ࡱ> bjbj .cc2( qqq8\,"REE"g>( !!!!!!!i$ 'P!q448!!qq!!!!< qq!!4!!!qq! $hx\&!!!0"!['!['!!q!444 :  Sguardi cinesi ovvero, la Cina come metodo di Sandro Mezzadra e Gigi Roggero If these factory strikes continue, China may have to go communist (William Pesek, Mainland Workers Flex Their Muscles, in South China Morning Post, Hong Kong, June 29, 2010) In corso di pubblicazione in Alternative per il socialismo. 1. Molti sguardi si rivolgono oggi alla Cina. In Italia come negli Stati Uniti questi sguardi sono del resto, e ormai da anni, parte dello scontro politico interno: mentre al di l dellAtlantico, nella corsa verso le elezioni mid term di inizio novembre, governatori e politici repubblicani e democratici hanno fatto a gara nel proporre misure protezionistiche in funzione anti-cinese, in Italia siamo da tempo abituati alle sortite di leghisti e tremontiani contro la minaccia che viene da Oriente. Sullo sfondo, c il duro scontro sul valore del renminbi e sul protagonismo globale dei fondi sovrani e di altri attori economici cinesi. Tutto ci non ha impedito, evidentemente, la corsa di imprenditori occidentali ad approfittare dellapertura dei mercati cinesi e soprattutto del lavoro cinese. Per limitarci a una battuta: esisterebbero lIpod, lIphone e lIpad senza gli stabilimenti della Foxconn nelle zone economiche speciali del Sud della Cina? C da dubitarne Neppure ha impedito, del resto, la corsa di Paesi, regioni e citt a occupare un posto allExpo di Shanghai, dove la Repubblica Popolare Cinese ha messo a punto (con risultati di immagine migliori rispetto alle Olimpiadi del 2008) lo sguardo che essa stessa rivolge al mondo. Ed uno sguardo ammiccante e suadente, impregnato di modernit e tradizione. Better city, better life era lo slogan dellExpo. E chi non sarebbe daccordo? Guardando i palazzi del Bund (vera e propria esposizione universale dellarchitettura modernista europea di inizio Novecento) specchiarsi, oltre le acque del fiume Huangpu, nelle pareti degli avveniristici grattacieli di Pudong (larea in cui si concentrata lespansione urbanistica della citt negli ultimi ventanni), pi di un visitatore avr anzi pensato che Shanghai abbia le carte in regola per candidarsi a divenire il paradigma della citt migliore del futuro globale. In questo articolo presentiamo alcune note: note di viaggio di uno di noi, che ha trascorso tre settimane in Cina nel giugno di questanno, note di ricerca e di riflessione politica di entrambi. Lobiettivo che ci proponiamo sostanzialmente di metodo, ed in questo senso che utilizziamo la categoria di sguardo che abbiamo inserito nel titolo. La domanda che guida le nostre considerazioni potrebbe essere formulata pressappoco in questi termini: che tipo di sguardo oggi opportuno e politicamente produttivo rivolgere alla Cina per quanti, in Italia e in Europa, hanno a cuore le ragioni della critica radicale del modo di produzione capitalistico e della costruzione, qui e ora, di un altro mondo possibile? Cercheremo in primo luogo di estrapolare, dallampia letteratura critica internazionale sulla Cina contemporanea, quelli che ci sembrano gli approcci pi interessanti, con cui a nostro giudizio essenziale dialogare. Ci concentreremo quindi su una breve cronaca delle formidabili lotte operaie che, partendo dallo stabilimento Honda di Foshan (nella provincia meridionale del Guangdong), hanno coinvolto centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori tra la primavera e lestate di questanno fino a conquistarsi una apposita voce su Wikipedia. E cercheremo nelle caratteristiche di queste lotte, nella composizione di classe che ne stata protagonista, gli elementi fondamentali che devono orientare il nostro sguardo sulla Cina. Unosservazione preliminare necessaria. La rassegna di approcci alla Cina contemporanea che proporremo ovviamente tuttaltro che esaustiva. Ha soltanto lobiettivo di offrire un primo orientamento. Vi sono tuttavia due discorsi sulla Cina che terremo certo presenti sullo sfondo del nostro ragionamento, ma da cui consapevolmente scegliamo di prendere le distanze. Il primo quello ufficiale della leadership cinese, che non manca di trovare sparuti sostenitori anche dalle nostre parti: un discorso che si caratterizza per lenfasi sulla costruzione del socialismo, sul nuovo equilibrio tra citt e campagna, sulla perequazione sociale che la stessa apertura della Cina con linizio dellet delle riforme avrebbe reso possibile. Si badi, non crediamo che si tratti semplicemente di propaganda: al di sotto di questo discorso c senzaltro unidea di governo dello sviluppo che si tratta di cogliere e analizzare per quello che . Ma certo la propaganda abbonda nelle parole dei dirigenti cinesi: basta salire di sera su uno dei citati grattacieli di Pudong per constatare che il pi delle volte non si vede letteralmente nulla, si avvolti in una densa coltre di smog che ci parla degli immani costi ambientali dello sviluppo cinese; cos come basta addentrarsi nella sconfinata periferia di Pechino per arrivare al distretto di Daxing, dove sono sorte negli ultimi due anni 15 aree recintate in cui vivono in condizioni di vera e propria cattivit migliaia di migranti poveri provenienti dalle campagne, per avere unidea dei costi sociali di quello stesso sviluppo. E tutto il mondo paese, verrebbe da dire scoprendo che questi 15 villaggi recintati sono stati istituiti, nellambito di un progetto municipale chiamato management in stile comunitario, per contrastare la criminalit໠di cui i migranti sarebbero portatori. Il secondo discorso da cui ci teniamo a distanza di sicurezza in questo articolo quello mainstream occidentale sui diritti umani, recentemente rilanciato in grande stile in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace al dissidente incarcerato Liu Xiaobo. Proprio commentando questultimo avvenimento, uno dei pi acuti analisti europei della Cina contemporanea, Jean-Louis Rocca, ha affermato in modo convincente che il discorso sui diritti umani riferito alla Cina ha la medesima struttura e la medesima funzione del discorso occidentale sul totalitarismo sovietico negli anni della guerra fredda. Solo che, aggiunge Rocca, indipendentemente da quel che si pu pensare del totalitarismo sovietico (e della stessa categoria di totalitarismo) la Cina non lUnione sovietica: se lo specchio cinese restituisce oggi allOccidente limmagine del medesimo capitalismo globale che domina il pianeta, lo specchio occidentale restituisce alla Cina limmagine di una crisi della democrazia che ben lungi dal suscitare passioni popolari. In questa situazione, il punto non tanto (o soltanto) luso da parte di governi e altri attori occidentali del discorso sui diritti umani; che quel discorso si presta a divenire unarma utilizzata negli scontri politici interni alla leadership cinese sulla direzione e soprattutto sulla velocit del processo di cambiamento e di riforma politica di cui tutti riconoscono la necessit. E la decisione del comitato di Oslo rischia di favorire quanti sostengono in questi scontri le posizioni pi conservatrici. quasi superfluo affermare che troviamo odiosa la carcerazione di Liu Xiaobo e di molti altri dissidenti, cos come la censura esercitata dal governo cinese su Internet e pi in generale sullinformazione. Ma riteniamo che queste stesse questioni (a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre, a cominciare dalla situazione in Tibet e nello Xinjiang) vadano affrontate a partire da uno sguardo sulla Cina diverso da quello che viene orientato dal discorso mainstream sui diritti umani. 2. Il processo di modernizzazione economica intrapreso dalla Cina sul finire degli anni Settanta una delle pi straordinarie imprese di trasformazione sociale della storia, perch si proposto una doppia transizione: da un sistema economico statalista-socialista e da un regime politico semi-totalitario. Questa la tesi di Minxin Pei: in questo caso il cantore dello sviluppo economico e sociale cinese, che definisce senza precedenti per rapidit e scala, tuttaltro che uno studioso disinteressato. Ispirandosi in modo esplicito a Samuel Huntington, Pei un conservatore trasferitosi negli Stati Uniti ed esperto di relazioni sino-americane, direttore di un importante centro di studi internazionali e strategici americano. Sono il mancato progresso nelle riforme politiche, lautoritarismo delle lite e la conseguente corruzione che secondo lautore intrappolano la transizione cinese. Nello svolgere la sua analisi, Pei sempre molto attento alle diverse posizioni e allo scontro interni al dibattito del Partito comunista cinese (PCC), gi in questo rendendo alquanto sospetta letichetta di totalitarismo che costituisce uno dei postulati da cui muovono gli attacchi anti-cinesi in Occidente. In ogni caso, unaltra dimostrazione di come il vento di critiche al regime della Repubblica Popolare che spira da Ovest abbia spesso non solo chiare motivazioni e finalit, ma anche referenti precisi tra le opzioni attualmente in campo nellaspro, ancorch piuttosto imperscrutabile per occhi esterni, dibattito politico cinese (oltre che, ovviamente, visibili punti di attacco e intuibili mandanti). E tuttavia, va anche notato che le diverse prese di posizione sul piano internazionale, anche le pi discutibili o apertamente reazionarie, ci restituiscono comunque una vivacit di dibattito sulla Cina perlopi sconosciuta in Italia, dove il meno peggio rappresentato dalle cronache giornalistiche di Rampini, che mescola buoni reportage con stucchevoli luoghi comuni, seri elementi di riflessione con il fascino ben poco discreto dellorientalismo. Tra la letteratura che invece nulla ha a che fare con gli obiettivi imperiali, va sicuramente segnalato il lavoro di Giovanni Arrighi, che proprio con Adam Smith a Pechino ha purtroppo concluso il suo importante percorso di ricerca. La tesi del libro ormai nota: recuperando le radici della rivoluzione industriosa dellAsia orientale del XVIII secolo radicalmente diversa o addirittura contrapposta alla rivoluzione industriale inglese la Cina ha intrapreso un percorso di sviluppo in direzione di uneconomia di mercato potenzialmente non capitalistica. Lera delle riforme inaugurata da Deng Xiao Ping alla fine degli anni Settanta, con buona pace di Pei e di conservatori e progressisti occidentali, non attende di essere coronata dalla costruzione di un regime liberaldemocratico capitalistico, ma ha invece aperto la strada a una possibile fuoriuscita dal capitalismo stesso, happy end che potrebbe quindi coincidere con la fine dellegemonia americana ipotizzata con grande lungimiranza e indubbio coraggio dagli studiosi della world system theory gi negli anni Ottanta. Per sostenere la sua tesi, Arrighi si avvale di una peculiare lettura di Smith, che cessa di essere il malinteso teorico della tradizione liberista per diventare invece lassertore della necessit del governo dei processi economici e di una via naturale, ovvero equilibrata, allo sviluppo: linascoltato profeta, appunto, di uneconomia di mercato non capitalistica. Un confronto serio e approfondito con questa tesi e questa lettura richiederebbe, evidentemente, ben altro spazio. Certo, per, non privo di interesse ricordare le parole con cui il primo ministro cinese Wen Jiabao rispondeva a Fareed Zakaria su Newsweek nel settembre 2008, cio nel pieno montante della crisi economica globale: Abbiamo adottato una politica economica in grado di consentire il funzionamento delle forze di mercato nellassegnazione delle risorse, ma sotto la guida e la regolamentazione macroeconomica del governo. Negli ultimi trentanni, abbiamo accumulato una grande esperienza nel facilitare il ruolo della mano visibile e della mano invisibile nel regolare le forze di mercato. Se conosce le opere classiche di Adam Smith, ricorder La ricchezza delle nazioni e il libro sulletica. Ne La ricchezza delle nazioni si parla della mano invisibile, ovvero delle forze di mercato. Laltra opera tratta invece di uguaglianza e giustizia sociale, e si ribadisce limportanza del ruolo regolatore del governo nel distribuire con equit la ricchezza tra la popolazione. Se in un Paese la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, allora quel Paese non conoscer mai stabilit e armonia. Lo stesso vale per lattuale crisi economica americana. Per risolvere le difficolt finanziarie ed economiche che oggi affliggono lAmerica, occorre applicare non solo la mano invisibile, ma anche quella visibile. A partire da questi presupposti, Arrighi critica la tesi di David Harvey, secondo cui laccumulazione attraverso la spoliazione avrebbe condotto la Repubblica Popolare sulla strada di un neoliberalismo tuttal pi con caratteristiche cinesi. Se appare condivisibile la vis polemica di Arrighi nei confronti di un uso troppo largo, e in fondo indeterminato, del concetto di neoliberalismo, lascia invece perplessi lidea che il successo economico cinese stia realizzando lintuizione di Smith di una societ del mercato globale basata su una maggiore equit fra le diverse aree mondiali di civilt. Accumulazione senza spoliazione nelle campagne, persistente influenza delleredit della rivoluzione, economia mista, cooperative, alta qualit del lavoro (per richiamare alcune delle formule utilizzate da Arrighi per descrivere leconomia cinese di oggi) finiscono per comporre un quadro davvero un po troppo simile alle retoriche dellarmonia proposte dallattuale leadership cinese per risultare credibile. Tanto che, quando nelle ultime pagine del libro (contraddizioni sociali del successo economico) il lettore si trova di fronte alla descrizione di una formidabile proliferare di lotte sociali nelle aree urbane come in quelle rurali, non pu mancare di domandarsi a che cosa sia dovuta questa straordinaria conflittualit sociale. E pu finire per pensare che sia appunto una conflittualit meramente sociale, priva di radici nel successo economico. Non daltronde soltanto la memoria della feroce repressione messa in atto dal regime a farci cercare invano, se non per un fugace accenno, il nome di Piazza Tienanmen nelle oltre quattrocento pagine del volume di Arrighi. Il punto che attorno a quel movimento, eterogeneo e complesso come tutti i movimenti di massa, si giocata esattamente la partita dello sviluppo economico e sociale della Cina. In quell89, sostiene in modo convincente Wang Hui (che di quel movimento fu uno dei protagonisti), necessario ricercare radici e genealogia del presente, l bisogna tornare per comprendere la natura e la forma della transizione cinese. Nella sconfitta dei giovani di Tienanmen (studenti e operai, intellettuali e riformatori, critici dellera delle riforme da posizioni liberali, democratiche e/o radicali) si affermata quella che, sulla scorta di Andrew Ross, possiamo definire una vera e propria controrivoluzione culturale la radice del radicale processo di spoliticizzazione che costituisce uno dei cardini su cui ha poggiato la stabilit del regime nei ventanni successivi. Arricchirsi glorioso, si potrebbe chiosare, citando il titolo italiano del secondo volume dellesilarante romanzo di Yu Hua, Brothers, eco lontana di altre restaurazioni. Non in questo senso un caso che uno dei punti centrali di quella che stata definita la nuova sinistra cinese etichetta attribuita in primo luogo agli intellettuali raccolti fino al 2007 attorno alla direzione della rivista Dushu da parte di Wang Hui e Huang Ping sia la reinterpretazione della Rivoluzione Culturale. Non c in questo una riproposizione delle retoriche maoiste, n tantomeno delle sue caricature occidentali: vi , invece, una battaglia politica sulla contemporaneit, in quanto per il regime denghista nota ancora Wang Hui ogni critica rivolta alla situazione presente pu essere considerata un ritorno alla Rivoluzione Culturale e quindi respinta come del tutto irrazionale. Del resto in Adam Smith a Pechino, coerentemente con limpostazione di Arrighi e, pi in generale, della teoria del sistema mondo, lo Stato, colto nel suo costitutivo intreccio con il mercato, il cardine attorno a cui paiono ruotare i processi di trasformazione politica e sociale. Lo Stato e le istituzioni politiche attraverso cui esso si articola sono, per Arrighi, i contenitori di potenza che, nei successivi cicli dellaccumulazione, hanno ospitato il quartier generale dellorganizzazione capitalistica egemone. Il rischio che, in questa prospettiva, la lotta di classe finisca per essere ridotta alla mera funzione di pungolo e di acceleratore delle politiche del governo socialista, costringendo la leadership a fare i conti con i bisogni delle masse, a riadattare i propri indirizzi o a cambiare rotta: le lotte, in altri termini, insistono sul partito (e, attraverso la sua mediazione, sullo Stato) anzich sui rapporti di produzione. Nellultimo libro di Arrighi vi certo un tentativo di andare oltre questo modello analitico e politico, in particolare nella sezione dedicata attraverso un confronto con limportante lavoro di Beverly Silver - sulla straordinaria rilevanza delle lotte operaie nel determinare la dinamica della crisi in Occidente negli anni Settanta del Novecento. una fondamentale indicazione di metodo, che pare per accantonata quando il discorso si concentra sulla Cina contemporanea. In ogni caso, che si concordi o meno con la tesi di Arrighi, il suo lavoro ha lindubbio merito di situare gli sguardi sulla Cina al di fuori del paradigma delleccezione (eccezione totalitaria, o del regime politico, o della cultura, o della tradizione, e via di questo passo). E produce molto spesso un salutare effetto di spiazzamento, come quando, ad esempio, si sofferma sulle forme di accumulazione in Cina: il loro perno non costituito (ed qui per noi dobbligo aggiungere: esclusivamente) dal brutale sfruttamento di una forza lavoro apparentemente inesauribile, ma innanzitutto scrive Arrighi dal grande investimento in formazione e ricerca, che ha portato in tempi rapidi alla creazione di unimmensa schiera di operai industriosi e alfabetizzati [e di] ingegneri, tecnici e scienziati in rapida espansione. Chi, dunque, rivolge il proprio sguardo alla Cina per cercare l soltanto la fabbrica del mondo, fedele a quella discutibile idea del fordismo periferico che Harvey ha contribuito a forgiare, finir invece per trovarvi come in un gioco di specchi limprescindibile piano di verifica di quelle trasformazioni del lavoro e della produzione contemporanei che si pensavano esclusiva dellOccidente avanzato. Anzich poter incastrare la Cina nella casella ad essa riservata dalla divisione internazionale del lavoro, si sar invece costretti ad ammettere la problematicit o addirittura lo sciogliersi di quella immagine dentro i nuovi processi globali di sviluppo e conflitto. 3. il punto di vista delle lotte e della nuova composizione del lavoro a orientare il nostro sguardo allinterno del laboratorio Cina. Arrighi ne ha brevemente descritto il carattere di massa ed espansivo, Beverly Silver ne ha intelligentemente tracciato i nessi con i cicli di conflitto globali. Ma quello che avvenuto negli ultimi mesi rappresenta un salto di scala. La mattina dello scorso 17 maggio un gruppo di lavoratori addetti al reparto montaggio delle fabbriche Honda del distretto industriale di Foshan sono scesi in sciopero, bloccando le linee e rivendicando cospicui aumenti salariali. Nel giro di una settimana circa 1.900 lavoratori avevano disertato le catene di montaggio dei quattro principali stabilimenti della Honda per dar vita a quello che i cronisti hanno immediatamente definito il pi grande e straordinario sciopero contro una multinazionale in Cina. Chiari gli obiettivi: salari e ritmi, pi soldi e meno lavoro si sarebbe detto un tempo in questa parte del mondo. Inedita la composizione: gli operai che sono scesi in sciopero sono quasi tutti molto giovani (una parte consistente addirittura al di sotto dei ventanni) e appartengono a una seconda generazione di quei lavoratori migranti che negli ultimi ventanni sono stati soggetti centrali dei conflitti sul lavoro in Cina. La colossale migrazione interna che stata una delle leve essenziali della crescita cinese le statistiche ufficiali parlano di 150 milioni di migranti interni del resto allorigine di formidabili trasformazioni che hanno investito il piano del rapporto tra i generi in particolare nelle campagne, rivoluzionando la composizione demografica e del lavoro nel Paese intero. il caso di sottolineare che i e le migranti interni si trovano di fronte in Cina, per via dellesistenza del sistema di registrazione del domicilio noto come hukou, condizioni e problemi non del tutto dissimili da quelli che incontrano i migranti non comunitari in Italia e in Europa. E il fatto che lo sviluppo cinese sia proceduto attraverso tecniche di zoning che, a partire dallistituzione delle prime zone economiche speciali, hanno introdotto forti elementi di eterogeneit sotto il profilo normativo e territoriale, dovrebbe chiarire limportanza assunta dallhukou nella gestione e nel controllo della mobilit del lavoro. E sono state proprio le giovani generazioni di lavoratori migranti a produrre i leader degli scioperi, in un processo di autorganizzazione che si svolto del tutto al di fuori dei sindacati ufficiali. Si dir: scelta obbligata, perch i sindacati sono mere articolazioni dello Stato. Cosa certo indiscutibile, che suona del resto un po ironica nel Paese dei Marchionne e dei Bonanni: ma non ci sembra che sia questa lunica dimensione del problema. Il punto che le nuove figure del lavoro in Cina, non troppo diversamente da quelle alle latitudini a noi pi conosciute, esprimono un insieme di tensioni soggettive difficilmente riducibili alle e rappresentabili dalle classiche griglie sindacali. Gli aumenti salariali rivendicati dagli operai della Honda, cos come quelli faticosamente guadagnati dalle operaie intervistate da Leslie T. Chang, servono per inseguire comportamenti e aspirazioni (molto spesso in primo luogo caratterizzati da unidea vaga ma potente di autonoma imprenditorialit) che sfuggono ai tradizionali codici del movimento operaio. estremamente istruttivo, in questo senso, leggere unintervista a Tan Guocheng, loperaio migrante ventiquattrenne, della provincia dellHunan, che ha dato avvio allo sciopero di Foshan fermando le macchine e che ne divenuto uno dei due principali leader, insieme a Xiao Lang. La narrazione della lotta ricorda gli scioperi operai classici, con in pi lelemento delluso delle nuove tecnologie di comunicazione e in particolare dei social networks. Ma a colpire quello che che Tan e Xiao hanno fatto prima di dare avvio allo sciopero: hanno inviato una lettera di dimissioni alla Honda, dando unespressione davvero singolare al loro rifiuto della disciplina e del lavoro di fabbrica. Il loro futuro comunque altrove: volevo semplicemente lottare per ottenere qualche conquista per i miei colleghi di lavoro prima di andarmene, dichiara Tan un mese dopo linizio dello sciopero. Proprio il citato libro di Lesile Chang, del resto, d indicazioni piuttosto precise una volta che lo si legga facendo la tara delle intenzioni apologetiche dellautrice su che cosa sia questo altrove sognato da milioni di proletari e proletarie cinesi dallinterno dei dormitori in cui conducono la loro esistenza irregimentata. Da questa impressionante inchiesta sulle condizioni di vita e di lavoro di giovani donne migranti a Dongguan (ancora nel Guangdong), espressione perversa ed estrema della Cina contemporanea, gigantesca citt fabbrica che produce per i mercati del mondo intero, a emergere una radicale eterogeneit dei rapporti e delle forme di lavoro che sembra concentrare diverse epoche e diverse temporalit dello sviluppo capitalistico. Se Pun Ngai insiste giustamente sul fatto che in Cina esiste oggi una forza lavoro ibrida e transitoria, in continua circolazione tra la fabbrica e la campagna, Chang ci permette di aggiungere che questa stessa forza lavoro in continuo transito tra diversi regimi lavorativi senza cessare di essere sfruttata: le biografie delle giovani donne da lei intervistate si dipanano infatti non solo tra la citt e la campagna, ma anche dagli sweatshop alla fabbrica, dal lavoro formalmente autonomo ai circuiti dello shan-zhai, limitazione cinese dei pi celebri prodotti delle grandi marche occidentali, in particolare nel campo dellelettronica per ricondurci spesso nuovamente agli sweatshop. Questa stessa mobilit e transitoriet contraddistingue anche la vita dei lavoratori e delle lavoratrici che possiamo definire cognitivi, assumendo non di rado i tratti di una sfida lanciata al capitale. Alcuni anni fa, in unimportante ricerca etnografica sulloutsourcing dagli Stati Uniti e i lavoratori della conoscenza in Cina, Andrew Ross ha spiegato come le multinazionali che vogliono flessibilit a senso unico e subordinazione a basso costo, devono continuamente fare i conti con legoismo dei lavoratori, ossia con il loro desiderio di essere mobili come i padroni. Sono lavoratori e lavoratrici impazienti e infedeli, riluttanti a unetica del lavoro messa a dura prova nella quotidiana compravendita di forza lavoro nella regione del delta del Fiume delle perle, e ripagano cos della stessa moneta gli imprenditori fly-by-night: lobiettivo , per le multinazionali cos come per gli operai, intascare il bottino e dileguarsi nella notte. E non pare che questo valga soltanto per segmenti particolarmente qualificati del lavoro, se vero che la direzione della Foxconn di Shenzen (la pi grande fabbrica al mondo di outsourcing di prodotti elettronici, fornitrice di marchi come Apple o Dell, nota per il regime militare imposto ai 400.000 operai perlopi ammassati in sterminati dormitori, e di recente balzata agli onori delle cronache per londata di suicidi dei propri dipendenti) ha candidamente espresso la speranza che gli aumenti salariali strappati dalle lotte recenti possano almeno servire per combattere lalto turnover della forza lavoro. Il problema del management, in questo caso, non dunque aumentarne flessibilit e mobilit, come vorrebbero le retoriche dellimpresa postfordista, ma al contrario stabilizzarla e fidelizzarla. Ad ogni buon conto, proprio questa ambivalente composizione soggettiva che ha messo in ginocchio la direzione della Honda, costringendola dopo due settimane di sciopero a concedere subito aumenti salariali che vanno dal 24% al 32%. Non solo: appena la notizia si diffusa, gli operai di numerose fabbriche dellindotto Honda, ma anche della Toyota e di altre imprese, sono scesi in sciopero nel Guandong e poi in altre province, rivendicando altrettanti aumenti salariali e paga doppia per gli straordinari. E quando nellimpianto della Honda Lock di Zhongshan sono stati offerti 100 yuan (circa 10 euro) in pi al mese, 500 lavoratori indignati hanno definito la proposta un insulto. Cos i padroni, terrorizzati, si sono visti costretti a concedere consistenti aumenti preventivi, fino al 30-40%, per tentare di frenare la propagazione delle lotte che viaggia veloce attraverso sms, chat, internet e quegli strumenti della tecnologia mobile che gli operai stessi producono. Inoltre, se la prima generazione di lavoratori migranti faceva spesso appello alla legalit socialista contro lo sfruttamento e la corruzione, la nuova generazione sembra aver reciso i ponti con il passato anche da questo punto di vista. Come spiega uno dei leader dello sciopero della Honda di Foshan: dicono che il nostro sciopero contro la legge, ma nessuno di noi la comprende bene. Tuttavia, nessuno spaventato e si dice: se illegale, illegale. Potete licenziarci se volete; ma se ci licenziate tutti, tutta la vostra produzione si bloccher. Dunque, se la legge contro i lavoratori, i lavoratori sono contro la legge. La potenza degli scioperi ha messo in discussione limmagine di presunta docilit dei lavoratori cinesi, in particolare nella regione del delta del Fiume delle perle. La Honda, che ha pianificato di ingrandire di un terzo la sua produzione in Cina entro il 2012, di fronte allo spettro dei conflitti operai fa ora i conti con la vulnerabilit dei suoi cicli altamente automatizzati. Le innumerevoli lotte quotidiane che vengono accuratamente registrate in Cina (sia detto per inciso: le statistiche dei sindacati, degli studiosi e degli uffici del lavoro territoriali sono raccolti in libri pubblicamente accessibili e con una sistematicit che nella libera Italia sconosciuta) hanno trovato nello sciopero della nuova generazione operaia il detonatore e moltiplicatore di potenza. Dopo ci che avvenuto alla Honda, anche limpressionante serie di suicidi alla Foxconn nei primi mesi di questanno ha smesso di essere ricondotta alle insondabili sfere della psicologia individuale, interpretazione fino ad allora prevalente, per disvelare non solo la drammaticit delle condizioni di centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici cinesi, ma soprattutto per fare emergere in controluce sia pure in modo tragico il loro diritto alla ribellione per la vita. Come si rapporter il PCC a questa onda montante di scioperi e lotte? Verrebbe da pensare che essa possa costituire il motore di un nuovo processo di sviluppo e di una sperimentazione costituente, che abbia la composizione di classe emergente al centro del proprio disegno strategico. davvero difficile, tuttavia, pensare che il Partito possa e intenda farsi carico di un progetto di questo genere. Certo, il nostro scetticismo nei confronti del Partito non deve fare dimenticare che il PCC ben lungi dallessere il monolite spesso presentato dai commentatori occidentali: un altro esponente della nuova sinistra cinese, il politologo Cui Zhiyuan, ha ad esempio insistito sul fatto che la struttura del potere politico in Cina si definisce allincrocio tra almeno tre dimensioni una dimensione monarchica, incarnata dal governo centrale e dalla leadership del Partito, una dimensione aristocratica, rappresentata dai governi locali e da una serie di gruppi di potere economici, e una dimensione popolare. Il PCC, a giudizio di Cui Zhiyuan, si articola su ognuno di questi livelli, tentando di mediare (ma anche interiorizzando) i conflitti che al loro interno si esprimono. Secondo molti commentatori, lo Stato sta oggi tentando di usare le lotte per creare un circolo virtuoso tra crescita dei salari ed espansione del consumo interno, oltre che per stemperare un clima sociale che inizia a diventare minaccioso per la stabilit politica: infatti proprio il presupposto della spoliticizzazione della societ, richiamato in precedenza, a essere messo in discussione dallondata di scioperi degli ultimi mesi e dalla diffusa solidariet che ha incontrato in Cina (in particolare, sia pure non soltanto, nelle Universit, dove docenti e studenti si sono mobilitati per offrire consulenze e assistenza agli operai in lotta, giungendo a organizzare embrionali gruppi di inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche delle zone economiche speciali). In qualche modo, il PCC deve fare i conti con questa sfida, che sembra segnare la fine di unepoca dello sviluppo cinese quella in cui la Cina era appunto semplicemente la fabbrica del mondo. E sar bene tenere presenti gli scioperi del Guangdong seguendo nei prossimi mesi le stesse vicende della quotazione del renminbi. Quel che certo, in ogni caso, che lirrompere della lotta di classe permette di collocare la questione della democrazia nella sua corretta forma, riconducendola alla continua invenzione determinata dai conflitti del lavoro vivo, anzich chiuderla nelle algebriche formule del pluralismo parlamentare: e come ha affermato recentemente Jon Solomon, in un commento allassegnazione del Nobel a Liu Xiaobo, gli stessi temi dei diritti umani e della dissidenza politica appaiono in una luce nuova una volta che li si collochi nel nuovo scenario aperto dallo sviluppo delle lotte operaie e migranti. Emerge qui il problema del passaggio dalle rivendicazioni economiche alle rivendicazioni politiche di cui parla Li Qiang, direttore di China Labour Watch, una delle tante organizzazioni che al di fuori dei confini della Repubblica Popolare fornisce preziosi resoconti e documenti dei conflitti in Cina. Un passaggio, si potrebbe dire, alla questione del potere, da contestare e da istituire. 4. La Cina un laboratorio, dicevamo. Un laboratorio del capitalismo globale e dello sfruttamento con caratteristiche cinesi, un laboratorio del mescolarsi di eterogenee forme di sviluppo e produzione, un laboratorio delle nuove lotte operaie e della composizione di classe emergente, un laboratorio della scomposizione e ricomposizione della forma Stato oltre la sua crisi, un laboratorio di permanente anomalia nella costituzione del mercato mondiale e della governance imperiale? Probabilmente, tutte queste cose insieme, e proprio in questa misura pi che nelle ormai esauste retoriche del regime socialista o pu diventare un laboratorio per la sinistra, o meglio per qualsiasi progetto che si proponga lambizioso compito di ripensare dalle fondamenta la sinistra stessa. Da questo punto di vista gli sguardi cinesi possono fare della Cina un metodo. Sarebbe quindi ora di immergersi in questo laboratorio, e dismettere posizioni e retoriche subalterne al mainstream anti-cinese la residualit di quelle che tessono lodi e giustificazioni della Repubblica Popolare ci pare sufficiente a liquidarle da s. Non certo perch il regime cinese non vada criticato, al contrario! Ma per farlo necessario mettere in discussione innanzitutto ci che il suo sguardo riflette, cio il mainstream del capitale globale, con caratteristiche cinesi naturalmente. In queste pagine abbiamo provato a offrire una prima panoramica di alcuni dei pi interessanti studi critici sulla Cina, a partire dai quali si profila una griglia di problemi teorici e politici con cui necessario fare i conti anche in Italia e in Europa. Consideriamo brevemente, per concludere, le tre questioni principali che abbiamo qui sollevato: lo sviluppo, la composizione di classe, le lotte. Una cosa ci pare evidente: le domande che il laboratorio cinese ci consegna non trovano risposte adeguate nella cassetta degli attrezzi della sinistra e del pensiero critico che attorno a essa si andato costruendo. Riguardo alla prima delle questioni a cui si fatto cenno, il dibattito politico a sinistra troppo spesso rimasto intrappolato nella fuorviante alternativa tra le mitologie progressive dello sviluppo industriale e, quasi per reazione, quei richiami alla natura, alla frugalit e alla decrescita che, soprattutto in tempi di crisi, si candidano a imbarcare i delusi delle mancate promesse prometeiche del capitalismo. Gli uni e gli altri si nutrono, perlopi in modo involontario, di uno sguardo conservatore sul mondo postcoloniale: timorosi i primi della minacciosa crescita del suo Pil, i secondi dellaccesso di massa a quei livelli di consumo che, fino a ora, sono stati consentiti esclusivamente alla popolazione occidentale. Dalla Cina, e pi in generale dallAsia, ci arrivano contributi fondamentali per ripensare la categoria di sviluppo al di fuori della paralizzante alternativa schematicamente richiamata, che ricorda molto da vicino quella diade sviluppo-sottosviluppo attorno a cui si sono ridefiniti il discorso coloniale nel secondo dopoguerra e quella divisione internazionale del lavoro che oggi abbiamo ipotizzato essere entrata in crisi. Se orientiamo il nostro sguardo alle fabbriche e alle megalopoli del Guandong, ecco che i confini tra primo e terzo mondo, tra zone avanzate e arretrate, tra citt e campagna tendono a scomporsi e ricomporsi su nuove direttrici. Ne emergono forme del lavoro e della produzione, biografie individuali e collettive costitutivamente mobili ed eterogenee, in cui hi-tech e catene di montaggio, smart phone e caserme-dormitorio, knowledge workers, operai e poveri si sovrappongono e mescolano quasi senza soluzione di continuit. Diversamente tanto da Harvey quanto da Arrighi, possiamo dire che la spoliazione non leccezione ma la norma dei rapporti di produzione del capitalismo contemporaneo; non in remote aree periferiche ma nella zona economica speciale di Shenzhen o nella global city Shanghai. Ancora una volta in ogni caso, indipendentemente dal giudizio di merito sulle tesi di Arrighi, il problema che lui pone quello della direzione che lo sviluppo cinese intraprender nella crisi dellegemonia statunitense ci pare centrale. Il nocciolo della questione, per noi, non tuttavia se la Cina sia avviata verso uneconomia di mercato post-capitalistica oppure se abbia irrimediabilmente imboccato la strada di un capitalismo con caratteristiche cinesi. Ci interessa, invece, distogliere lo sguardo dai palazzi del governo per afferrare un nuovo punto di vista sulle politiche di sviluppo della Repubblica Popolare a partire dagli scioperi della Honda e nel Guandong, apice di una lunga fase di conflitti condotti dalla molteplicit di soggetti che innervano la nuova composizione del lavoro vivo in Cina. Quello tra lotte e partito di governo non un rapporto n lineare, n gerarchicamente ordinato una volta per tutte. Potremmo dire lo stesso se allargassimo il nostro sguardo verso altri straordinari e contraddittori laboratori della contemporaneit globale, primo tra tutti quello latinoamericano. Eppure, si ha limpressione che proprio l in quel rapporto di conflitto e invenzione tra movimenti e governance, tra lotte e capacit istituente su cui, alla fine, la sinistra colpevolmente crollata in Italia si giochi la partita sulla direzione dello sviluppo e la possibilit di interrompere e potenzialmente sovvertire lincedere delleterogenea costituzione dello spazio globale del capitale.  2010 Chinese Labor Unrest, http://en.wikipedia.org/wiki/2010_Chinese_labour_unrest  Cfr. ad es. Helen Gao, Migrant Villages in a City Ignite Debate, in New York Times, 3.10.2010 (http://www.nytimes.com/2010/10/04/world/asia/04beijing.html).  Jean-Louis Rocca, Prix Nobel de la paix: dialogues de sourds avec la Chine, in Le Monde, 13.10.2010 ( HYPERLINK "http://www.lemonde.fr/idees/article/2010/10/13/prix-nobel-de-la-paix-dialogues-de-sourds-avec-la-chine_1425720_3232.html" http://www.lemonde.fr/idees/article/2010/10/13/prix-nobel-de-la-paix-dialogues-de-sourds-avec-la-chine_1425720_3232.html).  Minxin Pei, Chinas Trapped Transition: The Limits of Developmental Autocracy, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2008.  Non mancano naturalmente eccezioni assai significative, che rimangono tuttavia a differenza di quel che accade altrove sostanzialmente prive di ricadute sul dibattito mainstream: si vedano almeno Oscar Marchisio (a c. di), Cina & capitalismo, ovvero un matrimonio quasi riuscito, Sapere 2000, Roma, 2006 e A. Pascucci, Talkin China, Manifestolibri, Roma, 2008.  Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo (2007), trad. it. Feltrinelli, Milano 2007.  Per uno sviluppo storiografico di questa tesi, si veda il libro di Kenneth Pomeranz, La grande divergenza: la Cina, l'Europa e la nascita dell'economia mondiale moderna (2000), trad. it. Il Mulino, Bologna, 2004.  Per unampia e aggiornata analisi dellascesa della Cina nel contesto della ridefinizione degli equilibri geo-economici e geo-politici globali, si veda il recente volume a cura di Li Xing, The Rise of China and the Capitalist World Order, Ashgate, Furnham, 2010. In una chiave storicamente e geograficamente pi ampia, unutile lettura Mark T. Berger, The Battle for Asia. From Decolonization to Globalization, Routledge, London New York, 2004.  Fareed Zakaria, We should join Hands, in Newsweek, 28 September 2008,  HYPERLINK "http://www.newsweek.com/2008/09/28/we-should-join-hands.html" http://www.newsweek.com/2008/09/28/we-should-join-hands.html. Lintervista stata ampiamente ripresa dal Corriere della sera nelledizione di due giorni dopo: http://archiviostorico.corriere.it/2008/settembre/30/Cina_fara_sua_parte_nella_co_8_080930004.shtml.  Si veda in particolare il quinto capitolo di David Harvey, Breve storia del neoliberismo (2005), trad. it. Il Saggiatore, Milano, 2007. In una prospettiva analoga, cfr. Naomi Klein, Shock Economy. Lascesa del capitalismo dei disastri, trad. it. Rizzoli, Milano, 2007, pp. 212 ss.  Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 20.  Ivi, p. 414.  Wang Hui, Il nuovo ordine cinese. Societ, politica ed economia in transizione (1997), Manifestolibri, Roma 2006. Per una discussione delle tesi di Wang Hui, si veda Alessandro Russo e Claudia Pozzana, Il nuovo ordine cinese e i passati disordini, in Marchisio (a cura di), Cina & capitalismo, cit., pp. 143-176. A una meritevole iniziativa di Russo e Pozzana si deve anche la traduzione italiana (di Gaia Perini) dei primi quattro capitoli della monumentale opera di Wang Hui sulle origini del pensiero moderno in Cina: Impero o Stato-nazione? La modernit intellettuale in Cina, Academia University Press, Milano, 2009.  Andrew Ross, Verso una nuova rivoluzione culturale in Cina? (2009), trad. it. in Gigi Roggero (a cura di), La testa del drago. Lavoro cognitivo ed economia della conoscenza in Cina, ombre corte, Verona 2010, pp. 21-48.  Si vedano in particolare i primi due capitoli di Wang Hui, The End of Revolution. China and the Limits of Modernity, London, Verso, 2009. In una diversa prospettiva, si veda anche Jean-Louis Rocca, Parola d'ordine stabilit, per la classe media cinese, in Le Monde diplomatique, maggio 2009.  Yu Hua, Arricchirsi glorioso (2006), trad. it. Feltrinelli, Milano, 2009 (Brothers, seconda parte).  Sullimportanza di questa esperienza, nonch sulla sua chiusura con il repentino licenziamento dei due direttori nel luglio del 2007, cfr. Zhang Yongle, No Forbidden Zone in Reading? Dushu and the Chinese Intelligentsia, in New Left Review, 49 (Jan Feb 2008), pp. 5-26.  Wang Hui, Il nuovo ordine cinese, p. 53. In una prospettiva vicina a quella di Wang Hui, si veda il saggio sulla rivoluzione culturale di Alessandro Russo, How to Translate Cultural Revolution, inInter-Asia Cultural Studies, 7 (2006), 4, pp. 673-682 (ma si tenga presente lintero numero della rivista, a cura di Christopher Connery: dedicato agli anni Sessanta in Asia, costituisce una buona esemplificazione della tendenza, di grande interesse, a contestualizzare in una dimensione continentale la stessa rivoluzione culturale).  Arrighi, Adam Smith, cit., p. 265.  Beverly J. Silver, Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 (2003), trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2008.  Arrighi, Adam Smith, cit., p. 404.  Silver, Le forze del lavoro, cit.  Sul lavoro migrante in Cina, si veda Pun Ngai, Made in China: Women Factory Workers in a Global Workplace, Duke University Press, Durham, NC London, 2005 (con una particolare attenzione alla dimensione di genere) nonch C. Cindy Fan, China on the Move. Migration, the State and the Household, Routledge, London New York, 2008. Per una dettagliata analisi dellimportanza dei lavoratori migranti nelle lotte sul lavoro, si veda Ching Kwan Lee, Against the Law: le lotte dei lavoratori nella transizione cinese, in Roggero (a cura di), La testa del drago, cit., pp. 105-140. Sulle recenti trasformazioni dellhukou, si veda Kam Wing Chan, The House Registration System and Migrant Labour in China. Notes on a Debate, in Population and Development Review, 36 (2010), 2, pp. 357-364. Sulle zoning technologies in Cina e in altre regioni dellAsia orientale, si veda Aihwa Ong, Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, Durham, NC London, Duke University Press, 2006, capitolo 4.  Leslie T. Chang, Operaie (2008), trad. it. Adelphi, Milano 2010.  Su questo aspetto, cfr. David Barboza, In China, Labor Movement Enabled by Technology, in The New York Times, June 16, 2010,  HYPERLINK "http://www.nytimes.com/2010/06/17/business/global/17strike.html?src=busln" http://www.nytimes.com/2010/06/17/business/global/17strike.html?src=busln.  Minnie Chan, One Mans Touch Set off Wave of Factory Strikes, in South China Morning Post, 30 June 2010.  Pun Ngai, Chinese Migrant Women Workers in a Dormitory Labor System, in Barha, 2009 http://barha.asiaportal.info/node/968.  Lenfasi su questa eterogeneit di tempi storici e di condizioni del lavoro uno dei tratti caratterizzanti dellanalisi svolta da Jean-Louis Rocca, La condition chinoise. Capitalisme, mise au travail et rsistances dans la China des rformes, Karthala, Paris 2006.  Andrew Ross, Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade: Lessons from Shangai, Pantheon Books, New York 2006.  Sui suicidi e sulle condizioni di lavoro alla Foxconn, si veda Workers as Machines: Military Management in Foxconn, scaricabile dal sito di SACOM (Students & Scholars Against Corporate Misbehavior):  HYPERLINK "http://sacom.hk/" http://sacom.hk/ (a p. 2 del rapporto si pu trovare lelenco dei 17 operai Foxconn che hanno commesso o tentato il suicidio tra gennaio e agosto del 2010: solo quattro sono sopravvissuti con menomazioni pi o meno gravi)  Mimi Lau, Strikers See Red Over Honda Pay Offer Insult, in South China Morning Post, 12 June 2010.  Cfr. Lee, Against the Law, cit.  Han Dongfang, The Strike That Ignited Chinas Summer of Worker Protests, 15/9/2010,  HYPERLINK "http://www.clb.org.hk/en/node/100875"http://www.clb.org.hk/en/node/100875.  Sono dati reperibili, ad esempio, attraverso il Chinese Trade Union Statistics Yearbook, compilato dalla All-China Federation of Trade Unions, oppure dallIstituto di Scienze del Lavoro; nella zona economica speciale di Shenzhen, come nelle altre aree, esistono degli annuari specifici compilati dai locali uffici del lavoro. Si tratta di materiali ampiamente utilizzati dagli studiosi che si occupano della questione (ad esempio nella gi citata ricerca di Ching Kwan Lee) ed elaborati attraverso il lavoro di gruppi di sociologi.  Jenny Chan Pun Ngai, Suicide as Protest for the New Generation of Chinese Migrant Workers: Foxconn, Global Capital, and the State, in The Asia Pacific Journal: Japan Focus,  HYPERLINK "http://japanfocus.org/-Jenny-Chan/3408" http://japanfocus.org/-Jenny-Chan/3408.  Si veda lintervista a Cui Zhiyuan (Machiavelli in Cina), in Pascucci, Talkin China, cit., pp. 81-86.  Esemplare in questo senso, nel dibattito italiano, larticolo di Simone Pieranni, Se lo sciopero cinese diventa mainstream, in Alfabeta 2, Nr. 2 (settembre 2010): pur formulando alcune ipotesi ragionevoli sullatteggiamento del Partito Comunista nei confronti dei recenti scioperi, difficile non vedere come in questo articolo e in molti altri analoghi si finisca per cancellare completamente le ragioni e la soggettivit degli operai e delle operaie in lotta.  Jon Solomon, About Liu Xiaobo. A response to North American Critics, 18-10.2010 http://multitudes.samizdat.net/About-Liu-Xiaobo-A-response-to  Se ne veda il sito:  HYPERLINK "http://www.chinalaborwatch.org/" http://www.chinalaborwatch.org/. Tra i molti siti che consentono di reperire informazioni e documenti sulle lotte operaie in Cina, va inoltre almeno ricordato quello del Chinese Labour Bulletin, fondato nel 1994 a Hong Kong da Han Dongfang:  HYPERLINK "http://www.china-labour.org.hk/en/" http://www.china-labour.org.hk/en/.  Siamo debitori di molti spunti in questo senso al libro di Kuan-Hsing Chen, Asia As Method. Toward Deimperialization, Duke University Press, Durham London, 2010.  Per unimportante critica del discorso dello sviluppo si veda il recente libro di Kalyan Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalit e capitalismo postcoloniale: il caso indiano (2007), trad. it. La Casa Usher, Firenze 2010. Per un approfondimento dei temi e delle linee di ragionamento che qui ci limitiamo ad accennare, rimandiamo alla nostra introduzione a questo volume (pp. 7-20).  Yasheng Huang, Capitalism with Chinese Characteristics: Entrepreneurship and the State, Cambridge Unievrsity Press, New York 2008. 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