e che, con tutta probabilità, non sono grandi come quei "cosi", ma sono più piccoli, autonomi, mobili, "attorno" alla persona, empatici e temporanei. Mentre invece queste utopie sono proprio il contrario.
>> La cosa che mi colpisce di più, oltretutto, è collegata al linguaggio. Che, come al solito, è "al contrario". Ma a questo siamo abituati, no? "Innovazione" vuol dire mantenere lo stato delle cose, "futuro" vuol dire passato, "sostenibilità ed ecologia" vuol dire fare un cantiere gigantesco che dura 6 anni per produrre un mostro gigantesco con un pannellino solare sopra, "dialogo" vuol dire avere amici nei posti giusti per poter contrattare committenze ciclopiche, "cambiamento" vuol dire solo velocizzare l'impresa diminuendo la burocrazia.
>> La cosa più violenta la subiscono, come al solito, gli studenti, cui vengono inculcati questi immaginari, come simbolo del successo.
>>
>> Salto in avanti: dall'altra parte, all'Opificio Telecom, c'era un incontro sul "futuro di internet". Si parlava di App, le applicazioni per i dispositivi mobili che stanno trasformando così rapidamente il mercato di come si usa internet ed i suoi servizi.
>> Le App sono molto belle, divertenti, accessibili e usabili. Hanno delle belle interfacce. Sono divertenti, emozionanti, eccetera, eccetera, eccetera.
>> Ma hanno un enorme problema: eliminano la trasparenza dei protocolli di internet, mettendo tutto in mano al service provider, sia dal punto di vista di chi gestisce il marketplace delle applicazioni, sia da chi le applicazioni le fa e commercializza.
>> Vuoi il servizio? Scaricati l'applicazione e fregatene di come funziona, di come gestisco le informazioni, di come gestisco la sicurezza, di quanto ti spio te e i tuoi amici. Non c'è standard. Se usi 10 app vuol dire che, in un modo o nell'altro, hai firmato 10 contratti su come gestire i tuoi dati, tutti differenti, tutti scritti in linguaggi che non capisci, tutti testi che non leggerai mai. E poi: fine della libertà di navigazione e di uso delle risorse di internet, fine degli standard e protocolli aperti: con le app torna tutto in mano ai service provider. Altro che innovazione: torniamo ai deliri di America Online.
>>
>> Questo grande incontro è stato presentato nell'ambito dei programmi di telecom italia sulle culture digitali. In dei luoghi quindi in cui si parla di innovazione e di opportunità.
>> Se ci fate caso sia questo che quello prima son due problemi "architettonici". Di tipo differente. Di due architetture che si compenetrano, nella città, tra cemento e informazioni.
>> Proprio mentre Bernabè, da un lato, annuncia che la super-rete wireless Telecom se la farà da sola, e deciderà da sola come/quando/cosa farà come servizi, perchè "è sua responsabilità".
>> E mentre continua la buffonata (che però funziona: attenzione! anche se non lo dovesse vincere, il progetto ha creato quel che doveva creare...) del Nobel per la Pace ad Internet.
>> Proprio mentre continua il fiorire di iniziative di origine "corporate" sull'imprenditorialità alla californiana, con tutti gli immaginari che ne conseguono e senza le delicate alchimie che lì la stanno facendo funzionare (per ora), con tutti gli incubatori di impresa che ne conseguono (qui).
>>
>> Altra cosa in comune: tutte queste iniziative sono iper-frequentate. In qualche modo stanno tutti "a caccia". Vogliono inventare la prossima killer-app, il prossimo social network. Proprio come vogliono diventare i prossimi archi-star.
>>
>> Senza pensare, però, che quelli che raggiungono quei ruoli sono ben lontani dall'utopia, ed agiscono non nel modo "ingenuo", puro ed accessibile che ci mostrano con la "visione", ma con ben più rodate abilità contrattatorie, a suon di bilanci, investimenti incrociati, accordi fatti al ristorante, strette di mano, e compromessi.
>>
>> Questo sfasamento del linguaggio concorre a creare la scomparsa della rivolta, della reazione e, quindi, della reale innovazione e trasformazione.
>>
>> In definitiva: cos'è l'innovazione, il cambiamento, la rivolta, la trasformazione e la reinvenzione quando a definirne estetiche, modalità, opportunità, ambizioni ed immaginari è un costruttore, una corporation o un venture capitalist?
>>
>> bacieabbracci
>> xDxD
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