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<DIV style="FONT-SIZE: 11px"><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN><B>Da: </B><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN>alessandro.di.<WBR>meo @uniroma2.it</DIV>
<DIV style="FONT-SIZE: 11px"><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN><B>Oggetto: </B><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN><B>La vita che verrà</B></DIV>
<DIV style="FONT-SIZE: 11px"><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN><B>Data: </B><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN>21 luglio 2009 11:28:33 GMT+02:00</DIV>
<DIV style="FONT-SIZE: 11px"><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN><B>A: </B><SPAN style="WHITE-SPACE: pre"
class=Apple-tab-span></SPAN>jugocoord</DIV></DIV>
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<DIV><BR></DIV>
<DIV><SPAN style="FONT-SIZE: 15px" class=Apple-style-span><FONT
style="FONT-SIZE: 15px" size=4 face=Garamond><B>La vita che verrà
(</B></FONT><FONT style="FONT-SIZE: 13px" size=3 face=Garamond><B>la culla di
Beba...</B></FONT><FONT style="FONT-SIZE: 15px" size=4
face=Garamond><B>)</B><BR><BR>Un gatto nero s’avvicina al tavolo dove stiamo
mangiando.<BR>Occhi di pantera, gli intingo molliche nell’olio della carne
arrostita e gliele tiro lontano, ché non si fida e non s’avvicina troppo. Mangia
affamato. Di nascosto, gli tiro anche un pezzo di carne, che qui è cosa troppo
preziosa da dare a un gatto. Siamo a Osojane, piccolo villaggio non molto
lontano da Pec, in Kosovo, dove vivono poche famiglie serbe che ancora resistono
nel Kosovo albanese. Sreten, del vicino villaggio di Kos, racconta di come le
cose, nel bene e nel male, vadano avanti da dieci anni. Il Kosovo
“<I>indipendente</I>” è solo uno dei tanti schiaffi alla loro voglia di
resistenza. Ma ci vuole altro per mandarli via, per arrenderli.<BR>Lui e i suoi
amici in questa piccola kafana ci guardano diffidenti.<BR>Come potrebbe essere
altrimenti? Chi siamo noi, che arriviamo qui in questo afoso pomeriggio di
luglio a parlare con loro, a chiedere cose, a scattare foto? Tanti lo
hanno fatto, tanti hanno fatto domande, scritto risposte, scattato foto, filmato
video, ma nessuno è mai ritornato.<BR>Io mi presento, presento la mia
associazione, racconto quel poco o tanto che abbiamo fatto e la voglia di
conoscerli per raccontare ancora. Sreten vive con poche altre famiglie nel suo
villaggio, ma intorno ce ne sono circa duecento. La scuola è ben tenuta, ne
vanno orgogliosi. E ti dicono che hanno bisogno di tutto e di niente. Hanno
bisogno di tutto perché la loro vita è tutta lì, in quella stanca e malmessa
kafana, in un campo da coltivare, in una lezione da tenere, in un ambulatorio da
mandare avanti fra mille stenti, nelle serate passate nella piazza del
villaggio, dove i ragazzini possono giocare. Ma hanno bisogno di niente perché
sono dieci anni che vanno avanti così e non sanno che farsene della solidarietà.
Termino la conversazione con un “<I>Speriamo di vederci presto</I>” che sa di
circostanza, anche se non è così nella mia mente. Solo il tempo saprà dire se
questa speranza sarà stata reale.<BR><BR>“<I>Una prigione a cielo aperto</I>” è
la traduzione delle ultime parole di Sreten che fa Beba, nostra piccola e
splendida occasionale interprete che si ritrova a parlare di cose più grandi di
lei. Dodici anni, Beba è qui con la mamma Jordanka che ha approfittato del
nostro invito per tornare in Kosovo dopo dieci anni dalla fuga. Lei viveva a
Osojane e da sei mesi abitava nella nuova casa costruita col marito Lazar, dove
aveva portato le sue cinque figlie. Ora, Lazar è morto, così come Sanja, la
figlia più grande annegata nel fiume Morava, a Kraljevo. Desiderava rivedere
questi posti, Jordanka, ma la visita al cimitero dove sono sepolti la madre e un
nipote diciassettenne ammazzato da terroristi albanesi è stata straziante per
lei, già al mattino. Ma qui, a poche centinaia di metri c’è la sua casa, vuole
rivederla, non si può dirle di no. E’ già tardi, dobbiamo percorrere il viaggio
di ritorno, ci vorranno altre cinque ore, ma convinciamo l’autista e ci fermiamo
ancora per dieci minuti. Lei ci mostra gli ettari di terra della sua famiglia e
una casa costruita dopo, senza permesso, su quella che era stata la sua terra.
La strada che portava alla sua casa è stata cancellata dal bosco che ha invaso e
seppellito tutto. Allora, aggiriamo il piccolo colle e passiamo da dietro, in
mezzo al bosco, passando fra terre che erano di suoi parenti. Da lontano, si
intravedono altre case distrutte e razziate, facilmente riconoscibili.<WBR>.. le
case dei serbi.<BR>Le forze non l’abbandonano quando, fra i rovi e gli alberi,
si comincia a scorgere la sua casa. Man mano che ci avviciniamo, però, il suo
cammino diviene stanco, rassegnato, preda di ricordi strazianti. Come il suo
pianto quando entra in quella che era la cucina, passando fra rovi e arbusti.
Non ci sono mura, tutte rubate, mattone dopo mattone. Restano in piedi solo i
pilastri, i solai e la scala, ormai tutto staticamente precario. Fra le macerie,
una piccola scarpa di bambina, forse appartenuta a Suncica o, forse, a Beba.
Piange, Jordanka, come pure Beba, costretta a scoprire, fra lo spettacolo delle
sue radici violate e umiliate, la memoria di se.<BR>Vado al piano superiore, mi
giro e rigiro in quella desolazione, cercando di coglierne il senso per
restituirne qualcosa a chi non sa o finge di non sapere, con la mia videocamera.
Ma arriva Jordanka, che subito mi mostra un legno mezzo marcito...
“<I>Alessandro, la culla di Beba!</I>”, mi dice scoppiando in
lacrime.<BR><BR>Jordanka rovista ancora freneticamente, cercando non si sa cosa,
fra mattoni che infami sciacalli hanno spezzato per rubarne altri, insieme alle
tubazioni, ai fili elettrici, al legno del tetto, alle tegole, alle piastrelle
del pavimento, ai sanitari e a tutto quello che era dentro la sua vita. Ritrova
due biberon, Jordanka ed è di nuovo pianto. Beba la segue come un’ombra nei suoi
movimenti, quasi sapesse ogni gesto, ogni parola, ogni sua lacrima, come fosse
donna adulta. E forse davvero lo è, prima del tempo, niente a che fare con le
odierne e tutte nostrane pupe da premier e lacchè.<BR>Scendiamo le scale,
Jordanka cerca ancora.<BR>“<I>Attenti, qui può crollare tutto!</I>”, ma niente
crolla, solo Jordanka potrebbe farlo, da un momento all’altro, sangue che
ribolle ed esplode negli occhi, invasi da rabbia e dolore, tristezza e piaga dei
ricordi.<BR>I rovi e gli arbusti di rosa hanno invaso il piano terra. Mi viene
da prenderne dei rami, Jordanka mi ha insegnato un modo per riprodurle, per
talea, lasciando sette occhi, togliendo le sette foglie, incidendo alla base il
rametto e inserendo dei chicchi di grano. Il tutto va messo per cinque giorni
nell’acqua e poi in terra. Ne prende anche lei, mossa dal mio stesso pensiero.
Le dico che uno dovrà essere mio. E così, in un fazzoletto di carta, le dono
quella spiga di grano colta nel vicino campo a Osojane, il suo
villaggio.<BR>Torniamo al pulmino dove ci aspettano Rade, l’autista e Miso, che
ci ha accompagnato, riattraversando la macchia, che ha cancellato strade e
sentieri, percorsi di memorie.<BR>Beba porta fra le braccia degli stracci,
vecchi vestitini di bambina e quel legno spezzato, sbriciolato, marcito ma tanto
prezioso, della sua vecchia culla.<BR>Mi offro di aiutarla ma dice di no e mi
accorgo che piange, delicata. Mi dice che è triste per tutto quello che ha
visto, ma pure che ringrazia per averla portata lì con la mamma.<BR>“<I>Sono
triste ma pure felice, perché adesso ho visto...</I>”<BR>Si, Beba, un albero
deve conoscere dove stanno le proprie radici per capire dove andare. E tu, ora,
le hai conosciute. Sono qui nel Kosovo, a Osojane, piccolo villaggio vicino
Pec.<BR>E con la tua culla fra le braccia, puoi adesso tornare alla tua vita. La
vita che verrà.<BR><BR>Alessandro Di
Meo</FONT><WBR><WBR><WBR><WBR><WBR></SPAN></DIV></DIV></DIV></BODY></HTML>