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href="http://proletaricomunisti.blogspot.it/2016/10/pc-2-ottobre-dietro-le-nuove-espulsioni.html"><FONT
face=Arial><FONT style="FONT-SIZE: 18pt" color=#cc6666><FONT
style="TEXT-DECORATION: none">dal blog proletari comunisti
</FONT></FONT></FONT></A></H3>
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itemprop="name"><FONT face=Arial><FONT style="FONT-SIZE: 18pt"
color=#cc6666><FONT style="TEXT-DECORATION: none">dietro le nuove espulsioni di
migranti sudanesi infami accordi segreti tra governo imperialista italiano e
regime sanguinari e asserviti dei paesi oppressi - il caso
Sudan</FONT></FONT></FONT></H3>
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<H1 class=entry-title style="POSITION: relative; MARGIN: 0px"><FONT
color=#111111 face=Arial>Memorandum d’Intesa: dietro le espulsioni un patto
segreto tra la polizia italiana e sudanese</FONT></H1>
<DIV class=entry-meta><IMG
title="Memorandum d’Intesa: dietro le espulsioni un patto segreto tra la polizia italiana e sudanese"
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alt="Memorandum d’Intesa: dietro le espulsioni un patto segreto tra la polizia italiana e sudanese"
src="http://www.nuovasocieta.it/wp-content/uploads/2016/09/migranti-sudan-2-840x480.jpg"
width=400 height=228><B><SPAN><FONT face=Arial><FONT style="FONT-SIZE: 18pt"
color=#111111>da Ventimiglia,portati all'Hotspot di Taranto, poi riportati a
Ventimiglia, e poi espulsi</FONT></FONT></SPAN></B></DIV><BR><FONT
face=Arial><FONT style="FONT-SIZE: 10.5pt" color=#111111>Il 24 agosto erano a
Ventimiglia, come altre migliaia di persone che, dopo essere fuggite dai propri
Paesi, cercano di uscire dall’Italia. Erano 48 e venivano dal Sudan, alcuni
dalla regione del Darfur. “Irregolari” perché non avevano fatto richiesta di
protezione internazionale in Italia, volevano raggiungere altre nazioni europee.
Sono stati prelevati al confine con la Francia dalla polizia e portati a
Taranto, per un primo riconoscimento, poi di nuovo nella città ligure dove, al
posto di frontiera, hanno trovato l’autorità consolare sudanese (Paese dal quale
erano scappati) che ha verificato la loro identità e dato avvio al
rimpatrio.<BR><BR>Oltre duemila chilometri percorsi in pochissime ore, senza
avere la possibilità di capire come presentare domanda di protezione
internazionale. «A Taranto non siamo riusciti a capire cosa stava succedendo,
avevamo paura e nessuno di noi se l’è sentita di firmare niente» ha confessato
uno di loro attualmente rinchiuso al Centro di identificazione ed espulsione di
Torino. Appena concluso il riconoscimento i 48 sono stati messi su pulmini e
portati all’aeroporto “Sandro Pertini” di Caselle. Forse per mancanza di posti
sull’aereo sette non sono partiti, ma portati al Cie di corso Brunelleschi.<SPAN
class=Apple-converted-space> </SPAN><B>Quelli decollati per Khartoum, come
da procedura, avevano le mani legate dalle fascette.</B><SPAN
class=Apple-converted-space> </SPAN>Questione di sicurezza.<BR>Un rimpatrio
collettivo a tempo di record, facilitato da quella che potrebbe essere la prima
applicazione del segretissimo Memorandum d’Intesa firmato a Roma il 3 agosto
2016 da Franco Gabrielli, capo della polizia e Hashim Osman el Hussein,
direttore generale delle forze di polizia del Sudan.<BR>Due dei rimpatriati sono
stati arrestati appena sbarcati nella capitale sudanese, ma non è chiaro di cosa
siano accusati. Degli altri non si hanno notizie certe. L’avvocato Dario
Belluccio sta cercando di seguire il caso «ma la situazione è delicata e le
comunicazioni difficili» afferma.<BR>Quelli trattenuti al Cie sono riusciti a
presentare domanda di protezione internazionale, due hanno già ottenuto lo
status di rifugiato.<BR><STRONG>Luigi Manconi: «Ancora nessuna risposta dal
Ministero dell’Interno»</STRONG><BR>Le criticità in questa vicenda sono molte:
«Come è stato possibile procedere con tanta rapidità? Quali garanzie abbiamo che
in questo lasso di tempo così breve quelle persone abbiano avuto modo di
conoscere la propria situazione giuridica, di sapere che avevano la possibilità
di chiedere protezione in Italia?» si chiede Luigi Manconi, presidente della
Commissione diritti umani del Senato che ritiene tale celerità nel rimpatrio un
effetto del Memorandum «un tipo di accordo che non ha bisogno del vaglio dal
Parlamento e su cui si hanno poche notizie. Ecco perché ho subito presentato
un’interrogazione in merito. Il Ministero dell’Interno ha il dovere di far
conoscere tutti i dettagli di quell’operazione di rimpatrio e di rendere
pubblico l’accordo tra le forze di polizia italiane e sudanesi. Faccio fatica ad
accettare l’idea che possa essersi trattato di una vera e propria “deportazione
di gruppo” e, per sgomberare ogni dubbio, chiedo che si risponda quanto prima
alla nostra richiesta di informazioni. Ne va della credibilità del nostro
Paese». Ma a fine settembre il Memorandum d’Intesa rimane segreto.<BR>Non è
l’unico accordo di questo tipo: «Attualmente il Dipartimento di Pubblica
Sicurezza ha avviato forme di cooperazione operativa con le autorità competenti
di alcuni dei Paesi dai quali hanno origine i principali flussi di immigrazione
irregolare (Gambia, Costa d’Avorio, Ghana, Senegal, Bangladesh e Pakistan in
particolare), oltre alle intese già formalizzate con l’Egitto (2007), con la
Tunisia (2011) e più recentemente con la Nigeria e il Marocco. È fondamentale
essere messi nelle condizioni di monitorare l’attività del nostro governo in
questo settore e vigilare» spiega Manconi.<BR><IMG
class="alignnone size-full wp-image-42290"
style="MAX-WIDTH: 450px; HEIGHT: auto" alt=migranti-sudan
src="http://www.nuovasocieta.it/wp-content/uploads/2016/09/migranti-sudan.jpg"
width=400 height=194><BR><STRONG>La strategia europea per i migranti: soldi in
cambio di maggiore controllo delle frontiere</STRONG><BR>L’azione dell’Europa
per affrontare le migrazioni prende avvio col “Processo di Rabat” del 2007 ma
raggiunge una concretezza il 28 novembre 2014, quando viene firmato a Roma
l’accordo tra i 28 Paesi dell’Unione europea con Djibouti, Egitto, Eritrea,
Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Tunisia a conclusione del “Processo
di Khartoum”, avviato durante la Presidenza dell’Unione da parte dell’Italia. Il
successivo passo nella gestione dei flussi migratori è arrivato a La Valletta
nel novembre 2015, con l’istituzione del Fondo fiduciario d’emergenza
dell’Unione europea per l’Africa, finanziato con 1,9 miliardi di euro. Nei piani
del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker la dotazione del
Fondo dovrebbe salire fino a 5 miliardi coi contributi degli Stati dell’Unione e
poi, per un effetto di attrazione sugli investitori privati, ampliare la
capacità di investimento a 60 miliardi entro il 2020. Il Fondo fa parte della
strategia avviata dal maggio del 2015 con l’Agenda europea per le migrazioni che
poggia su due cardini «da una parte il rafforzamento di Frontex, con l’aumento
dei finanziamenti e l’attribuzione di competenze specifiche; dall’altro la
Commissione ha deciso di imprimere un’accelerazione alla definizione di forme di
collaborazione con i Paesi terzi per fermare i flussi migratori verso l’Europa –
afferma Luigi Manconi, che prosegue – Accanto all’obiettivo di affrontare le
cause profonde della migrazione e contribuire alla creazione di pace, stabilità
e sviluppo economico dei Paesi terzi viene individuata come priorità, e
finanziata, la cooperazione in materia di rimpatrio e di riammissione. Che
l’approccio della Commissione sia sbilanciato verso quest’ultimo aspetto è
dimostrato dall’intesa tra Turchia e Ue di marzo, accordo i cui contorni formali
e giuridici sono ancora tutti da chiarire. E in questo quadro va collocata la
comunicazione del 7 giugno della Commissione, il così detto Migration Compact di
Juncker».<BR><STRONG>“Modello Turchia” per fermare i migranti</STRONG><BR>Il
misterioso Memorandum è solo uno degli atti che sanciscono la prosecuzione degli
accordi con Pesi terzi sul “modello Turchia”, e poco importa chi siano i
governanti a cui si stringe la mano. Il caso del Sudan è emblematico: il
presidente Omar al-Bashir, salito al potere dopo un colpo di Stato nel 1989, è
ricercato dalla Corte penale internazionale dell’Aia per genocidio, crimini
contro l’umanità e crimini di guerra.<BR>Dalle indiscrezioni che filtrano il
Memorandum d’Intesa si fonda su uno scambio: equipaggiamento, addestramento e
finanziamenti alla polizia del Sudan in cambio di un maggiore controllo delle
frontiere. La collaborazione si estenderebbe anche alla presenza in Italia, sia
negli hotspot sia negli altri centri di permanenza dei migranti, della polizia
sudanese, che provvederebbe all’identificazione velocizzando il rimpatrio dei
connazionali “irregolari”. Il Memorandum va oltre e prevede la possibilità, se
ci fossero condizioni di urgenza, di effettuare il riconoscimento direttamente
in Sudan.<BR><STRONG>“Aiutiamoli a casa loro”</STRONG><BR><BR><BR><HEADER
class=entry-header style="DISPLAY: block"></HEADER><BR><BR>Sull’onda dello
slogan “aiutiamoli a casa loro” è in atto una esternalizzazione delle frontiere
dell’Unione europea che mette in luce una debolezza politica allarmante. La
previsione di hotspot nei Paesi africani ha un triste precedente, «i campi in
Libia sotto Gheddafi in quella tremenda stagione partita nel 2004 hanno già
dimostrato quali atrocità si possono verificare affidando la gestione delle
frontiere esterne a regimi dittatoriali. Si è trattato di un esperimento sulla
pelle di migliaia di persone che si basava proprio su un accordo bilaterale con
l’Italia il cui contenuto è rimasto sconosciuto. Ma i racconti di quanti sono
scampati a quell’inferno sono bastati a far sapere quanto accadeva a poche
centinaia di chilometri da noi, con l’avallo dei governi dell’epoca – dice
Manconi, che ricorda – le condanne nei confronti dell’Italia da parte della
Corte europea per i diritti dell’uomo sui tanti episodi di respingimenti
collettivi rappresentano un precedente fondamentale per ribadire in quale
direzione dobbiamo muoverci. Oltre alla considerazione, preliminare a ogni
discorso, che niente e nessuno potrà fermare i movimenti migratori: finora muri,
filo spinato, motovedette e blocchi navali, non li hanno arrestati né
ridotti».</FONT></FONT></DIV></DIV></DIV>
<br /><br />
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