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<DIV>slai cobas per il sindacto di classe</DIV>
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<DIV><B>Subject:</B> schiave nel brindisino e tarantino</DIV></DIV></DIV>
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<H1 class=entry-title><A
style='href: "http://www.operaicontro.it/?p=9755730436"' rel=bookmark><FONT
face="Times New Roman">LE SCHIAVE</FONT></A><FONT face="Times New Roman">
</FONT></H1>
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<DIV class=entry-photo><IMG title="LE SCHIAVE"
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alt="DALLA REPUBBLICA Così metà paga finisce al caporale di RAFFAELLA COSENTINO TARANTO – Alle tre di notte le donne del Brindisino e del Tarantino sono già in strada. Indossano gli […]"
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<P><FONT face="Times New Roman">DALLA REPUBBLICA</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><U>Così metà paga finisce al
caporale</U><BR><EM>di RAFFAELLA COSENTINO</EM><BR><STRONG>TARANTO –
</STRONG>Alle tre di notte le donne del Brindisino e del Tarantino sono già in
strada. Indossano gli abiti da lavoro e hanno in mano un sacchetto di plastica
con un panino. Nei punti di raccolta, agli angoli delle piazze, alle stazioni di
benzina, aspettano il caporale che viene a prenderle con l’autobus gran turismo
per portarle sui campi, dove lavorano sfruttate e ricattate, a volte anche con
la richiesta di prestazioni sessuali. Sono soprattutto italiane, più affidabili,
ma soprattutto più “mansuete” delle lavoratrici straniere, protagoniste in
passato di proteste e denunce.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Per costringere le italiane al silenzio non
servono violenze fisiche. Basta la minaccia “domani resti a casa”. “I
proprietari dei pullman sono i caporali. È a loro che ci rivolgiamo per trovare
lavoro in campagna o nei magazzini che confezionano la frutta”, racconta Maria,
nome di fantasia, che ha 24 anni e lavora sotto i caporali da quando ne aveva
16. Secondo le stime del sindacato</FONT><A
style='href: "http://www.flaipuglia.it/"'><FONT face="Times New Roman">Flai
Cgil</FONT></A><FONT face="Times New Roman">, sono 40mila le braccianti pugliesi
vittime dei caporali italiani, che in molti casi hanno comprato licenze come
agenzie di viaggio, riuscendo così ad aggirare i controlli.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Il reclutamento. </STRONG>“Nei paesi ci
sono delle persone, generalmente sono delle donne, che fanno da tramite tra chi
vuole lavorare e il caporale. Raccolgono i nominativi per lui – racconta
Antonietta di Grottaglie – Il caporale decide dove mandare a lavorare le
braccianti e quello che deve essere dato come salario. Cercano di non avere
uomini, anche per i lavori pesanti, perché le donne si possono assoggettare più
facilmente”. Antonio, altro nome di fantasia, è ancora più esplicito: “Non
vogliono stranieri, il motivo è che loro si ribellano e gli italiani no: ci
sentiamo gli schiavi del terzo millennio, ci hanno tolto la dignità”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Le italiane sfruttate per la fragola
“top quality”. </STRONG>“La donna si presta di più a un lavoro piegato di tante
ore – spiega un produttore agricolo che assume circa 60 operaie nelle sue serre
di Scanzano Jonico – Io ho quasi tutte italiane, andiamo a prendere la
manodopera in Puglia, perché quella locale non basta. In tutta Scanzano esistono
600 ettari di coltivazioni di fragole. A 6 donne a ettaro fanno 3600 braccianti
donne”. Ci sono rumeni che si propongono per la raccolta, ma non vengono quasi
mai presi in considerazione. “La fragola è molto delicata – dice
Teresa – facilmente si macchia e diventa invendibile, per questo
servono le donne a raccoglierla nelle serre, con la temperatura che raggiunge i
40 gradi”. Tra Scanzano, Pisticci e Policoro si produce la fragola Candonga,
brevettata in Spagna e diventata un’eccellenza molto apprezzata sul mercato
perché è più grande e ha una lunga durata. Spesso vengono “trattate” con ormoni
come la gibberellina, come vediamo dalle scritte sui tendoni “campo
avvelenato”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Caporali tour operator. </STRONG>Da
aprile a settembre centinaia di grossi pullman si spostano carichi di
lavoratrici tra le province di Brindisi, Taranto e Bari per la stagione delle
fragole, delle ciliegie e dell’uva da tavola. Grottaglie, Francavilla Fontana,
Villa Castelli, Monteiasi, Carosino, sono solo alcuni dei nomi della geografia
del caporalato italiano che sfrutta le donne. Il nome del caporale è scritto in
grande, stampato sulla fiancata dei bus, insieme al numero di cellulare. “È per
questo che nessuno li ferma”, dice Teresa, altro nome di
fantasia.</FONT></P><SECTION id=inline_114753798 class=inline-video>
<H1 class=inline-video-title><FONT face="Times New Roman">Donne e italiane, le
nuove vittime del caporalato agricolo</FONT></H1>
<DIV id=video-114753798><IMG alt=""
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<P><FONT face="Times New Roman">Il potere del caporale si misura dal numero di
pullman che possiede, perché questo è indice anche della quantità di lavoratori
che riesce a controllare. Si va dalle cinquanta alle oltre 200 persone. Il
caporale prende dall’azienda circa 10 euro a donna e sui grandi numeri guadagna
migliaia di euro a giornata. “Nel magazzino per il confezionamento dell’uva da
tavola dove lavoro ci sono mille operaie italiane, portate lì da più di dieci
caporali diversi”, racconta Antonio, bracciante della provincia di Taranto. In
questi giorni i pullman percorrono quasi cento chilometri, dalla Puglia fino
alle aziende agricole che producono fragole nel Metapontino, tra Pisticci,
Policoro e Scanzano Jonico, in provincia di Matera.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Questi proprietari conferiscono il prodotto a
dei consorzi di commercianti con sede nel nord Italia che hanno magazzini in
loco. L’intermediario prende una percentuale variabile, almeno del 2%, poi si
aggiungono i costi delle cassette e la tariffa del 12% pagata al “posteggiante”,
il personaggio che la espone in vendita ai mercati generali. Alla fine si arriva
a un prezzo al consumatore anche di 7 euro al chilo nei supermercati di
Milano.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Sfruttate come lavoratori immigrati.
</STRONG>Gli orari di lavoro e la paga variano a seconda del tipo di raccolta.
Ma la regola sono impieghi massacranti e sottosalario. Alle fragole si lavora
per sette ore, ma se sono mature e vanno raccolte subito si arriva anche a 10
ore. Nei magazzini di confezionamento si arriva anche a 15 ore. Ogni donna deve
raccogliere una pedana di uva pari a 8 quintali. Se ci mette più tempo la paga
resta uguale, per cui alla fine il salario reale è meno di 4 euro l’ora. “C’è il
pregiudizio che le donne iscritte negli elenchi agricoli siano false
braccianti – spiega Giuseppe Deleonardis, segretario della Flai Cgil
Puglia – invece vivono una condizione di sfruttamento pari agli
immigrati. Nel sottosalario, a parità di mansioni con gli uomini, c’è
un’ulteriore differenza retributiva: se la paga provinciale sarebbe di 54 euro e
all’uomo ne danno in realtà 35, la donna non va oltre 27
euro”.</FONT></P><FIGURE id=inline_114821466 class="HTML inline-embed"><A
style="name: tabella-paga"></A><IMG alt=""
src="http://static.repubblica.it/repubblica/inchieste/_2015/agro/agro3.jpg"></FIGURE><FONT
face="Times New Roman"> </FONT>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Ricatti ed estorsioni. </STRONG>Il
salario ufficiale è di 50-60 euro. Ma vengono segnate la metà delle giornate di
lavoro effettivamente lavorate. Le braccianti vengono costrette a firmare buste
paga che rispettano i contratti, perché le aziende hanno bisogno di dimostrare
che sono in regola per poter accedere ai finanziamenti pubblici. Di fatto
continuano a pagare un terzo o al massimo la metà del salario dovuto,
richiedendo indietro i soldi conteggiati in busta paga.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">“In provincia di Taranto, con inquadramento
minimo, posso avere una busta paga ‘ufficiale’ di 47 euro lordi, però in realtà
me ne arrivano 27, massimo 28 a giornata – racconta Antonietta – L’azienda
ci dà il foglio di assunzione, noi dobbiamo portarlo con noi tutti i giorni nel
caso ci dovesse essere un controllo. L’autista del pullman risulta essere un
dipendente dell’agenzia di viaggio”. I datori di lavoro mettono la paga del
caporale sull’assegno che percepiscono le lavoratrici, le quali riscuotono e
danno al caporale la sua parte in nero.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Sotto gli occhi della fattora.
</STRONG>Nei campi italiani succede di tutto, approfittando della disperazione e
della crisi economica. C’è chi aspira a diventare una “fissa” della squadra del
caporale come se fosse una specie di nota di merito in graduatoria. Chi subisce
molestie sessuali o la richiesta di prostituirsi per poter lavorare. Ci sono
donne caporali che sono anche proprietarie di pullman. Ma la figura più ambigua
è quella che tutti chiamano “la fattora”, una sorta di kapò al femminile con una
funzione di ricatto. È lei la persona di fiducia del caporale che controlla le
lavoratrici sul campo. “Il suo ruolo è di subordinare psicologicamente le
braccianti, garantendo loro assunzioni se rinunciano ai diritti”, spiega
Deleonardis. “Alla minima protesta, rimostranza o insubordinazione si resta a
casa per punizione – dice Teresa – Anche se ti lamenti perché non vuoi viaggiare
nel cofano del pulmino”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Né denunce né ispezioni.</STRONG> Emerge
il quadro di un sistema di produzione basato su ricatti, soprusi, omertà e
conoscenza personale. “Non ho mai visto un pullman essere fermato da una
pattuglia della polizia, anche se ne incontriamo molte”, continua Antonio.
Secondo Deleonardis questo è un sistema di caporalato legalizzato. “È una
situazione conosciuta da tutti sul territorio. Qui c’è una tolleranza di un
sistema di illegalità, non si vuole colpire il caporalato – dice il
sindacalista – Abbiamo chiesto al prefetto di Taranto di fare dei controlli, ma
possibile che non ci sia mai una verifica se i pullman hanno le autorizzazioni a
trasportare persone e in quali aziende vanno?”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">I dati ufficiali del ministero del Lavoro dicono
che ci sono state 1818 ispezioni in Puglia in tutto il 2014. Quelle che hanno
riscontrato irregolarità sono state 925, circa il 50%, per un totale di 1299
lavoratori coinvolti, pari a 1,4 lavoratori ad azienda. Un numero davvero esiguo
se paragonato ai datori di lavoro che assumono anche mille braccianti per volta
servendosi dei caporali.</FONT></P><FIGURE id=inline_114821534
class="HTML inline-embed"><IMG alt=""
src="http://static.repubblica.it/repubblica/inchieste/_2015/agro/agro1.jpg"></FIGURE><FONT
face="Times New Roman"> <FIGURE id=inline_114843550
class="HTML inline-embed"></FONT><A style="name: teodonio"></A></FIGURE>
<P><FONT face="Times New Roman"><U>Sessantamila sfruttate in tre
regioni</U><BR><EM>di VALERIA TEODONIO</EM><BR><STRONG>ROMA –</STRONG> Amina
indossa un vestito leggero e scarpe sporche di terra. Ha 25 anni, ma ne dimostra
dieci di più. È diventata mamma sei mesi fa e ha lasciato il suo bambino in
Romania per venire a lavorare in Italia. La pelle cotta dal sole, gli occhi
grandi e scuri. E gonfi di paura. Li tiene bassi, incollati al pavimento. Sta
raccontando a due operatrici della </FONT><A
style='href: "http://www.caritasitaliana.it/"'><FONT
face="Times New Roman">Caritas </FONT></A><FONT face="Times New Roman">di Foggia
che è appena scappata, che l’hanno costretta a stare piegata sui campi dei
padroni italiani dall’alba alle dieci di sera, che non l’hanno mai pagata, che
le hanno preso i documenti. E che per riprenderseli, e andarsene, è stata
costretta ad avere dei rapporti sessuali con il suo caporale romeno. Adesso non
ha neanche i soldi per il biglietto dell’autobus.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Il fenomeno del caporalato in Italia è una piaga
sempre più profonda. E la novità è che negli ultimi due anni c’è stato un
aumento costante della manodopera femminile: donne ghettizzate, violentate e
sfruttate che vanno lentamente a sostituire i braccianti di sesso maschile: oggi
– dicono i dati che sta raccogliendo la Flai Cgil e che pubblichiamo in
anteprima – le straniere schiavizzate in agricoltura sono 15mila (contro i 5mila
uomini). Sono quasi sempre giovani mamme, ricattabili proprio perché hanno figli
piccoli da mantenere. Un dato impressionante, che si somma ad un altro elemento
preoccupante: il numero sempre crescente delle lavoratrici italiane, che, se non
schiavizzate, sono comunque gravemente sfruttate: sempre secondo le stime del
sindacato, in Campania, Puglia e Sicilia, le tre regioni a maggiore vocazione
agricola, sono almeno 60mila, in proporzione crescente rispetto alle straniere.
Vengono pagate 3-4 euro l’ora, ma anche meno in alcuni territori, e costrette a
turni massacranti.</FONT></P><FIGURE id=inline_115007826
class="HTML inline-embed"><IMG alt=""
src="http://static.repubblica.it/repubblica/inchieste/_2015/agro/donn.jpg"></FIGURE><FONT
face="Times New Roman"> </FONT>
<P><FONT face="Times New Roman">Ad Amina hanno raccontato che tutti i soldi
guadagnati in un mese servono per pagare il viaggio, gli spostamenti, l’acqua,
il vitto. E che, anzi, è lei ad essere in debito. E che deve continuare a
lavorare fino a quando non sarà saldato. Altrimenti niente paga e niente
documenti. “Fai quello che ti diciamo, oppure ti ammazziamo”. Si è dovuta anche
prostituire in cambio della libertà. Molte altre restano a spezzarsi la schiena
fino a 14 ore al giorno, cercando in tutti i modi di portare qualcosa a casa a
fine stagione. Hanno bambini piccoli e un bisogno disperato di soldi. E tornare
a mani vuote non è pensabile. Anche se le condizioni sono
disumane.</FONT></P><SECTION id=inline_114817720 class=inline-video>
<H1 class=inline-video-title><FONT face="Times New Roman">Catania, ‘caporalato’
agricolo: le condizioni disumane delle vittime</FONT></H1>
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<P><FONT face="Times New Roman">Restano per l’estate o anche solo per qualche
settimana, e poi se ne vanno. Rientrano in Italia dopo qualche mese o l’anno
successivo. Quando va bene e hanno saldato il “debito” (i caporali trattengono
soldi anche per l’affitto delle baracche dove le fanno dormire), vengono pagate
3 euro l’ora come gli uomini schiavizzati, ma spesso anche meno. Vengono
preferite alla manodopera maschile proprio perché non si ribellano e sottostanno
a tutto, anche ai ricatti sessuali. Una pratica frequente in Puglia, nel
Brindisino e nel Tarantino, e in Campania, nel Casertano. E in Sicilia, in
particolare nella provincia di Ragusa, dove è stato documentato </FONT><A
style='href: "http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/10/08/news/rumene-nel-ragusano-tra-ricatti-e-soprusi-ma-ora-il-territorio-si-mobilita-1.183497"'><FONT
face="Times New Roman">il caso di donne romene “vendute” dai caporali ai padroni
italiani</FONT></A><FONT face="Times New Roman">, con cui vengono costrette ad
avere rapporti sessuali, anche nel corso di festini a cui partecipano diversi
uomini..</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Ragazze reclutate in Romania.</STRONG> I
caporali che operano in Puglia vanno a reclutare le ragazze soprattutto nelle
zone agricole della Romania, nelle campagne intorno a Timisoara o a Iasi, zona
al confine con la Moldavia. Le imbarcano su pullman da 50 posti. Il viaggio dura
un giorno e una notte. “Organizzano viaggi verso il sud Italia – racconta
Concetta Notarangelo, coordinatrice del progetto Caritas in Puglia – ma sappiamo
per certo che arrivano anche in Emilia Romagna. Ma nessuno ha il coraggio di
denunciare. Qui non si tratta di caporali e basta, si tratta di organizzazioni
criminali. Malavita. Il caporale è solo un anello della catena. Gli annunci per
questi lavori escono addirittura su un giornale romeno. Non è solo un
passaparola. E le donne hanno paura. Ma senza denunce nessuno viene punito. In
tre anni che seguo il progetto Caritas abbiamo raccolto in tutto 15 denunce. E
poi è comunque difficile provare il reato, ci sono alcuni processi in corso, ma
per ora nessuna condanna”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">In Campania ad essere schiavizzate sono le donne
africane. “Se non accettano di avere rapporti sessuali con il datore di lavoro
(quasi sempre italiano, <EM>ndr</EM>) non vengono pagate – spiega Cinzia Massa,
responsabile immigrazione Flai Campania – Non hanno permesso di soggiorno, ed
essendo clandestine sono le più ricattabili”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman"><STRONG>Tutto il Sud coinvolto.</STRONG> Secondo
i dati della Flai Cgil solo in Puglia sono tra le 30 e le 40mila le donne
gravemente sottopagate, a cui vanno aggiunte diverse altre migliaia in Campania
e in Sicilia. A volte partono alle tre di notte e tornano a casa di pomeriggio.
I caporali intascano 12 euro per ogni donna che hanno “procurato”. Anche se
hanno un regolare contratto, vengono pagate 20-25 euro al giorno. Mentre sulla
busta paga ne risultano 45. Succede soprattutto nel Casertano e nel Salernitano.
“Mentre lavorano – denuncia ancora il sindacato – le donne vengono controllate
da un guardiano, che grida continuamente di non distrarsi e di essere più
veloci. Per andare in bagno hanno 10 minuti a turno. E se qualcuna si rifiuta di
andare sui campi in un giorno di festa, come il 15 agosto, viene ‘punita': per
qualche giorno non la fanno lavorare”. E se una ragazza è considerata troppo
ribelle non viene scelta. Le donne selezionate vengono caricate sui furgoni o
ammassate – anche in 30 – in camion telonati. Per questo trasporto bestiame ogni
lavoratrice paga fino a 7 euro a viaggio.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Gli addetti all’agricoltura in Italia sono un
milione e 200 mila. Nel 43 per cento dei casi – è il dato dell’Istat – si tratta
di lavoro sommerso. E il giro d’affari legato al business delle </FONT><A
style='href: "http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2014/06/04/news/caporalato-88051452/"'><FONT
face="Times New Roman">agromafie</FONT></A><FONT face="Times New Roman">,
secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro
all’anno. “Il caporalato – spiega Stefania Crogi, segretario generale Flai Cgil
nazionale – è stato riconosciuto come reato penale solo nell’agosto 2011, ed è
punibile con l’arresto da 5 a 8 anni. Prima era prevista solo una sanzione
pecuniaria. Ma non sempre si riesce a provarlo, anche a causa delle difficoltà
che incontrano le vittime nel denunciare. Serve un percorso di
protezione”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Amina è alla Caritas di Foggia. Ha fatto 50
chilometri a piedi per arrivarci. Ora è seduta davanti a Concetta e le chiede i
soldi per l’autobus. Ma quando le chiedono di denunciare i suoi sfruttatori,
finalmente alza lo sguardo dal pavimento, gli occhi scuri fissano quell’italiana
che vorrebbe aiutarla. Forse pensa a suo figlio, e all’uomo che le ha rubato
tutto quello che poteva. Si alza. E scappa via.</FONT></P><FIGURE
id=inline_114843613 class="HTML inline-embed"><A
style="name: coraggio"></A></FIGURE>
<P><FONT face="Times New Roman"><U>Ci manca il coraggio del camerunense
Sagnet</U><BR><EM>di RAFFAELLA COSENTINO</EM><BR><STRONG>ROMA – </STRONG>A pochi
giorni dall’apertura dell’Expo le Ong del commercio etico di Norvegia e
Danimarca hanno scritto al governo </FONT><A
style='href: "http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/impresa-e-territori/2015-05-09/lettera-renzi-contro-caporalato-agricoltura-scrivono-ong-danimarca-e-norvegia-130430.shtml?uuid=ABcyHOdD"'><FONT
face="Times New Roman">Renzi una lettera aperta</FONT></A><FONT
face="Times New Roman">chiedendo di agire contro il caporalato ed esprimendo la
preoccupazione dei consumatori dei loro paesi per l’illegalità che vige nel
sistema di produzione agricolo italiano. Si rischia il boicottaggio dei prodotti
italiani a causa dello sfruttamento dei braccianti, italiani e
stranieri.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Dal 2011 il caporalato è un reato penale sulla
carta. Ma si fatica ad applicare la legge, a vedere i caporali dietro le sbarre
e a punire le aziende agricole che si servono di loro. I processi sono lunghi e
dall’esito incerto. Questa mancanza di giustizia rafforza la tendenza
all’assuefazione a un sistema di soprusi da parte dei lavoratori, soprattutto di
quelli italiani.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Se il caporalato è diventato un reato penale lo
si deve allo sciopero dei braccianti africani di Nardò che nell’estate del 2011
rifiutarono di obbedire all’ennesimo ordine del caporale che chiedeva un
supplemento di lavoro sui pomodori per la stessa paga di 3 euro e 50 centesimi a
cassone. Una protesta spontanea, guidata dal giovane camerunense Yvan Sagnet,
oggi sindacalista in quelle stesse terre con la Flai Cgil e minacciato di morte
per le sue denunce.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Il processo “Sabr” che vede Sagnet e altri
braccianti testimoni al tribunale di Lecce contro imputati italiani e stranieri,
accusati di essere i caporali e i mandanti dello sfruttamento, è ancora in
corso. La Regione Puglia e la Cgil si sono costituite parte civile, mentre
il comune di Nardò ha rifiutato di farlo, una spia della difficoltà ad
affrontare questo problema sul territorio.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">“La protesta era sacrosanta perché le condizioni
di lavoro degli stagionali non erano coerenti con le nostre leggi e neppure con
i principi di civiltà”, ammette il sindaco e avvocato Marcello Risi. Secondo il
primo cittadino però, grazie ai controlli degli ispettori del lavoro, il
caporalato “si è di molto ridimensionato ed è diventato residuale”. Eppure basta
andare d’estate a Nardò per vedere le tendopoli in cui alloggiano i migranti
sfruttati e i ruderi in cui sono costretti a vivere gli altri, sottomessi ai
caporali. “Non ci siamo costituiti parte civile perché il processo è fondato su
intercettazioni e indagini effettuate quando il reato non esisteva”, spiega
Risi. Insomma, sul territorio ci si aspetta che i datori di lavoro locali
coinvolti nel processo, come i Latino, vengano assolti. Il Comune non si
costituisce parte civile in un processo simbolo perché, afferma Risi, “per
l’amministrazione comunale di Nardò la costituzione repubblicana è il simbolo
più alto di tutti”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Anche a Rosarno, cittadina calabrese teatro
della famosa rivolta dei braccianti africani che nel 2010 si ribellarono alla
‘ndrangheta e allo schiavismo, le istituzioni non hanno pensato di costituirsi
parte civile nel processo contro Antonio Pititto, condannato a 13 anni e 10 mesi
di carcere in primo grado per avere ridotto in schiavitù il ghanese Joseph
Biribi. Dopo essere fuggito durante gli scontri, Biribi ha denunciato il suo
schiavista. L’unica a costituirsi parte civile è stata l’associazione
anti-tratta abruzzese “</FONT><A
style='href: "http://www.ontheroadonlus.it/"'><FONT face="Times New Roman">On
the road</FONT></A><FONT face="Times New Roman">” che ha dato assistenza legale
al bracciante. Biribi era costretto a vivere in un rudere distante diversi
chilometri dal paese di Cessaniti (VV), insieme agli animali del ‘padrone’,
senza bagno, energia elettrica e senza copertura, per cui quando pioveva lui
dormiva sotto l’acqua. Lavorava con orari massacranti, sette giorni su sette,
accudendo le pecore, raccogliendo arance e mandarini, con una paga pattuita di
20 euro al giorno in nero. Parte del lavoro non gli fu pagato e Pititto gli
consegnò anche 100 euro falsi come salario. Biribi era costretto a lavarsi con
l’acqua avanzata dall’abbeveraggio degli animali, gli era vietato usare la
bombola del gas per scaldarsi. I giudici hanno stabilito che c’è stato
sfruttamento mediante violenza, inganno e approfittandosi della situazione di
necessità del lavoratore.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Pititto arrivò a picchiare e ferire Biribi con
un pezzo di legno in testa perché non obbediva al suo ordine di gettare via il
cellulare che squillava durante il lavoro e che era il suo unico mezzo di
collegamento con il resto del mondo. Dopo due anni, quando le forze dell’ordine
andarono a fare accertamenti sul datore di lavoro calabrese, trovarono altri
lavoratori stranieri segregati nello stesso rudere e ridotti alla fame,
costretti a mangiare gli avanzi dei cani di Pititto. Il processo di
appello è previsto per il 9 giugno in Corte d’Assise d’Appello a Reggio
Calabria.</FONT></P><FIGURE id=inline_114843732 class="HTML inline-embed"><A
style="name: agenzie"></A></FIGURE>
<P><FONT face="Times New Roman"><U>Il ruolo ambiguo delle agenzie
interinali</U><BR><EM>di RAFFAELLA COSENTINO</EM><BR><STRONG>ROMA – </STRONG>“Il
nome Quanta l’ho letto solo sulle buste paga e sui Cud che arrivano a casa. Ma
io non mi sono mai rivolta all’agenzia interinale, lavoravo sempre e solo con il
solito caporale”. È la testimonianza di Maria, lavoratrice di Brindisi impiegata
nelle raccolte agricole stagionali attraverso l’agenzia interinale Quanta di
Rutigliano, in provincia di Bari. Sono migliaia le storie come la sua. Per
mascherare di legalità il caporalato, l’intermediazione illecita avveniva usando
la filiale barese di un’importante agenzia di somministrazione del lavoro. “Non
solo l’uso di caporali ma anche falsi part time, sottosalario ed evasione –
spiega il segretario della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – Abbiamo fatto
le segnalazioni ai carabinieri e all’Inps e sono scattate le ispezioni e le
sanzioni”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Quanta ha azzerato il gruppo dirigente locale e
ha avuto penali di “centinaia di migliaia di euro”. Il 23 aprile ha firmato un
protocollo d’intesa con i sindacati (Cgil, Cisl e Uil) per contrastare il
caporalato. Nel documento c’è scritto che si ricorrerà a liste di prenotazione e
che “sarà garantito gratuitamente e secondo quanto previsto da contratto, il
trasporto per il raggiungimento del posto di lavoro”.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">Vincenzo Mattina, vice presidente del gruppo
</FONT><A
style='href: "https://www.quanta.com/chi-siamo/management/vincenzo-mattina/"'><FONT
face="Times New Roman">Quanta</FONT></A><FONT face="Times New Roman">, ex
sindacalista ed ex parlamentare italiano ed europeo con i socialisti, conferma
che la filiale di Rutigliano è stata “commissariata” e che le sanzioni dall’Inps
sono state pari a “parecchie centinaia di migliaia di euro”. A suo avviso la
responsabilità è interamente dei due ex responsabili della sede barese che sono
stati licenziati. Il vice presidente li definisce “dipendenti infedeli” che
hanno avuto “comportamenti anomali”. “Non avevamo nessuna percezione che
potessero essere usati caporali”, spiega Mattina elencando le contromisure prese
dal gruppo: filiale commissariata, ravvedimento all’Inps, pagamento delle
sanzioni, regolarizzazione dei lavoratori che avevano avuto trattamenti
inadeguati, esclusione dai clienti delle aziende colluse con i dipendenti
infedeli, accordo con i sindacati per una condotta legale.</FONT></P>
<P><FONT face="Times New Roman">“Questi due dipendenti – precisa ancora il vice
presidente di Quanta – per semplificarsi la vita si facevano fare le squadre dai
caporali, non posso definirli altrimenti, invece la nostra presenza doveva
servire a regolarizzare situazioni off limits”. “Da questa vicenda abbiamo avuto
solo danni – continua Mattina – delle migliaia di lavoratori coinvolti,
nessuno ci aveva segnalato una qualsiasi anomalia e forse questo ha determinato
una falla nei nostri sistemi di controllo. Si è scoperto che i caporali sono
proprietari di pullman, ma per questo devono avere delle autorizzazioni, è
strano che queste persone siano tutte immacolate e abbiano potuto avere le
licenze”.</FONT></P></DIV></ARTICLE></DIV></DIV></DIV></DIV></DIV></DIV></DIV></DIV></BODY></HTML>