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<DIV><FONT size=3 face="Microsoft Sans Serif">Un testo di fine ottobre. Però un
intervento di Toni Negri schiarisce sempre le idee. Tanto più mentre si
attraversa la crisi.</FONT></DIV>
<DIV><FONT size=3 face="Microsoft Sans Serif">Ciao</FONT></DIV>
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<DIV><FONT face="Microsoft Sans Serif"><STRONG><FONT color=#ff0000 size=5>Il
pensiero danzante di Lord Keynes</FONT></STRONG></FONT></DIV><FONT
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<DIV><FONT size=2><FONT face="Microsoft Sans Serif"><STRONG><FONT color=#ff0000
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<DIV><BR><BR>di <STRONG>Toni Negri</STRONG><BR><BR><STRONG>Salvare il
capitalismo riconoscendo il potere degli operai. Questo l’obiettivo
dell’economista inglese. Ma il conflitto di classe ha mandato in frantumi quel
fragile equilibrio<BR></STRONG><BR><BR><BR></FONT><A
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target=_blank><FONT face="Microsoft Sans Serif"><IMG
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<DIV><FONT size=3></FONT> </DIV>
<DIV><BR><BR><BR><BR><FONT face="Microsoft Sans Serif">Keynes fu un galantuomo.
Significa: un borghese onesto, non un borghesuccio alla Proudhon, non un
ideologo, ma piuttosto un «uomo di mano», come sapevano esserlo gli economisti
classici, quando l’economia politica nasceva ancora dall’ordinare politicamente
il mercato e la società.<BR>Per Keynes il sapere funziona fattualmente, il che
vuol dire – nella cultura del pragmatismo – che un dispositivo teleologico
(nella fattispecie la sicurezza della riproduzione del sistema capitalistico) va
introdotto nell’analisi delle sequenze dei fenomeni e nel loro assemblaggio –
così, organizzando l’ordine dei fatti, si può costituire, con prudenza ed
efficacia, l’ordine della ragione.</FONT></DIV>
<DIV><FONT face="Microsoft Sans Serif">La scienza economica, ai tempi di Keynes,
non era ancora divenuta quell’orrida macchinetta matematizzata, che oggi è
disponibile a tutte le varianti dell’avventurismo finanziario e a tutte le
derivazioni della rendita. Una volta messa – questa matematica – nelle mani
dell’individualismo imbroglione, abbiamo visto che effetti abbia prodotto.
Questo non significa tuttavia che la matematica non abbia nulla a che fare con
l’economia o con altre discipline. Al contrario, essa può essere utile e
produttiva nell’economia politica, ma su tutt’altro terreno: quello, ad esempio,
sul quale il neo-keynesismo nascerà, dall’incontro fra i programmatori
socialisti della pianificazione sovietica (o quelli liberal del New Deal) ed i
teorici matematizzanti della razionalizzazione del mercato, inventata da Walras.
Al suo tempo, tuttavia, in Keynes il rapporto fra ragione e realtà è ancora del
tutto politico: il capitale vuole ancora chiarezza per se stesso. Keynes si
presenta sul terreno della scienza economica (e sul terreno politico della
critica dell’economia politica ) alla fine della prima guerra mondiale. Fa parte
della rappresentanza inglese alla conferenza di Versailles. È sbalordito dalla
stupidità dei politici che, dopo la sconfitta, vogliono schiacciare la Germania
impoverendola ulteriormente. «Oso predire che la vendetta non tarderà». È Keynes
che già nel 1919, di fronte alla follia di quelle élite che cercano, costruendo
l’assetto post-bellico di applicare i metodi dell’imperialismo classico (e nello
stesso tempo tremano davanti al potente richiamo dell’Ottobre rosso) all’interno
stesso dell’Europa, mette in guardia contro «quella guerra civile finale tra le
forze della reazione e le disperate convulsioni della rivoluzione, di fronte
alla quale gli orrori della recente guerra tedesca sembreranno un nonnulla, e
che distruggerà, qualunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della
nostra nazione». Il fatto è che Keynes aveva capito già allora che la
rivoluzione russa aveva cambiato completamente l’economia politica del
capitalismo, che la rottura del mercato era definitiva, che l’«uno si è diviso
in due» (come dirà più tardi un leader comunista). E cioè che bisognava
riconoscere che lo sviluppo capitalistico era esso stesso percorso e prefigurato
dalla lotta di classe e dai suoi movimenti. È qui che vediamo Keynes esprimere
una prima definitiva consapevolezza: «si dice che Lenin abbia dichiarato che il
miglior modo di distruggere il sistema capitalistico sia quello di rovinarne la
moneta. Lenin aveva certamente ragione. Non vi è mezzo più sottile e più sicuro
di scalzare le basi della società esistente». Ed ecco allora Keynes occuparsi
scientificamente di questo problema politico: come usare la moneta, la finanza,
per battere il comunismo. Sulla traccia keynesiana, il problema centrale
dell’economia politica, resterà questo, sempre, nel secolo ventesimo.<BR>Keynes
credeva nella virtù della finanza (ebbe anche un rapporto equivoco con la Borsa,
che durò finché non gli capitò di prendere una botta sui denti. È quello che
sovente succede in Borsa anche ai più abili... non credo, come sembra credere
invece il suo biografo Harrod, che Keynes avesse la speculazione borsista nel
suo cuore!). La virtù della finanza, dunque. La finanza costituisce il cuore
pulsante del capitalismo: questo è il realistico punto di vista di Keynes. Egli
così rovescia da principio le vecchie concezioni moralistiche che, dal medioevo
a Hilferding, hanno squalificato l’egemonia del denaro nella produzione di
ricchezza e nella riproduzione dell’ordine sociale. Di contro, per Keynes, i
mercati finanziari svolgono un ruolo di moltiplicatori della ricchezza. Può,
quest’assunzione teorica, esser valida anche in periodo di crisi economica?
Certo, risponde Keynes, dal centro di quella crisi che nasce negli anni Venti
per ingigantirsi alla fine del decennio. Lo Stato dovrà allora intervenire sulla
società, e riorganizzarla produttivamente, attraverso un’azione sul tasso di
interesse, «verso quel punto, relativamente alla tabella dell’efficienza
marginale, al quale vi è piena occupazione». In questo modo si costruisce un
intero ricettario terapeutico del keynesismo di fronte alla crisi che scuote
continuamente lo sviluppo. Qui, nel momento stesso in cui costruisce un nuovo
modello di equilibrio, tenendo presente pragmaticamente le finalità dell’ordine
capitalistico, Keynes propone di determinare uno squilibrio continuo, nel
deficit spending, dell’iniziativa dello Stato. Ma questo deficit apre nuovi
margini per la domanda effettiva e sviluppa la dinamica capitalistica, pur
accettando la rigidità verso il basso dei salari dei lavoratori. È così che la
lotta di classe viene assorbita nel sistema del capitale. La proposta di Keynes
è del tutto progressista. Se ne accorgerà presto, Keynes stesso, quando
trattando a Bretton Woods dei rapporti monetari internazionali, si sentirà
opporre dai rappresentanti conservatori di Washington che la moneta di referenza
non poteva dimenticare uno standard reale, che questo standard era il dollaro, e
cioè uno strumento di organizzazione e di divisione internazionale del lavoro,
basato sull’accumulazione dell’oro nella banca di America.<BR>Di conseguenza: il
deficit spending che i singoli governi capitalisti e nazionali avrebbero potuto
avanzare per contenere progressivamente i movimenti delle singole classi operaie
nazionali (che vogliono trasformare la società e rompere<BR>il giogo
capitalista), doveva essere controllato dal centro capitalistico, dal Komintern
di Wall Street. Addio all’illusione del bancor, allora, grande invenzione
keynesiana di una moneta ideale basata sul libero scambio, che avrebbe permesso
equilibri diversi in riferimento ai desideri delle popolazioni ed all’intensità
delle lotte della classe operaia organizzata. Era dunque un capitalista serio,
John Maynard Keynes. Aveva compreso che, davanti alla reazione ed alla
rivoluzione, in presenza di un potere socialista già affermato, non una terza
via, ma solo una sintesi politica più avanzata, poteva difendere gli interessi
capitalistici. Ridendosela dell’«egemonia della produzione reale»,<BR>Keynes
pensa infatti che la finanza possa rappresentare, confrontandosi alla produzione
(quando per società produttiva si intendesse «società civile»), la mediazione
degli interessi contrapposti delle classi, e quindi la costruzione di un nuovo
modello di capitalismo. Contrario al bolscevismo, Keynes non accettava lo slogan
«il potere a chi lavora», e neppure la sua legittimazione: «chi non lavora non
mangia». Comprendeva tuttavia che il socialismo ed il comunismo andavano al di
là, di fatto, nella loro ipotesi di costruzione di un nuovo ordine del lavoro,
di queste primitive parole d’ordine e di questi banali obiettivi politici. Il
comunismo – secondo Keynes – poteva rappresentare la totalità del lavoro
astratto, estratto da tutti i lavoratori della società, quindi da tutti i
cittadini, quindi dall’uomo stesso socializzato. Oggi, accettando queste
paradossali esclamazioni, potremmo dire che il comunismo è la forma del
«biopolitico», quando per «biopolitico» si intenda che, non solo la società, ma
la vita è stata messa al lavoro per produrre merci; e che non solo le relazioni
sociali, ma il rapporto fra menti e corpi è ormai produttivo. Keynes sembra aver
compreso, in una straordinaria anticipazione, l’avvento di quel che oggi
chiamiamo il «comunismo del capitale». Voleva trattenere la lotta di classe
dentro le regole di una società dove lo sfruttamento del lavoro fosse non
semplicemente finalizzato alla costruzione del profitto,ma anche alla
progressione nel soddisfacimento dei bisogni. Non sarà allora difficile
comprendere quanto forte fosse l’odio di Keynes per il rentier! Se vogliamo
muoverci per la salvezza del sistema capitalista, dobbiamo, afferma Keynes,
auspicare (ed è moralmente legittimo oltre che politicamente urgente)
«l’eutanasia del redditiero». Perché il rentier è un anarchico, è un egoista,
che sfrutta, insieme al possesso di terre e degli immobili, degli spazi
metropolitani, il lavoro che circonda queste terre e questi spazi e che li
valorizza continuamente. Il rentier non spende nulla in questo gioco, guadagna
senza lavorare e vince senza combattere. Questo squallido sfruttatore va
eliminato. Siamo al punto più alto di quell’intelligenza capitalistica che,
cercando di comprendere l’avversario, all’interno della lotta di classe,
attraversò il ventesimo secolo. Lasciatemi sorridere: fin qui Keynes ci appare
un genio sovversivo. Tanto più se si pensa che oggi la rendita è ridiventata
centrale nel sistema post-industriale dell’organizzazione del capitale! Ma oggi
non c’è leader politico, né pensatore economico che abbia il coraggio di
attaccare la rendita: si fa moralizzazione contro i ladri palesi, i corruttori
del credito bancario, ma i ladri consueti e sorrettizi, i rentiers che, son
peggio degli usurai, chi li attacca? Chi potrà mai mettere in causa questo sacro
fondamento, reale e simbolico, di ogni forma di proprietà? Keynes ha provato,
non fu gran cosa, ma ci fu. Quello, però, dell’attacco alla rendita, è solo il
punto più alto, fuor di ogni dubbio, del discorso politico di Keynes. Ma è qui
che si rivela il carattere illusorio dei ragionamenti di Keynes. In effetti già
nello sviluppare il suo discorso progressista, Keynes dimentica troppo spesso le
condizioni nelle quali il suo punto di vista (inteso alla salvezza del
capitalismo) si colloca. Keynes muove infatti da due condizioni che considera
insuperabili e<BR>che non ha mai messo in dubbio: il consolidamento finale,
attuale e tendenziale del potere coloniale, in primo luogo; in secondo luogo, la
figura definitiva raggiunta in Europa dall’organizzazione dei rapporti di classe
(organizzazione sindacale ed strutturazione sociale del Welfare). È qui, a
fronte delle enormi trasformazioni del lavoro e della composizione delle classi,
della trasformazione, inoltre, delle dimensioni geopolitiche della lotta di
classe – è qui dunque che comincia per il keynesismo la difficoltà di
presentarsi come teoria dominante all’interno delle dinamiche dello sviluppo,
nella seconda metà del ventesimo secolo e all’aprirsi del ventunesimo.
Guardandolo da questo punto di vista, su questo snodo secolare, Keynes resta un
evento, una folgorazione intellettuale –ma del ventesimo secolo, in conclusione
della lunga crisi capitalistica dell’occidente. La sua è stata una risposta
adeguata alla rivoluzione sovietica, ha rappresentato l’urgenza egemonica di
portare la lotta di classe nello sviluppo e nel controllo del capitale. Non è
null’altro che questo. Gli manca la possibilità di considerare l’estensione
globale della lotta di classe, la fine del colonialismo, e soprattutto
l’esaurirsi della capacità capitalistica di trasformare imetodi dello
sfruttamento e dell’accumulazione proprio qui da noi, nel primo
mondo.<BR>Guardate quello che è successo dopo Keynes. La rivoluzione è proceduta
attraversando il mondo del sottosviluppo e togliendo al capitale la possibilità
di governarlo nelle forme coloniali classiche. Alla dipendenza si è sostituita
l’interdipendenza. Globalizzandosi ed unificandosi il capitale ha in certo qual
modo vinto, ma nel medesimo tempo ha in certo qual modo perso: perché, di
sicuro, il vecchio ordine è stato distrutto ed un nuovo ordine è davvero molto
difficile da costruire. Keynes è andato a male su questo terreno. Per questo
Keynes è oggi irrecuperabile. Non è difficile spiegare perché. Il New Deal
keynesiano era stato l’esito di un assemblaggio istituzionale basato
sull’esistenza di tre presupposti: uno Stato-nazione capace di sviluppare in
maniera indipendente politiche economiche nazionali; la capacità di misurare
profitti e salari dentro un rapporto di ridistribuzione democraticamente
accettato; relazioni industriali che permettevano una dialettica legalmente
accettata fra interesse imprenditoriale e movimenti (rivendicazioni) della
classe operaia. Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nella
condizione economico-politica attuale. L’esistenza dello Stato-nazione è stata
messa in crisi dai processi di internazionalizzazione produttiva e di
globalizzazione finanziaria, che rappresentano le basi di definizione di un
potere imperiale sopranazionale. In secondo luogo la dinamica della produttività
tende sempre di più a dipendere da produzioni immateriali e
dal<BR>coinvolgimento di facoltà umane e cognitive, difficilmente misurabili con
criteri tradizionali, sicché la produttività sociale non consente una
regolazione salariale basata sul rapporto tra salario e produttività. La crisi
dei sindacati è, da questo punto di vista, un elemento esemplare (anche se non
definitivo) nello sviluppo del sistema capitalistico di oggi. Così tocchiamo la
crisi dei rapporti contrattuali: mancano i soggetti di ogni accordo keynesiano.
In più, l‘unico elemento che accomuna gli interessi capitalistici, è in primo
luogo il perseguimento di un profitto a breve termine, in secondo luogo lo
sfruttamento radicale delle possibilità di godimento delle rendite fondiarie,
immobiliari e di servizio. Sicché tutto questo rende praticamente impossibile la
formulazione di riforme progressive. Il risultato complessivo è che nel
capitalismo attuale non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme.
L’instabilità strutturale del capitalismo di oggi è definitiva, nessun New Deal
è possibile. Se proprio volessimo fare uno sforzo per resuscitare Keynes,
potremmo spostare il suo deficit spending, il suo concetto di socializzazione
degli investimenti, verso delle istituzioni del basic income, e cioè verso delle
politiche che anticipino le forme dello sviluppo ed organizzino la struttura
fiscale dello Stato in riferimento alla produttività globale del sistema,
quindi<BR>alla capacità produttiva di tutti i cittadini. Ma facendo questo, con
tutta probabilità, saremmo ben al di là delle misure e dei presupposti
antropologici di una società capitalistica e soprattutto delle ideologie
dell’individualismo (proprietario e/o patrimoniale) e di tutte le conseguenze
politiche che ne coronano lo sviluppo. Battendoci su un basic income che non sia
semplicemente un elemento salariale, ma il riconoscimento di uno sfruttamento
che tocca, non solo i lavoratori ma tutti quelli che sono a disposizione
dell’organizzazione capitalistica nella società – ammettendo e battendoci per
questo siamo già al di là di ogni immagine del capitalismo
proprietario.<BR>L’uno si è diviso in due: mentre Keynes aveva lavorato
incessantemente per chiudere questa divisione e per ricondurre hobbesianamente
le lotte sociale all’Uno, oggi la divisione e le lotte si sono riaperte.
Probabilmente una stagione di lotta di classe sta fiorendo. Keynes amava la
danza (aveva sposato una ballerina), ma non amava i fiori (ne era
allergico).</FONT></DIV>
<DIV><FONT face="Microsoft Sans Serif"><BR><BR>da ALIAS N. 42 - inserto de il
manifesto, 24 OTTOBRE 2009</FONT></DIV></FONT></BODY></HTML>