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<DIV><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Due ottimi interventi di Negri, il
primo di immediata attualità, l'altro più riflessivo.</FONT></DIV>
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<DIV><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">e</FONT></DIV>
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<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">15 / 12 /
2010 </FONT></P></DIV>
<H1><FONT color=#ff0000 face="Microsoft Sans Serif">Dopo il 14
dicembre</FONT></H1></DIV>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">di TONI NEGRI</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Che con il 14 dicembre la Repubblica
abbia versato nell’agonia, sembra chiaro alle gazzette. In effetti la situazione
è grave. In crisi è la macchina costituzionale.<SPAN id=more-472></SPAN> La
recessione è alle porte e copre un altro pericolo, probabilmente ancora più
importante e sottaciuto, che è la secessione del Nord. Tutto questo nella salsa
di un’invadente corruzione, che non è senz’altro solo quella denunciata da
Travaglio o da Fini, ma la disgregazione interna del meccanismo di equilibrio e
rappresentanza costituzionale.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Questa crisi è stata fin qui gestita
interamente dalla destra. Inutile soffermarsi su cosa sia stato il
berlusconismo: una reinvenzione populista, transitoria ma efficace, del governo
del capitale nella fase di transizione dalla guerra fredda all’evento del
declino del governo imperiale americano. Le alleanze Berlusconi-Putin o Gheddafi
sono molto meno caricaturali e scandalose di quanto le si voglia fare apparire;
le pasoliniane notti di Salò del nostro primo ministro, adeguate al decadimento
morale delle dirigenze politiche dell’occidente. Non sappiamo come andrà a
finire: quello che sappiamo è che la forza per rispondere alla crisi, dal punto
di vista proletario, è stata insufficiente, che la sinistra parlamentare non è
solo debole ed inefficace ma che funziona benissimo come contraltare di uno
schieramento moderato rissoso e in crisi.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Qui è necessario rompere ogni
continuità. Sembra chiaro che il dibattito politico d’ora in poi debba svolgersi
sui temi di un programma costituente, irriducibili all’attuale realismo della
sinistra, e debba trovare forme organizzative adeguate alla nuova composizione
sociale della resistenza dei lavoratori della mano e del cervello. È bizzarro,
ma non inusuale, accorgersi che ora la lotta democratica sia già confusa con
quella sovversiva, che il vuoto di democrazia è già stato fatto e che dunque
sovversione è oggi costituzione. Il Pd non è agibile soltanto sui due terreni
sui quali propone, per così dire, linee politiche: il “centrismo” veltroniano o
la “socialdemocrazia” dalemiana – non lo è neppure sul terreno Vendola. Il
problema, soprattutto con Vendola (che senz’altro molti di noi sentono come più
vicino), non è tanto quello di non discutere con lui ma di non considerare il
dibattito con lui come un’arma che possa trasformare il Pd. Di fuochi di paglia
ne abbiamo visti molti, non da ultima la disillusione obamaniana.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Dal punto di vista del programma, la
discussione che si è aperta nei movimenti sembra esser proceduta moltissimo. Il
programma è quello della riappropriazione del comune. L’università è un comune:
gli studenti, nella lotta contro la Gelmini (ma anche gli studenti inglesi,
francesi, ecc.) lo hanno mostrato. Nelle fabbriche invece, dove si continua
lottare (eccome! malgrado la crisi) sembra che questa discussione non sia ancora
riaffiorata. La Fiom dovrebbe rendersene conto. Ma il problema centrale (ed è su
questo che né il Pd, né Vendola stanno agendo) è quello della riappropriazione
comune del welfare pubblico. Le lotte francesi sulle pensioni hanno dato la
misura di come sia possibile procedere unitariamente su questo terreno. È questo
il terreno decisivo: dal pubblico al comune, dove i temi della riproduzione
della forza lavoro e quelli della diffusione produttiva del sapere si
congiungono alla riappropriazione e alla gestione democratica del
comune.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Dal punto di vista organizzativo,
sono solo le lotte ed i compagni che le vivono, che possono indicare un sentiero
percorribile. Ma è fuori dubbio che, sempre di nuovo, quando si aprono le lotte,
il tema di un’avanguardia che permette al movimento di trovare spazi e tempi
adeguati alla sua espressione, diventa centrale. Le vecchie teorie qui non
c’entrano più. C’entra l’esperienza attuale, la necessità per il movimento di
ricentralizzare la sua molteplicità. Il movimento sa che non organizza soltanto
la miseria ma soprattutto la povertà, cioè la potenza produttiva che è messa
fuori, esclusa dalla capacità di agire dei lavoratori. La dignità del sapere e
del lavoro è in gioco. È questa la centralità che interessa. Organizzare questa
centralità significa costruire organizzazione cooperativa delle lotte e
dell’elaborazione programmatica. Dare continuità e solidità a questa
organizzazione è oggi il passaggio da compiere.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Si illude chi pensa che la
pianificazione delle lotte possa partire da un ordine partitico o da
un’occasione elettorale. I rapporti di forza non sono tali da permetterlo e
quand’anche lo fossero, di nuovo sarebbe quel fuoco di paglia cui sopra
accennavamo. È solo la rete che illumina il cammino delle lotte. La centralità
però va ricostruita, anche in rete. Quanto è accaduto in Francia nel periodo
delle lotte sulle pensioni è stato molto indicativo. C’era qualcuno nei giorni
scorsi che diceva: oggi è come prima della rivoluzione francese, non c’è
politicamente altro che l’<EM>ancien régime</EM>, poi non potrà esserci altro
che un’assemblea costituente di tutti i ceti – che vuol dire con l’estrema
maggioranza dei poveri. È questo salto che i movimenti devono
governare.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Davanti a noi abbiamo il baratro di
una recessione governata dagli epigoni del berlusconismo, che va a coprire
l’effettiva secessione del Nord. Se non altro, Fini e Casini hanno in mente
questa svolta sciagurata. Non sembra che il Pd ne sia ancora accorto, meglio,
pensa che non si possa governare senza la Lega. Ma è su questo che bisogna
intendersi: perché la Lega non è meglio ma peggio del berlusconismo, perché la
Lega è la negazione totale della nuova composizione sociale del lavoro, perché
la Lega è l’odio sanfedista rinnovato, è la reazione così come si presenta nella
postmodernità.</FONT></P>
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<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">05 / 12 /
2010 </FONT></P></DIV>
<H1><SPAN class=goog_qs-tidbit-0><FONT color=#ff0000
face="Microsoft Sans Serif">È possibile essere comunisti senza
Marx?</FONT></SPAN></H1>
<H1><SPAN class=goog_qs-tidbit-0><FONT color=#ff0000
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<H1><SPAN class=goog_qs-tidbit-0><FONT color=#ff0000
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<P><SPAN class=goog_qs-tidbit-0><FONT size=2
face="Microsoft Sans Serif"></FONT></SPAN> </P>
<P><SPAN class=goog_qs-tidbit-0><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">di TONI
NEGRI</FONT></SPAN></P>
<P><FONT size=2><FONT face="Microsoft Sans Serif"><SPAN class=goog_qs-tidbit-0>È
possibile essere comunisti senza Marx? È evidente che sì. Ciò non toglie che mi
capiti spesso di</SPAN> discuterne con compagni e con intellettuali sovversivi
di differenti estrazioni. Soprattutto in Francia – e le considerazioni che
seguono riguardano essenzialmente la Francia. <SPAN id=more-406></SPAN>Debbo
comunque confessare che spesso mi annoio a ragionare su questi argomenti, ci son
linee troppo diverse e contraddizioni che raramente son condotte a confrontarsi
con verifiche o soluzioni sperimentali. Si tratta spesso di confrontarsi con
retoriche che astrattamente affrontano la pratica politica. E tuttavia, talora,
ci si scontra con posizioni che negano addirittura che ci si possa dichiarare
comunisti se si è marxisti. Da ultimo, ad esempio, un importante studioso –
che pure aveva sviluppato nel passato le ipotesi del “maoismo” più radicale – mi
diceva che, se ci si attenesse al marxismo rivoluzionario, che prevedeva il
“deperimento dello Stato”, la sua “estinzione”, dopo la conquista proletaria del
potere, e certo non ha realizzato questa finalità, non ci si potrebbe più
dichiarare “comunisti”. Obiettavo che è come dire che il cristianesimo è falso
perché il Giudizio Universale non è arrivato nei tempi prossimi, previsti
dall’<EM>Apocalisse</EM> di Giovanni, e la “resurrezione dei morti” non la si è
proprio vista! Ed aggiungevo che nell’epoca del disincantamento, la fine del
secolo mondano per i cristiani e la crisi della escatologia socialista
equivocamente sembrano giacere sotto la stessa coperta, meglio, subire eguali
ingiunzioni epistemologiche – però, <EM>del tutto fallaci</EM>. È certo infatti
che il cristianesimo è falso – ma io credo che lo sia per tutt’altre ragioni. E
se anche il comunismo è falso, non lo è certo perché la speranza escatologica
non si è in questo caso realizzata: non dico infatti che essa non fosse infatti
implicita nella premessa, ma solo che molte delle “profezie” (meglio, dei
dispositivi teorici) del comunismo marxiano si sono realizzate, al punto che
oggi è ancora impossibile – senza Marx – affrontare il problema della lotta
contro lo schiavitù del capitale. Proprio per questo, probabilmente, sarebbe
importante ritornare dal cristianesimo a Cristo e dal comunismo a
Marx…</FONT></FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">E allora? Non si è data l’estinzione
dello Stato, in Russia e in Cina lo Stato è divenuto onnipotente ed il
<EM>comune</EM> è stato organizzato (e falsificato) nelle forme del
<EM>pubblico</EM>: lo statalismo ha quindi vinto e, sotto quest’egemonia, non il
comune ma un capitalismo burocratico sommamente centralizzato si è imposto.
Tuttavia a me sembra che attraverso le grandi esperienze rivoluzionarie
comuniste del secolo ventesimo, l’idea di una “democrazia assoluta”, e di un
“comune degli uomini”, sia stata dimostrata <EM>possibile</EM>. Ed intendo la
“democrazia assoluta” come un progetto politico che si costruisce oltre la
democrazia “relativa” dello Stato liberale, e dunque come l’indice di una
radicale rivoluzione contro lo Stato, di una pratica di resistenza e di
costruzione del “comune” contro il “pubblico”, del rifiuto dell’esistente e
dell’esercizio della potenza costituente da parte della classe dei lavoratori
sfruttati.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Qui interviene la differenza.
Qualunque sia stata la conclusione, il comunismo (quello che si è mosso secondo
l’ipotesi marxista) si è provato (anche senza realizzarsi) attraverso un insieme
di pratiche che non sono solo aleatorie, non solo transitorie: si è trattato di
<EM>pratiche ontologiche. </EM>La questione, dunque, se si possa esser comunisti
senza essere marxisti, dovrebbe prima di tutto confrontarsi con la dimensione
ontologica del comunismo, con la determinazione materialista di questa
ontologia, con i suoi residui effettivi, con l’irreversibilità di quel episodio
nella realtà e nel desiderio collettivo degli uomini. Il comunismo è una
costruzione, ci ha appreso Marx, un’ontologia, cioè la costruzione di una nuova
società da parte dell’uomo produttore, del lavoratore collettivo, attraverso un
agire che si rivela efficace perché è diretto all’<EM>accrescimento
dell’essere</EM>.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Questo processo si è aleatoriamente
dato, quest’esperienza si è parzialmente realizzata. Il fatto che sia stata
sconfitta, non dimostra che sia impossibile: anzi è effettualmente mostrato che
essa è possibile. Molti milioni di uomini e di donne hanno operato e pensato,
lavorato e vissuto dentro questa possibilità. Nessuno nega che l’epoca del
“socialismo reale” abbia ceduto a, e sia stata attraversata da, orribili derive.
Ma sono esse tali da avere determinato un annullamento di quell’esperienza, da
aver tolto quell’accrescimento dell’essere che il realizzarsi del
<EM>possibile</EM> e la potenza dell’evento rivoluzionario avevano costruito? Se
ciò fosse avvenuto, se il negativo che ha pur pesantemente intaccato la vicenda
del “socialismo reale”, avesse prodotto una prevalente distruzione dell’essere,
l’esperienza del comunismo sarebbe scivolata via e si sarebbe dispersa nel
nulla. Ma questo non è avvenuto. Il progetto di una “democrazia assoluta”,
l’istanza di costruire il “comune degli uomini” restano attrattivi, intatti nel
nostro desiderio e nella nostra volontà. Non dimostra forse questa permanenza,
questo materialismo del desiderio, la validità del pensiero di Marx? Non è
perciò difficile, se non impossibile, essere comunisti senza Marx?</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">All’obiezione sullo statalismo che
“necessariamente” deriverebbe dalle pratiche marxiste, occorre dunque rispondere
riarticolando la nostra analisi: assumendo cioè che l’accumulazione dell’essere,
il progredire della “democrazia assoluta”, l’affermazione della libertà e
dell’uguaglianza, passano attraverso e subiscono incessantemente soste,
interruzioni, catastrofi – ma che quest’accumulazione è più forte dei momenti
distruttivi che pur conosce. Questo processo infatti non è finalistico,
teleologico e neppure è una mossa di filosofia della storia: non lo è perché
quest’accumulazione di essere che pur vive attraverso le vicende storiche, non è
un destino e neppure una provvidenza, ma è la risultante,
l’<EM>intersezione</EM> di mille e mille pratiche e volontà, trasformazioni e
metamorfosi che hanno costituito i soggetti. Quella storia, quest’accumulazione
sono prodotti delle singolarità concrete (che la storia ci mostra in azione) e
produzioni di soggettività. Noi le assumiamo e le descriviamo <EM>a
posteriori.</EM> Non c’è nulla di necessario, tutto è contingente ma concluso,
tutto è aleatorio ma compiuto, nella storia che raccontiamo. <EM>Nihil factum
infectum fieri potest</EM>: c’è forse filosofia della storia laddove i viventi
desiderano solo continuare a vivere e per ciò esprimono dal basso una teleologia
intenzionale della vita? La “volontà di vivere” non risolve i problemi e le
difficoltà del vivere ma ci si presente nel desiderio come urgenza e potenza di
costituzione del mondo. Se vi sono discontinuità e rotture, esse si rivelano
nella continuità storica – una continuità sempre frastagliata, mai progressiva –
ma neppure globalmente, ontologicamente catastrofica. L’essere non può mai
essere totalmente distrutto.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Altro tema: quell’accumulazione di
essere costruisce del <EM>comune</EM>. Il comune non è una finalità necessaria –
è bensì un aumento dell’essere perché l’uomo desidera essere molteplicità,
stabilire relazioni, essere moltitudine – non potendo star da solo, soffrendo
soprattutto la solitudine. In secondo luogo, quell’accumulazione di essere non
sarà neppure identità né origine: è essa stessa un prodotto di diversità e di
consensi/contrasti fra singolarità, articolazione di costruzioni linguistiche e
di determinazioni storiche, frutto di incontri e scontri. Va qui soprattutto
sottolineato che il <EM>comune</EM> non si presenta come l’<EM>universale</EM>.
Può contenerlo ed esprimerlo, ma non vi si riduce, è più esteso e temporalmente
dinamico. L’universale si può predicare di ogni e di tutti gli individui. Ma il
concetto di individuo autosussistente è contraddittorio. Non c’è individualità
ma solo relazione di singolarità. Il comune ricompone l’insieme delle
singolarità. Questa differenza del comune dall’universale è qui assolutamente
centrale: Spinoza la definì quando, alla generica vuotezza dell’universale e
all’inconsistenza dell’individuo, oppose la concreta determinazione delle
“nozioni comuni”. Universale è ciò che nell’isolamento, nella solitudine, ogni
soggetto può pensare; comune è invece quello che ogni singolarità può costruire,
costituire <EM>ontologicamente</EM> a partire dal fatto che ogni singolarità è
molteplice ma determinata concretamente nella molteplicità, nella comune
relazione. L’universale è detto del molteplice, mentre il comune è determinato,
è costruito attraverso il molteplice e qui specificato. L’universalità considera
il comune come un astratto e lo immobilizza nel corso storico: il comune sottrae
l’universale all’immobilità e alla ripetizione. E lo costruisce invece
concretamente.</FONT></P>
<P><FONT size=2><FONT face="Microsoft Sans Serif">Ma tutto questo presuppone
l’ontologia. Ecco dunque dove il comunismo ha bisogno di Marx: per impiantarsi
nel comune, nell’ontologia. E viceversa. <EM>Senza ontologia storica non c’è
comunismo. </EM></FONT></FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Si può essere comunisti senza essere
marxisti? Diversamente dal “maoismo” francese, che non ha mai frequentato Marx
(ma su questo ritorneremo), Deleuze e Guattari ad esempio furono comunisti senza
essere marxisti, ma lo furono in maniera estremamente efficace, fino al punto
che si favoleggiò di un Deleuze autore, <EM>in punctuo mortis</EM>, di un libro
intitolato “<EM>La grandeur di Marx</EM>”. Deleuze e Guattari costruiscono il
comune attraverso degli <EM>agencements collectifs</EM> e un materialismo
metodologico che li avvicina al marxismo ma li tiene distanti dal socialismo
classico, e comunque da ogni ideale organico di socialismo e/o statalistico di
comunismo. Sicuramente Deleuze e Guattari si dichiararono tuttavia comunisti.
Perché? Perché, senza essere marxisti, furono implicati in quei movimenti di
pensiero che si aprivano continuamente alla pratica, alla militanza comuniste.
In particolare, il loro materialismo fu ontologico, il loro comunismo si
sviluppò sui <EM>mille plateaux</EM> della pratica trasformativa. Mancava loro
la storia, quella positiva che certo spesso può aiutare nel produrre e nel
comprendere la dinamica della soggettività (in Foucault, questo dispositivo è
finalmente reintegrato nell’ontologia critica): talora tuttavia la storiografia
positivista, certo, ma talora la storia può essere iscritta all’interno della
metodologia materialista, senza quegli orpelli cronologici e quell’eccessiva
insistenza sugli eventi, tipica di ogni <EM>Historismus</EM> – e appunto ciò che
avviene in Deleuze-Guattari. Insisto sulla complementarietà di materialismo e
ontologia perché la storia (che nella prospettiva tanto dell’idealismo classico
quanto del positivismo era certo ricalcata dalla filosofia, ma per finalizzarla
ad ipostasi politiche o etiche e così a negarne la dimensione ontologica) può,
invece, essere talora tacitamente ma efficacemente sussunta – quando l’ontologia
costituisca dispositivi particolarmente forti, come avveniva in
Deleuze-Guattari. Non bisogna infatti dimenticare che il marxismo non vive solo
nella scienza ma piuttosto si svolge dentro esperienze “situate”: il marxismo è
spesso rivelato dai dispositivi militanti.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Diversamente van le cose quando, ad
esempio, si confronti il nostro problema (comunismo/marxismo, storia/ontologia)
alle numerose varianti del socialismo utopistico, soprattutto a quello di
derivazione “maoista”. Nell’esperienza francese del “maoismo” si assistette al
diffondersi di una specie di “odio per la storia”, che – qui consistete la sua
spaventosa deficienza – rivelava un estremo disagio quando si trattasse di
produrre <EM>obiettivi politici</EM>. Così, infatti, evacuando la storia, si
evacuava non solo il marxismo ma anche la politica. Paradossalmente si ripeteva,
nella direzione opposta, quello che era avvenuto in Francia nel periodo della
fondazione della scuola degli “<EM>Annales</EM>” di Marc Bloch e di Lucien
Febvre: in quell’occasione il marxismo venne introdotto nella discussione
filosofica attraverso la storiografia. E la storiografia divenne
politica!</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Altrettanto vale per il socialismo
utopistico: si deve riconoscere che, in talune delle sue esperienze (fuori dalle
varianti maoiste), esso ha offerto connessioni materialiste di ontologia e
storia – non sempre, ma sovente. Si pensi solo – per quel che riguarda
l’esperienza francese – ai formidabili contributi di Henri Lefebvre. Si tratterà
allora di comprendere se e fino a che punto, dentro questo variare di posizioni
diverse, emergono talora posizioni che (in nome dell’universalità del progetto
politico proposto) si oppongono alla <EM>praxis </EM>ontologica – negando, ad
esempio, la storicità di categorie come l’“accumulazione originaria” e
proponendo di conseguenza l’ipotesi di un comunismo come pura restaurazione,
immediata, dei <EM>commons</EM>, oppure svalutando le metamorfosi produttive che
configurano variamente la “composizione tecnica” della forza lavoro (che è vera
e propria produzione materialista di soggettività nella relazione fra rapporti
produttivi e forze produttive), riconducendo in maniera radicale alla natura
umana (sempre uguale, <EM>sub forma arithmeticae</EM>) l’origine della protesta
comunista, ecc. ecc.: si tratta evidentemente di una riedizione ambigua
dell’idealismo nella sua figura trascendentale.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Per esempio: in Jacques Rancière
abbiamo recentemente visto accentuarsi i dispositivi che negano ogni connessione
ontologica di materialismo storico e comunismo. La prospettiva
dell’emancipazione del lavoro si sviluppa infatti, nella sua ricerca, in termini
di autenticità della coscienza, assumendosi conseguentemente <EM>la soggettività
in termini individuali</EM>, e quindi togliendo di mezzo – proprio prima di
cominciare – ogni possibilità di chiamare <EM>comune</EM> la produzione di
soggettività. Inoltre l’azione emancipatrice si stacca qui da ogni
determinazione storica e proclama la sua indipendenza dalla temporalità
concreta: la politica, per Rancière, è un’azione paradossale che stacca il
soggetto dalla storia, dalla società, dalle istituzioni, pur quando, senza
quella partecipazione (quell’inerenza che può essere radicalmente
contraddittoria), il soggetto politico non sarebbe neppure predicabile. Il
movimento di emancipazione, la “politica” perdono così ogni caratteristica di
antagonismo, non in astratto ma sul terreno concreto delle lotte, e le
determinazioni dello sfruttamento non si vedono più e (parallelamente) non
costituisce più problema l’accumulazione del potere nemico, della “polizia”
(sempre presentata in una figura indeterminata, non <EM>quantitate
signata</EM>). Quando il discorso di emancipazione non riposa sull’ontologia,
diviene utopia, sogno individuale e lascia il tempo che trova.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Siamo così entrati <EM>in</EM>
<EM>medias res</EM>, al punto di chiederci se (dopo il sessantotto) ci sia mai
stato un comunismo collegato al marxismo in Francia. C’è stato certamente (e
permane) nelle due varianti dello stalinismo e del trotzkismo, l’una e l’altra
ormai partecipanti di una storia lontana ed esoterica. Quando invece si viene
alla filosofia del ’68, qui il rifiuto del marxismo è radicale. Vogliamo
riferirci essenzialmente alle posizioni di Badiou, che godono di una certa
popolarità.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Una breve precisazione. Quando
Rancière, nelle immediate adiacenze del ’68, sviluppava (dopo aver partecipato
alla comune lettura de “<EM>Il Capitale</EM>”) una critica pesante delle
posizioni di Althusser, e metteva in luce come nella critica dell’umanesimo
marxista (che solo dopo il ’68 – con un certo ritardo, dunque! – si apriva in
Althusser alla critica dello stalinismo) permanessero in realtà gli stessi
presupposti intellettualisti dell’“uomo di partito” e l’astrazione
strutturalista del “processo senza soggetto” – aveva ragione da vendere. Ma non
si dovrebbe oggi, da parte di Rancière sollevare la stessa critica nei confronti
di Badiou? Anche per Badiou infatti è solo l’indipendenza della ragione, la sua
garanzia di verità, la sistematicità di un’autonomia ideologica – è solo a
queste condizioni che si determina la definizione del comunismo. “N’est-ce pas,
sous l’apparance du multiple, le retour à une vieille conception de la
philosophie supérieure?” – si chiedono Deleuze-Guattari. È quindi molto
difficile capire dove stiano per Badiou le condizioni ontologiche del soggetto e
della rottura rivoluzionaria. Per lui, infatti ogni movimento di massa
costituisce una <EM>performance</EM> piccolo borghese, ogni lotta immediata, del
lavoro materiale o cognitivo, di classe o del “lavoro sociale”, è qualcosa che
mai toccherà la sostanza del potere – ogni allargamento della capacità
collettiva di produzione dei soggetti proletari non sarà altro che un
allargamento del loro assoggettamento alla logica del sistema – quindi,
l’oggetto è inarrivabile, il soggetto indefinibile, a meno che la teoria non lo
produca, a meno di disciplinarlo, di adeguarlo alla verità e di innalzarlo
all’evento – oltre la pratica politica, oltre la storia. Ma tutto questo è ancor
poco rispetto a quello che ci aspetta se seguiamo il pensiero di Badiou: ogni
quadro di lotta, specificamente determinato, gli sembra (se la teoria e
l’esperienza militante gli attribuiscono una potenza di sovversione) solo
un’allucinazione onirica. Insistere ad esempio sul “potere costituente” sarebbe
per lui sognare la trasformazione di un immaginario “diritto naturale” in una
potenza politica rivoluzionaria. Solo un “evento” può salvarci: un evento che
sia fuori da ogni esistenza soggettiva che sappia determinarlo e da ogni
pragmatica strategica che ne rappresenti il dispositivo. L’<EM>evento</EM> per
Badiou (la crocifissione di Cristo e la sua resurrezione, la Rivoluzione
francese, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.) è sempre definito <EM>a
posteriori</EM>, è dunque un presupposto e non un prodotto della storia. Di
conseguenza, paradossalmente, l’evento rivoluzionario esiste <EM>senza</EM>
Gesù, <EM>senza</EM> Robespierre, <EM>senza</EM> Mao. Ma, privato di una logica
interna di produzione dell’evento, come si potrà mai distinguere l’evento da un
oggetto di fede? Badiou, in realtà, si limita con ciò a ripetere l’affermazione
mistica, normalmente attribuito a Tertulliano: “<EM>credo quia absurdum</EM>” –
credo, cioè, perché è assurdo. Qui l’ontologia viene spazzata via. Ed il
ragionamento comunista è ridotto o a un colpo di matto o a un
<EM>business</EM> dello spirito. Per dirla tutta, ripetendo Deleuze-Guattari:
“l’événement lui-même apparaît (selon Badiou), moins comme une singolarità que
comme un point aléatoire séparé qui s’ajout ou se soustrait au site, dans la
trascendance du vide ou la vérité comme vide, sans qu’on puisse décider de
l’appartenance de l’événement à la situation dans laquelle se trouve son site
(l’indécidable). Peut-être en revanche y a-t-il une intervention comme un jet de
dé sur le site qui qualifie l’événement et le fait entrer dans la situation, une
puissance de « faire » l’événement”.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Ora, si comprendono facilmente
alcuni dei presupposti di queste posizioni teoretiche (che comunque partono da
una sofferta e condivisa autocritica di pratiche rivoluzionarie trascorse). Si
trattava, infatti, in primo luogo, di distruggere ogni riferimento alla storia
di un “socialismo reale”, sconfitto, sì, ma sempre e comunque infarcito di
premesse dogmatiche e di un’organica disposizione al tradimento. In secondo
luogo, si voleva evitare di stabilire qualsiasi relazione fra le dinamiche dei
movimenti sovversivi e i contenuti e le istituzioni dello sviluppo
capitalistico. Giocare con questi, <EM>dentro/contro</EM>, come la tradizione
sindacale proponeva, aveva infatti prodotto corruzione del desiderio
rivoluzionario ed illusione delle volontà in lotta. Ma trarre da questi giusti
obiettivi critici la conseguenza che ogni tentativo politico, tattico e
strategico di ricostruzione di una pratica comunista e la fatica di questo
esercizio, siano esclusi dalla prospettiva di liberazione; che non possa darsi
un progetto costituente, né alcuna presa trasformativa dentro la dimensione
materiale, immediatamente antagonista delle lotte; e che ogni tentativo di
render conto delle forme attuali del dominio, in qualsiasi modo esso si
sviluppi, sia comunque subordinato ed assorbito dal comando capitalistico; che
infine ogni riferimento alle lotte all’interno di un tessuto biopolitico, a
lotte – dunque – che considerino in una prospettiva materialistica le
articolazioni del <EM>Welfare,</EM> non rappresentino altro che un rigurgito
vitalista – bene, tutto questo ha un solo significato: <EM>la</EM> <EM>negazione
della lotta di classe</EM>. E ancora: secondo l’“estremismo” badiousiano, il
progetto del comunismo non può darsi se non in maniera privativa e dentro forme
di sottrazione dal potere, e la nuova comunità non potrà che essere il prodotto
dei senza comunità (come d’altra parte sostiene Rancière). Quello che offende,
in questo progetto, è la purezza giansenista che esso esibisce: ma quando le
forme dell’intelligenza collettiva sono a tal punto disprezzate – perché ogni
forma d’intelligenza prodotta nella storia concreta degli uomini è ricondotta
alla logica del sistema di produzione capitalista – allora, non c’è più niente
da fare. O, meglio, resta da riaffermare l’osservazione sopra già fatta, e cioè
che la <EM>pragmatica materialista</EM> (quella che abbiamo conosciuto fra
Machiavelli e Nietzsche, fra Spinoza e Deleuze), quel movimento che vale
esclusivamente per sé stesso, quel lavoro che rinvia solo alla propria potenza,
quell’immanenza che si concentra sull’azione e sull’atto di produzione di essere
– è in ogni caso più comunista di ogni altra utopia che abbia un rapporto
schizzinoso con la storia ed incertezze formali con l’ontologia.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif">Noi non crediamo dunque possibile
parlare di comunismo senza Marx. Certo, il marxismo va profondamente,
radicalmente riletto e rinnovato. Ma anche questa trasformazione creativa del
materialismo storico può avvenire seguendo le indicazioni di Marx –
arricchendolo con quelle che derivano dalle correnti “alternative” vissute nella
modernità, da Machiavelli a Spinoza, da Nietzsche a Deleuze-Foucault. E se Marx
studiava le leggi di movimento della società capitalista, ora si tratta di
studiare <EM>le leggi</EM> del lavoro operaio, meglio, dell’<EM>attività sociale
</EM>tutta intera, e della produzione di soggettività dentro la sussunzione
della società nel capitale e l’immanenza della resistenza allo sfruttamento
sull’orizzonte globale. Oggi non basta più studiare le leggi del capitale,
bisogna lavorare all’espressione della potenza della ribellione dei lavoratori
ovunque. Sempre seguendo Marx: quello che ci interessa “è il lavoro non come
oggetto ma come attività; non come valore esso stesso ma come sorgente viva del
valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste
oggettivamente, come realtà, il lavoro è la ricchezza generale come sua
possibilità, che si conferma nell’attività come tale. Non è affatto una
contraddizione dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la miseria
assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza
come soggetto e come attività”. Ma come cogliere il lavoro in questo modo, e
cioè non come oggetto sociologico ma come soggetto politico? Questo è il
problema, questo è l’oggetto dell’inchiesta. Solo risolvendo <EM>questo</EM>
problema possiamo parlare di comunismo – se è necessario (e quasi sempre lo è)
sporcandoci le mani. Tutto il resto è chiacchiera intellettualista.</FONT></P>
<P><FONT size=2 face="Microsoft Sans Serif"></FONT> </P>
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<P><FONT size=1 face="Microsoft Sans Serif"><A
href="http://uninomade.org/essere-comunisti-senza-marx/">http://uninomade.org/essere-comunisti-senza-marx/</A></FONT></P></DIV></BODY></HTML>