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<DIV class=date>Ripropongo questo (relativamente) vecchio ma ottimo
intervento</DIV>
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<DIV class=date>11 2007</DIV>
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href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/print" target=_blank><FONT
color=#000000></FONT></A>
<H1><FONT color=#ff0000>Contro la creative class</FONT></H1>
<P class=author>Alberto De Nicola / Carlo Vercellone / Giggi Roggero</P>
<P class=author> </P>
<P class=author> </P>
<P class=author> </P>
<P class=author> </P>
<P>Immaginate un Millennium People senza Chelsea Marina, metropoli
multiculturali senza la radicalità dei conflitti. Immaginate un ceto medio,
creativo, in espansione e alla ricerca di riconoscimento, in una società che
(fortunatamente, lasciateci aggiungere) riduce il lavoro di fabbrica, ma
(purtroppo) ha seppellito la lotta di classe. In questo scenario
fantasociologico, a sinistra, nei meandri della composizione tecnica di classe,
esistono due immagini dei “lavoratori della conoscenza”. Da una parte, c’è chi
li vede come un settore di élite, inequivocabilmente distanti dagli operai e dai
“veri” precari, identificati con i lavoratori low wage e low skill. Dall’altra,
troviamo chi li esalta come i nuovi soggetti del mutamento, punta avanzata
dell’innovazione e alla ricerca di un congruo riconoscimento della propria
collocazione nella società. Paradossalmente, entrambe le posizioni – pur con
giudizi di valore opposti – convergono sulla lettura della composizione tecnica
di classe e sulla sostanziale legittimazione della stratificazione all’interno
del mercato del lavoro. Il problema diventa il riconoscimento di diritti per
settori di riferimento differenti.</P>
<P class=spip>Entrambe le posizioni, inoltre, sottendono quella che potremmo
definire una nuova visione dei ceti medi, che è tradizionalmente un concetto
interamente politico e ideologico. È, cioè, l’individuazione di un gruppo di
stabilizzazione in senso progressivo del sistema capitalistico <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn1"
name=_ftnref1>[1]</A>. Le due immagini politiche, infine, ricalcano le due
immagini sociologiche prevalenti: da un lato quella dei knowledge worker come
classe emergente e ristretta di lavoratori, in un quadro di crescente
polarizzazione sociale; dall’altro, ipotizzano un processo di lineare
professionalizzazione, intellettualizzazione e qualificazione della
forza-lavoro <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn2"
name=_ftnref2>[2]</A>. Dei primi – i nostalgici di ciò che le lotte hanno
distrutto – non vale la pena di occuparsi: già lo abbiamo fatto a sufficienza
negli ultimi anni, già se ne sono occupati i conflitti e la fuga di massa dal
lavoro salariato. Vale invece la pena soffermarsi sui secondi, in quanto si
tratta di posizioni che trovano un’ampia convergenza tra liberal e settori di
movimento, soprattutto a partire dalla suggestiva ascesa della classe creativa
descritta da Richard Florida <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn3"
name=_ftnref3>[3]</A>. Il problema che ci proponiamo di affrontare, dunque, è
una critica alla creative class che sia radicalmente altro dal “cattivo
operaismo” – architrave della cultura politica di sinistra – intriso di olio,
grasso e mani callose.<BR><STRONG></STRONG></P>
<P class=spip><STRONG><BR>Il sostantivo classe…</STRONG></P>
<P class=spip>La classe è definita da Florida come un cluster di persone che
hanno interessi comuni e tendono a pensare e comportarsi in modo simile. Ma
queste similitudini sono determinate principalmente dalla loro funzione
economica. Le altre distinzioni e caratterizzazioni vengono di conseguenza.
L’elemento peculiare della nostra era, continua Florida, è che le persone si
guadagnano da vivere mettendo al lavoro la propria creatività. All’interno della
composita categoria di knowledge worker, esiste un’ulteriore stratificazione.
Knights, Murray e Willmott sostengono che il concetto di knowledge work serve
innanzitutto per nominare i mutamenti nell’organizzazione del lavoro nella
direzione di una maggiore intensità di conoscenza. Dunque, più che classificare
delle occupazioni determinate, è utile per analizzare il nuovo ruolo assunto dal
sapere nell’intero spettro delle attività e delle forme di produzione. Al
contempo, i networker vengono indicati come l’avanguardia nei processi di
innovazione e di sviluppo dei sistemi organizzativi, sempre più basati sulle
tecnologie informatiche e sulla capacità di fare rete a livello globale <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn4"
name=_ftnref4>[4]</A>. Diversamente Florida propone, all’interno della creative
class, una distinzione tra il super-creative core – composto di scienziati,
ingegneri, docenti universitari, poeti e scrittori, artisti, attori, designer e
archietti, insomma quella che definisce la leadership di pensiero della società
contemporanea, circa il 12% della forza lavoro – e il 20% di creative
professionals, impegnati nei settori high-tech, nei servizi finanziari, nel
business management, nelle professioni legali e nel settore della sanità. Il 43%
della forza lavoro è impiegata nella service class, mentre un quarto è
classificabile nella declinante working class. Questi due strati, sostiene
Florida, sono un supporto infrastrutturale dell’economia creativa.</P>
<P class=spip>Molte critiche sono state mosse alle tesi di Florida. Paul
Maliszewski ne denuncia l’aspetto apologetico, che occulta la precarizzazione e
la produzione ideologica dell’economia creativa, e contesta la dimenticanza dei
55 milioni di lavoratori dei servizi che negli Usa puliscono gli scarti della
classe creativa <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn5"
name=_ftnref5>[5]</A>. Tali critiche, pur cogliendo alcuni degli aspetti
problematici della visione liberal e progressista di Florida, celano spesso una
venatura nostalgica per modelli occupazionali messi in crisi dai conflitti di
classe, e non solo dalla reazione neoliberale. Più interessante è il tentativo
di riconcettualizzazione della categoria di classe di McKenzie Wark. Il teorico
australiano, nell’ambizioso tentativo di aggiornare il Manifesto di Marx ed
Engels nell’età del “lavoro immateriale”, traccia le nuove linee del conflitto
tra classe hacker e classe vettoriale <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn6"
name=_ftnref6>[6]</A>. La classe hacker coincide con i lavoratori immateriali di
alto livello, motore dell’innovazione, costretti a vendere la propria capacità
di invenzione e astrazione alla classe vettoriale, cioè coloro che possiedono i
nuovi mezzi di produzione e monopolizzano l’informazione e gli agenti virali che
la trasportano, i vettori appunto. La classe hacker è un soggetto di
avanguardia, separata dalla classe operaia e dai contadini, ma attorno a cui si
può dar vita ad un processo di alleanze e ricomposizione. Essa trasforma la
politica di massa in una politica della molteplicità, dentro la quale tutte le
classi possono esprimere la propria virtualità.</P>
<P class=spip>L’analisi di Wark – in modo non dissimile dagli studi di Peter
Drucker sui knowledge worker – è centrata sulla proprietà. Manca invece un
discorso sulle forme di vita e sulla soggettività, sulla precarietà e sui
rapporti di sfruttamento. La composizione tecnica coincide per il teorico
australiano con la composizione politica. Al di là delle indubbie differenze di
impostazione e prospettiva politica, è proprio su questo punto che le analisi di
Florida e di Wark convergono: tanto quella creativa quanto quella hacker sono
ancora “classe in sé”, e devono diventare “classe per sé”. Devono, in altri
termini, acquisire la coscienza di classe, per essere all’altezza del ruolo
storico che lo sviluppo capitalistico ha loro assegnato.</P>
<P class=spip><STRONG><BR>… e l’aggettivo creativa</STRONG></P>
<P class=spip>L’identità e la coscienza degli appartenenti alla classe creativa,
sostiene Florida, non sono più fondate sul lavoro o sulle istituzioni
tradizionali, ma sulla propria creatività. I criteri classici di classificazione
dei knowledge worker, basati sul livello di formazione, sul contenuto del
lavoro, sulla posizione occupazionale e sull’inquadramento giuridico, sono messi
in discussione dall’economista americano. Non vi è, infatti, corrispondenza
immediata tra skill e titolo di studio. I percorsi di autovalorizzazione, di
mobilità orizzontale all’interno del mercato del lavoro e di autoformazione
diventano variabili decisive per acquisire saperi e competenze. Se già da tempo
il problema della certificazione delle capacità di tipo contestuale accompagna
la letteratura sui lavoratori della conoscenza, è di grande interesse il
tentativo di Florida di elaborare nuovi indici per misurare la creatività. Viene
quindi proposto un Global Creativity Index, basato su tre T: Tecnologia, Talento
e Tolleranza. Le prime due sono abitualmente utilizzate da chi si occupa della
crescita economica, ma non così avviene per la terza T, l’indice della
tolleranza, che è invece ritenuto da Florida centrale nell’«età creativa». Le
differenze sono infatti il motore dello sviluppo economico e della
valorizzazione capitalistica. Sulla genealogia del presente, del resto, non
sembrano esserci dubbi: nel Dna della classe creativa ci sono i movimenti e le
controculture degli anni Sessanta. Proprio per questo lo stesso Florida è
terribilmente preoccupato per le politiche liberticide e fondamentaliste dei
neocon, materialisticamente edificate su un’attenta lettura della composizione
di classe: esse tendono infatti a fomentare il rancore per alternativi, modaioli
e gay con l’obiettivo accaparrarsi i consensi proletari delle ampie zone
deindustrializzate degli Stati Uniti centrali. Questa politica dei valori, oggi
inseguita dalla miseria della sinistra italiana (priva persino di quell’analisi
materialistica che la fonda), rischia di mettere in fuga la classe creativa,
facendo perdere peso agli Stati Uniti nella competizione globale per i
talenti <A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn7"
name=_ftnref7>[7]</A>.</P>
<P class=spip>L’indice della tolleranza è misurata sulla presenza di bohemians e
gay. Il teorico militante americano Andrew Ross individua
nell’«industrializzazione della Bohemia» l’origine della Silicon Alley, il
distretto tecnologico di New York, analizzando così la messa a profitto delle
forme di vita, di cooperazione e artistiche, alternative e trasgressive che,
negli anni Settanta, si concentravano in particolare nel Lower East Side di
Manhattan, diventato negli anni Novanta un bacino di insediamento produttivo
delle imprese della net economy <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn8"
name=_ftnref8>[8]</A>. È proprio la ricomposizione delle figure del boheme e del
borghese, o per meglio dire l’edulcorazione dei conflitti e dei movimenti dalla
propria radicalità, la premessa sine qua non per lo sviluppo della creative
class. Tant’è che il modello di organizzazione di impresa diventa quello dei
progetti open source, nati per eccedere quei confini della proprietà
intellettuale entro cui vengono così ricondotti. Se la creatività, condensata
nell’intreccio delle tre T, è basata sul rapporto tra l’uno e i molti, potremmo
dire che emerge dalle pagine di Florida il lato oscuro, o meglio la lunga ombra
capitalistica della moltitudine: la singolarità assume le sembianze
dell’individualismo, l’autovalorizzazione diviene culto dell’edonismo, il comune
è trasfigurato nel business imprenditoriale. Nell’incontro tra etica bohemienne
ed etica protestante, la controcultura – magari oggi colorata di pink – diventa
un bacino di investimento nel proprio capitale umano e un modo per fare soldi.
Anzi, è la nuova forma del business nelle città creative, messe in sicurezza e
anestetizzate dal conflitto di classe. Questa è la lezione che Florida trae
dalla San Francisco Bay, culla della controcultura americana e della Silicon
Valley. Dunque, laddove l’etica del lavoro è finita, quando il desiderio di
autonomia e l’infedeltà diventano i nuovi tratti comuni della composizione di
classe, la creatività assume la forma di una nuova etica del lavoro.</P>
<P class=spip>I saperi e la creatività, del resto, appartengono per Florida a
una dimensione astorica, caratterizzano l’essere umano in quanto tale. Viene qui
occultato il loro carattere storicamente determinato, il loro essere prodotto
dell’attività e della cooperazione. Mancano, in altri termini, il lavoro vivo e
i rapporti sociali di produzione. Su questo Wark non ha dubbi: la classe
vettoriale può ricondurre la produzione di conoscenza entro i limiti della
proprietà solo attraverso la produzione artificiale di scarsità, laddove vi sono
ricchezza e abbondanza. Proprio quella ricchezza e abbondanza, caratteristica
della produzione di saperi, costituiscono l’eccedenza che il capitalismo può
tentare di regolare e controllare, ma di cui non si può interamente appropriare.
Attenzione, però: ciò non significa la lineare crisi del sistema capitalistico,
come André Gorz sembra frettolosamente dedurre <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn9"
name=_ftnref9>[9]</A>. Piuttosto, costituisce la base materiale dell’autonomia
del lavoro vivo nel postfordismo. Definisce, al contempo, il campo del conflitto
tra la produzione del comune (diversamente da molte retoriche di movimento, è
opportuno precisare che il bene comune non esiste in natura, ma è continuamente
prodotto dal lavoro vivo e dalla cooperazione sociale) e i tentativi di cattura
e appropriazione capitalistica.</P>
<P class=spip><STRONG><BR>Non c’è classe senza lotta di classe</STRONG></P>
<P class=spip>La creative class rischia così di presentarsi come l’ideologia del
ceto medio dopo la sua fine, problema politico attorno a cui si arrovellano in
un recente libro Massimo Gaggi ed Edoardo Narduzzi <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn10"
name=_ftnref10>[10]</A>. O meglio: se il ceto medio si definiva prevalentemente
in negativo, cioè per appartenenza a un gruppo che si distingueva dalla classe
operaia e dai capitalisti, incaricandosi di mantenere l’equilibrio sociale, la
classe creativa si definisce in positivo, raccogliendo al contempo la funzione
politica della middle class. Quello di Florida è una sorta di liberal-marxismo,
che distingue tra la struttura economica – non più identificata semplicemente
nel lavoro, ma nella messa in produzione della creatività e delle forme di vita
– e la sovrastruttura della coscienza della classe creativa, ancora da far
emerge. Ciò risponde alla razionalità della storia: l’affermarsi della creative
class è infatti per l’economista americano il risultato dell’evoluzione delle
forze economiche. Viene proposta una nuova teoria delle due società: non più
quella – già nefasta – che divideva i garantiti dai non-garantiti, ma quella che
distingue la classe creativa dalla old society.</P>
<P class=spip>Quella di Florida è una teoria delle classi imperniata su un’idea
nuova – da qui l’interesse che suscita – di modernizzazione. Le cosiddette tre T
altro non sono che le condizioni di possibilità attraverso le quali sviluppo,
competizione e crescita economica possono imporsi nell’economia globalizzata. La
componente critica del suo discorso, compresa la critica al bushismo, si
incentra conseguentemente sulla denuncia del ritardo o dell’avversione delle
istituzioni politiche ed economiche rispetto alle proprietà salvifiche del
“nuovo corso”. Lo sviluppo della classe creativa con il suo pieno
riconoscimento, sono ciò a cui il capitale deve guardare per uscire dalle secche
della sua crisi di accumulazione. Proprio per questo motivo Florida può vantare
la capacità di far coincidere la figura dello studioso progressista con quella
di consulente ambito dalle grandi corporation.</P>
<P class=spip>Se questo basta a delineare i contorni di un coerente ed
innovativo discorso sulla crisi del capitalismo e sulla sua possibile cura, più
difficile è capire come l’idea della classe creativa – in quanto elemento
politico, non analitico – abbia fatto presa in vari ambiti di movimento. Causa o
effetto che siano, ne possiamo vedere i risultati nella tendenza di molte lotte
dei precari della creative class a percepire se stesse e a comportarsi come se
fossero delle lobby, più attente cioè al riconoscimento del valore del proprio
capitale creativo nelle gerarchie del mercato del lavoro, che non alla messa in
discussione dei suoi meccanismi di regolazione. Potremmo dirla in altro modo: la
creative class evidenzia la schizofrenia del lavoratore postfordista, l’essere
cioè al contempo lavoro e capitale – ottimamente descritta da Sergio Bologna e
Andrea Fumagalli nel paradigma del lavoratore autonomo di seconda
generazione <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn11"
name=_ftnref11>[11]</A>, apologeticamente esaltata da Aldo Bonomi nell’ideologia
dell’imprenditore di se stesso, superata da Florida nella fusione tra il
bohemian e il borghese. Il problema dei processi di composizione politica di
classe nel postfordismo è ora non la ricomposizione della figura giuridica che
tiene insieme il datore e il prestatore di lavoro, bensì la scissione.</P>
<P class=spip>Le prospettive politiche, dai liberal ad alcuni settori di
movimento, hanno un minimo comun denominatore: la riproposizione di un nuovo
compromesso sociale dell’economia creativa. Un New Deal globale per Florida, un
«welfare low cost» per Gaggi e Narduzzi, un keynesismo post-statale per i
sostenitori del cognitariato. Ma tutti espungono dalla propria analisi il fatto
che il compromesso sociale era fondato non su generici processi di conflitto, né
tanto meno sulla razionalità della ricerca di equilibri progressivi. Era il
risultato della lotta di classe. Rifuggendo tanto dall’immagine elitaria dei
knowledge worker, quanto dalla nostalgia per i dispositivi di occupazione e
garanzia “fordisti”, Andrew Ross individua il nodo politico centrale nella
combinazione delle istanze dei soggetti sopra e sotto la «linea» nella gerarchia
del lavoro cognitivo. In mancanza di una simile prospettiva, continua il teorico
americano, la parte alta si identificherà nell’immagine autoimprenditoriale,
quella alle prese con i processi di de-skilling con le sole battaglie
bread-and-butter <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn12"
name=_ftnref12>[12]</A>. Ross indica invece nella ricomposizione dei conflitti
sulla proprietà intellettuale e sulla distribuzione del reddito il pieno
sviluppo di autonomia della cooperazione sociale. Lungo l’articolazione o
divaricazione di questa linea si colloca la possibile riarticolazione del
concetto di classe nell’età del capitalismo cognitivo <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn13"
name=_ftnref13>[13]</A>, in un senso contrario dal dissolversi delle classi
ipotizzato da Florida. Ossia, dalla creative class come nuovo ceto medio
post-classista.</P>
<P class=spip>Le classi, infatti, non sono un fenomeno naturale, né un semplice
riflesso della stratificazione del mercato del lavoro. Sono categorie politiche.
Se, come afferma Mario Tronti, non c’è classe senza lotta di classe <A
href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftn14"
name=_ftnref14>[14]</A>, potremmo dire che con la lotta di classe non c’è ceto
medio. In altri termini, viene messo in crisi lo spazio di stabilizzazione e
mediazione che i gruppi che fanno parte di questo strato, politicamente,
rivestono. Lo schema che viene proposto tanto da Florida quanto da Wark, invece,
poggia su una separazione netta tra classe in sé e classe per sé, laddove il
collegamento tra l’una e l’altra sarebbe unicamente appannaggio di una non
meglio specificata azione della coscienza. Questo schema finisce per relegare
quella di classe ad una definizione tutta teorica e l’azione politica allo
stretto perimetro del riconoscimento di una trasformazione avvenuta nella
divisione del lavoro, alla quale però ancora non corrispondono i dovuti diritti.
Pensiamo, al contrario, che quello di classe sia un concetto politico in
divenire, dato dalle soggettivazioni immanenti al mondo del lavoro che tentano
di eccedere i processi di gerarchizzazione e individualizzazione che dovrebbero
controllarle e contenerle. Legare oggettivisticamente le stratificazioni della
composizione del lavoro alla definizione di classe rischia di naturalizzare i
dispostivi di controllo e misura del lavoro vivo trasformando questi ultimi, in
semplici aggregati identitari. Il rapporto tra composizione tecnica e
composizione politica di classe, deve invece mettere al centro i conflitti, le
esperienze di rifiuto ed esodo che già avvengono nel mercato del lavoro.
Comprendere come, nell’epoca del lavoro cognitivo, si compongano delle strategie
di autovalorizzazione che resistendo ai dispositivi di comando, sfruttamento e
segmentazione, costituiscono un campo di composizione delle forze; è in questo
campo, definito dalla produzione del comune, che occorre cercare la
soggettivazione politica della classe.</P>
<P class=spip>Da questo punto di vista, l’idea stessa di “ricomposizione” lascia
trasparire l’esistenza di un’originaria unità del lavoro scomposta dalle
divisioni operate dal capitalismo. Il problema politico ed analitico che ci
troviamo invece di fronte, fuori da qualsiasi immagine meramente teorica,
totalizzante e teleologica della classe, è pensare il collegamento tendenziale
delle lotte, la loro possibile generalizzazione e potenziamento, la
codificazione strategica cioè delle resistenze in atto. La classe in questo
senso deve essere pensata come un effetto globale e non come una struttura
oggettiva, sociologicamente definita ed identitariamente formata. È al contempo
la posta in palio e la condizione di possibilità della lotta.</P>
<P class=spip>Lavoro cognitivo, dicevamo. È meglio chiarire: tale categoria non
indica per noi un settore egemone, ricalcato sulla lettura della composizione
tecnica di classe. Così è stato spesso interpretato il cognitariato. Il lavoro
cognitivo è invece la filigrana attraverso cui leggere l’eterogeneità del lavoro
vivo postfordista e i nuovi rapporti di sfruttamento. Non implica altresì un
lineare processo di intellettualizzazione della forza-lavoro, o dell’espansione
progressiva di occupazioni creative. Le dinamiche di déclassement, non a caso,
sono state uno dei terreni di battaglia delle recenti lotte di studenti e
precari a livello europeo e globale. Cognitivizzazione del lavoro, dunque,
significa cognitivizzazione della misura e dello sfruttamento, cognitivizzazione
della gerarchia di classe e della regolazione salariale, cognitivizzazione della
divisione del lavoro e delle forme di resistenza. La segmentazione e
gerarchizzazione interna alla composizione di classe ha innanzitutto una
funzione politica. L’impossibile reductio ad unum, l’irrapresentabilità e
l’eterogeneità delle nuove figure del lavoro vivo postfordista, il suo essere
moltitudine, assumono in Florida la forma dell’homo hœconomicus nell’era
creativa, aperto alle differenze nella misura in cui sia stata cancellata la
differenza radicale: la differenza di classe. Il problema della composizione
politica di classe nel capitalismo cognitivo è invece organizzare la produzione
del comune e al contempo le forme della resistenza. Il problema dell’esodo,
dunque, ma anche del rifiuto, laddove l’etica creativa è diventata la nuova
etica del lavoro. Perché il rifiuto è la condizione di possibilità dell’esodo e
dell’autonomia.</P>
<P class=spip>Potremmo allora qualificare così la questione del virtuale
proposta da McKenzie Wark, in quanto dischiudersi della potenza del presente.
Strappandola però a ogni lettura deterministica o di sintesi dialettica, per
situarla nel campo tracciato dai conflitti di classe, dai rapporti di forza e
dai processi di produzione del comune. Insomma, potremmo dire che le analisi
sulla creative class evidenziano con chiarezza il sovrapporsi di vita e lavoro
nel capitalismo cognitivo. Con ciò ogni idea nostalgica per le forme di
organizzazione del passato di classe è felicemente superata. Dunque, non c’è
nessuna possibilità di restaurare la dicotomia, finalmente defunta, tra lavoro
produttivo e improduttivo. Il problema di tali analisi è però che ne occultano
la funzione interamente politica, cioè l’individuazione e territorializzazione
dei rapporti di sfruttamento e dei luoghi della lotta di classe. Si perde, in
altri termini, il concetto marxiano di lavoro produttivo non in quanto elemento
di distinzione dal lavoro improduttivo, ma come dispositivo teorico di attacco.
Nella sua capacità non di descrivere, ma di far male al nemico.</P>
<P class=spip>Quali sono allora le officine Putilov del lavoro cognitivo? Se le
tre T, come abbiamo visto, sono le condizioni di possibilità dello sviluppo
capitalistico, sacre icone della produzione capitalistica del comune, quali sono
le condizione di possibilità della sua rottura? Qui il cambiamento della
determinazione politica deve avere la forza di mutare anche il segno delle
domande della ricerca teorica. Come individuare all’interno della composizione
del lavoro vivo la gerarchia politica dei conflitti, la quale – lungi
dall’essere il calco sociologico delle gerarchie e segmentazioni del mercato del
lavoro – deve esprimere il valore differenziale dei processi di soggettivazione
e dei punti di attacco che le fanno saltare? Qui sta il nodo, irrisolto, della
composizione politica di classe, che è innanzitutto rifiuto della sua
composizione tecnica, in quanto articolazione della forza-lavoro determinata
dalla produzione capitalistica del comune e dai rapporti di sfruttamento. In
questo snodo centrale si situa il compito del pensiero radicale oggi. Diciamolo
meglio: di un punto di vista di classe all’altezza della composizione del lavoro
vivo contemporaneo, che non va ricomposto, ma di cui va liberata una potenza
fondata sul rapporto tra singolarità e autonoma produzione del comune, laddove
nessuna simmetria e rovesciamento dialettico è possibile.</P>
<P class=spip> </P>
<P class=spip> </P><SPAN class=link-external><A
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<P> </P>
<P> </P>
<P></SPAN> </P>
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<DIV id=ftn1>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref1"
name=_ftn1>[1]</A> Salvati, M. (a cura di, 2000), Da Berlino a New York. Crisi
della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli anni
trenta, Bruno Mondadori, Milano.</P></DIV>
<DIV id=ftn2>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref2"
name=_ftn2>[2]</A> Cfr. Butera, F. – Donati, E. – Cesaria, R. (1997), I
lavoratori della conoscenza. Quadri, middle manager e alte professionalità tra
professione e organizzazione, Franco Angeli, Milano.</P></DIV>
<DIV id=ftn3>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref3"
name=_ftn3>[3]</A> Florida, R. (2003), L’ascesa della nuova classe creativa.
Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano</P></DIV>
<DIV id=ftn4>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref4"
name=_ftn4>[4]</A> Knights, D. – Murray, F. – Willmott, H. (1993), Networking as
knowledge work: a study of strategic interorganizational development in the
financial services industry, in Journal do Management Studies, v. 30, n.
6.</P></DIV>
<DIV id=ftn5>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref5"
name=_ftn5>[5]</A> Maliszewski, P. (2006), Flexibility and Its Discontents, in
The Baffler, n. 16.</P></DIV>
<DIV id=ftn6>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref6"
name=_ftn6>[6]</A> Wark, M. (2005), Un manifesto hacker. Lavoratori immateriali
di tutto il mondo unitevi!, Feltrinelli, Milano.</P></DIV>
<DIV id=ftn7>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref7"
name=_ftn7>[7]</A> Florida, R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La
fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Mondadori, Milano.</P></DIV>
<DIV id=ftn8>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref8"
name=_ftn8>[8]</A> Ross, A. (2003), No-Collar. The Human Workplace and Its
Hidden Costs, Basic Books, New York.</P></DIV>
<DIV id=ftn9>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref9"
name=_ftn9>[9]</A> Gorz, A. (2003), L’immateriale. Conoscenza, valore e
capitale, Bollati Boringhieri, Torino.</P></DIV>
<DIV id=ftn10>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref10"
name=_ftn10>[10]</A> Gaggi, M. – Narduzzi, E. (2006), La fine del ceto medio e
la nascita della società low cost, Einaudi, Torino.</P></DIV>
<DIV id=ftn11>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref11"
name=_ftn11>[11]</A> Bologna, S. – Fumagalli, A. (a cura di, 1997), Il lavoro
autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia,
Feltrinelli, Milano.</P></DIV>
<DIV id=ftn12>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref12"
name=_ftn12>[12]</A> Ross, A. (2006), Technology and Below-the-Line Labor in the
Copyfight over Intellectual Property, in American Quarterly, John Hopkins
University Press, n. 58.</P></DIV>
<DIV id=ftn13>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref13"
name=_ftn13>[13]</A> Vercellone, C. (a cura di, 2006), Capitalismo cognitivo.
Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma.</P></DIV>
<DIV id=ftn14>
<P><A href="http://eipcp.net/transversal/0207/denicolaetal/it#_ftnref14"
name=_ftn14>[14]</A> Ci riferiamo qui in particolare alla relazione Sul concetto
di classe in Marx tenuta da Mario Tronti nel ciclo seminariale «Lessico
marxiano»</P></DIV></DIV>
<P class=author> </P>
<P class=author> </P>
<P class=author> </P></DIV></BODY></HTML>