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<H1><FONT color=#ff0000 size=5 face="Microsoft Sans Serif">Ontologia della
precarietà. Dopo il 14 dicembre</FONT></H1>
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<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA
MORINI</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Le mobilitazioni e le lotte degli
ultimi mesi hanno visto in azione figure molte diverse tra loro, dagli studenti
ai migranti, dai ricercatori agli operai fino all’esplosione del 14 dicembre a
Roma.<SPAN id=more-482></SPAN> Usano tutte una <EM>lingua comune</EM> che
fa ancora (incredibilmente) fatica a farsi intendere e che necessita perciò di
traduzioni forti e chiare. Parlano dell’<EM>era della precarietà ontologica</EM>
che stiamo attraversando e che ritrova adesso accenti nuovi e nuove
suggestioni.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Facilmente sfugge questo tratto
effettivamente “comune”, che pure è ciò che fa la “differenza”. Combattendo
per/nella propria situazione lavorativa, per abitudine, cultura, tradizione,
riflesso, si tende a <EM>esporre</EM> la propria condizione professionale, il
mestiere che si fa, il “ruolo”, che si ricopre all’interno della società – e che
è proprio ciò che la norma socio-economica contemporanea impone e,
contemporaneamente, scompagina e manda in crisi. E’ il retaggio dell’etica di un
lavorismo in frantumi che si fa malinconico e reazionario: si esiste perché si
lavora e si fa “quel” particolare lavoro i cui contorni non esistono più. A che
cosa serve rincorrerli? La logica secondo la quale è il diritto al lavoro a
sancire il diritto all’esistenza fa fatica a essere superata, tuttavia (non ci
pare una notizia) tutto è già successo da un pezzo. Lavoratrice del call center,
magazziniere o lavoratore della conoscenza, ciò che unisce questi soggetti è la
medesima <EM>precarietà ontologica</EM>. Non è più il tempo di farci prendere
dal rimpianto, dal senso della perdita e del vuoto che dà la vertigine: questa
gamma così ampia di figure del lavoro e del non-lavoro è potenzialmente potente,
si presta ad alleanze inedite, assai composite e larghe, per nulla corporative,
dove minore è lo spazio della battaglia per il lavoro e maggiore quella per
l’umano – che detta anche nuovi scopi al conflitto. Fossimo capaci di
comprendere bene i toni di questa lingua, sarebbe già
<EM>revolution</EM>.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Siamo almeno vicini a una svolta?
L’elevata radicalità espressa dalla piazza del 14 dicembre ci parla
esplicitamente dell’emergere di questo sentimento “comune” che comincia a non
aver più freni: è il sentito della <EM>condizione precaria</EM> che esonda e con
ciò travalica e tracima il senso di appartenenza a ogni <EM>vecchia</EM>
categoria del mondo. Quanto meno, <EM>rotazione</EM>.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">La condizione di precarietà ha
assunto, nel tempo, forme nuove. Il lavoro umano, nel corso del capitalismo, è
sempre stato caratterizzato da precarietà più o meno diffusa a seconda della
fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è
successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur
in forma minore, nel capitalismo fordista. Ma, in tali periodi, si è sempre
parlato di precarietà della condizione di lavoro: lo svolgimento di un lavoro
prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo di
lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. La lotta
sindacale del XIX e del XX secolo è sempre stata tesa a ridurre il tempo di
lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo
industriale-fordista a quello bio-cognitivo, il lavoro cognitivo e relazionale
si è diffuso sino a definire le modalità principali della prestazione
lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola,
organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello
e il <EM>bios</EM> (la vita) diventano parte integrante del lavoro, anche la
distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde senso. Ecco allora che
l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del
lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro
comportamenti e si trasforma in <EM>precarietà esistenziale</EM>.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Nel bio-capitalismo cognitivo, la
precarietà è, in primo luogo, <EM>soggettiva</EM>, quindi <EM>esistenziale</EM>,
quindi <EM>generalizzata</EM>. È, perciò, condizione <EM>strutturale</EM>
interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro, esito della contraddizione tra
produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra
cooperazione sociale e gerarchia.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">La condizione precaria non è oggi
ancora in grado di esprimere una classe “precaria”, non esiste un processo
omogeneo di presa di coscienza. Diversamente dalla condizione lavorativa
manuale, per la quale era la condizione oggettiva di lavoro, in quanto “esterna”
alla persona, a determinare il livello di coscienza di sé, nel
bio-capitalismo cognitivo, se la prestazione lavorativa diviene quasi totalmente
interiorizzata, <EM>la presa di coscienza o è autocoscienza o non
è</EM>.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Qui sta il nodo che definisce oggi
la composizione sociale del lavoro contemporaneo e quindi la sua composizione
politica. Qui sta la drammaticità della condizione precaria. Il 14 dicembre –
anche al di là delle intenzioni degli organizzatori – rappresenta invece il
primo momento di rivolta dei soggetti a tale condizione.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Nel nome della lotta alla precarietà
(spesso stupidamente concepita come “abolizione del precariato”: ma quando mai,
nel Novecento, si è parlato di abolizione del “proletariato”? Piuttosto si è
puntato a un suo superamento…), si sono commesse nefandezze ideologiche.
Perché? Perché si è fatta fatica a indagare la complessità (moltitudine)
del soggetto precario. Perché, al contempo, si è preferito considerare la
condizione precaria come condizione “oggettiva” e non come espressione di una
soggettività molteplice. Perché la precarietà è stata interpretata come
espressione di una condizione lavorativa che si presenta immediatamente e
“neutralmente” uniforme e omogenea.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Non è un caso che il termine
“precario” sia fin troppo abusato di questi tempi ma ciò non toglie che
non si parli di condizione precaria. Piuttosto si parla di singoli
segmenti di lavoro precario (il ricercatore universitario, l’interinale
metalmeccanico, il migrante), ovvero di componenti della condizione precaria,
quasi a voler a tutti i costi individuare un particolare soggetto economico,
centrale, avanguardistico, che faccia da detonatore alle lotte di tutti gli
altri.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Se si vuole analizzare la
composizione sociale e politica del lavoro contemporaneo, il tema della
precarietà <EM>deve essere assunto</EM> come paradigmatico del rapporto
capitale-lavoro e non come conseguenza di una specifica (specifiche) situazione
lavorativa. E’ necessario invertire l’ordine dei fattori. Non è la condizione
operaia (pensando alle recenti lotte della Fiom e dei metalmeccanici), non è la
condizione dei lavoratori dei call-center e, più in generale, dei servizi
materiali (coop di magazzinaggio, ecc., ecc.), non è la valorizzazione delle
condizioni dei lavoratori della conoscenza (dall’università ai media), ad essere
precarizzata, ma è <EM>la condizione precaria</EM> a essere il paradigma che fa
da cerniera a tutte queste diverse condizioni di lavoro insieme. E ciò avviene
prendendo a modello il lavoro migrante e il lavoro femminile di cura e
relazione. </FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Si tratta di una differenza
sostanziale e <EM>politic</EM>a. Si tratta di riconoscere che la condizione
precaria, soggettivamente percepita in modo differente, <EM>viene prima</EM>
dell’essere migranti, chainworker, operai, cognitari. Occorre prendere atto che
la nuova divisione del lavoro va oltre la divisione settoriale e smithiana del
lavoro.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">A metà ottobre, a Milano si sono
svolti gli Stati Generali della Precarietà: un primo tentativo di mettere al
centro la condizione precaria, (http://www.precaria.org/stati-generali-2010). Si
tratta, infatti, di sviluppare un <EM>punto di vista precario</EM>, ovvero una
proposta di ricomposizione sociale della soggettività precaria che sul tema
della garanzia di reddito e della riappropriazione del comune costruisca per
intero – nel modo più preciso e consapevole – la propria identità conflittuale.
Un nuovo appuntamento degli Stati Generali della Precarietà è previsto per metà
gennaio, sempre a Milano.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Benedetto Vecchi, sulle pagine de
<EM>Il Manifesto</EM> ha fatto bene a richiamare la necessità di indire a breve
gli Stati generali della Conoscenza. Essi si dovrebbero, tuttavia, collocare
all’interno di un percorso che vede negli Stati Generali della Precarietà un
momento ricompositivo e politicamente rilevante: è la condizione precaria che ha
soprattutto bisogno di assumere sempre maggior coscienza di sé. Altrimenti, il
rischio è quello di continuare a proporre punti di vista innovativi e
interessanti ma frammentati e parziali, ancora una volta ingabbiati solo nella
propria particolarità professionale. A proposito di lavoratori della conoscenza:
più di un anno fa, sono stati redatti il “Manifesto” e la “Carta dei diritti dei
lavoratori della conoscenza” (</FONT><A
href="http://www.precaria.org/materiale"><FONT size=2
face="Microsoft Sans Serif">http://www.precaria.org/materiale</FONT></A><FONT
size=2 face="Microsoft Sans Serif">). Testi innovativi e radicali, che hanno
ottenuto ampio consenso, ma si sono dimostrati incapaci di creare e sviluppare
quelle sinergie necessarie a ricomporre la capacità conflittuale del
precariato.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">L’insorgenza del 14 dicembre a Roma
esige attenzione. Per la prima volta, una nuova generazione precaria (guarda
caso, non definibile nei termini della segmentazione tradizionale del lavoro) si
è fatta sentire. Non facciamo finta anche noi di non capire che cosa
dice.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
<P><A
href="http://uninomade.org/ontologia-della-precarieta-dopo-il-14-dicembre/"><FONT
size=1>http://uninomade.org/ontologia-della-precarieta-dopo-il-14-dicembre/</FONT></A></P></DIV></BODY></HTML>