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<BODY bgColor=#ffffff>
<DIV><FONT face=Arial size=2>premetto e mi scuso per alcuni errori di battitura,
sul sito verrà la versione corretta.</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>Mi leggerò il tuo scritto Emiliano con lo stesso
piacere con cui ho letto altre cose tue.</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>Non credo che il dibattito contro il lavoro
garanzia sia una novità per questa lista, nei abbiamo parlato spesso, magari
forse cobas per il sindacato di classe non è al corrente delle discussioni e
degli scazzi degli anni precedenti;-)</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>Comunque il lavoro salariato è stato è sarà
finché lo faremo durare lo strumento base per l'organizzazione
gerarchica, autoritaria del potere costituito, ovvero del sistema
capitale.</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>Parafrasando Rosa che della rivoluzione
disse</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>ERO SONO SARO'!</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>finchè c'è il lavoro lo sterminio</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>ERA E' SARA'</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>ciao Emiliano.</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>un pensiero, sempre a Michele.</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2>vittoria</FONT></DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<BLOCKQUOTE
style="PADDING-RIGHT: 0px; PADDING-LEFT: 5px; MARGIN-LEFT: 5px; BORDER-LEFT: #000000 2px solid; MARGIN-RIGHT: 0px">
<DIV style="FONT: 10pt arial">----- Original Message ----- </DIV>
<DIV
style="BACKGROUND: #e4e4e4; FONT: 10pt arial; font-color: black"><B>From:</B>
<A title=emiliano_laurenzi@yahoo.it
href="mailto:emiliano_laurenzi@yahoo.it">Emiliano Laurenzi</A> </DIV>
<DIV style="FONT: 10pt arial"><B>To:</B> <A title=redditolavoro@lists.ecn.org
href="mailto:redditolavoro@lists.ecn.org">redditolavoro@lists.ecn.org</A>
</DIV>
<DIV style="FONT: 10pt arial"><B>Sent:</B> Sunday, April 26, 2009 3:53
PM</DIV>
<DIV style="FONT: 10pt arial"><B>Subject:</B> [Redditolavoro] Arbeit macht
frei - mio testo del 28/10/2007</DIV>
<DIV><BR></DIV>
<TABLE cellSpacing=0 cellPadding=0 border=0>
<TBODY>
<TR>
<TD vAlign=top>
<DIV>Leggendo quando ha scritto Vittoria, mi è venuto alla mente questo
testo che ho scritto per <A
href="http://www.chiavedisvolta.org/altre/wiki/principale.html">http://www.chiavedisvolta.org/altre/wiki/principale.html</A>
il 28 Ottobre del 2007.</DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV>Vi chiedo di leggerlo, ve lo chiedo con umiltà ma chiedendo
attenzione, perché noi parliamo tanto di lavoro come di garanzia,
ma attenzione perché lavoro significa anche legittimazione del modello
sociale imperante. E se ieri era cifra dell'adeguamento e strumento di
scardinamento ideologico della condivisione, oggi è esca della
disperazione e strumento per l'organizzazione autoritaria del potere
costituito come unica salvezza.</DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV>So che è una provocazione su di una lista come questa dire
apertamente di essere contro il lavoro, specialmente in una situazine
come quella attuale, ma se continueremo a lanciare proclami sindacali ed
a decantare le magnifiche sorti e progressive deli lavoratori, non
coglieremo davvero un punto critico che genera la forza del capitalismo
e la sua capacità di messa in produzione anche degli aspetti più critici
(il capitalismo è una speci di "mutaforma"): ovvero il suo stretto
legame con l'organizzazione delle forme di vita, di cui il lavoro,
qualsiasi lavoro, è un formidabile agente.</DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV>Sono graditi commenti, osservazioni, critiche.</DIV>
<DIV>Peccato che manca Michele, sarebbe stata un'altra bella occasione
di scontro.</DIV>
<DIV> </DIV>
<DIV>Saluti libertari e buona lettura</DIV>
<DIV>Emiliano </DIV>
<DIV> </DIV>
<H1>ARBEIT MACHT FREI</H1>
<H1>Contro il lavoro<BR><FONT size=4>di Emiliano
Laurenzi</FONT><BR><H10></H1>
<P align=right><I>«La situazione emotiva della moltitudine postfordista
è caratterizzata dall'</I>immediata coincidenza<I> tra produzione ed
eticità, «struttura» e «sovrastruttura», rivoluzionamento del processo
lavorativo e sentimenti, tecnologie e tonalità emotive, sviluppo
materiale e cultura. Soffermiamoci un momento su tale coincidenza. Quali
sono i principali requisiti richiesti ai lavoratori dipendenti, oggi?
Abitudine alla mobilità, capacità di restare al passo con le più brusche
riconversioni, adattività sposata a qualche intraprendenza, duttilità
nel trascorrere dall'uno all'altro gruppo di regole, attitudine a una
interazione linguistica tanto banalizzata quanto onnilaterale,
consuetudine a destreggiarsi tra limitate possibilità alternative.
Ebbene, questi requisiti non sono il frutto del disciplinamento
industriale, quanto piuttosto il risultato di una socializzazione che ha
il suo baricentro </I>fuori del lavoro<I>. La «professionalità»
effettivamente richiesta e offerta consiste nelle doti che si
acquisiscono durante una prolungata permanenza in uno stadio
pre-lavoratvo o precario. Come dire: nell'attesa di un impiego, vengono
sviluppati quei talenti genericamente sociali e quell'abitudine a non
contrarre durevoli abitudini, che fungeranno poi, una volta trovato
lavoro, da veri e propri «ferri del mestiere».<BR>L'impresa postfordista
mette a frutto questa abitudine a non avere abitudini, questo
addestramento alla precarietà ed alla variabilità. Ma il fatto decisivo
è una socializzazione (con questo termine intendo il rapporto con il
mondo, con gli altri e con sé) che avviene essenzialmente fuori dal
lavoro, una socializazione essenzialmente </I>extralavorativa<I>. Sono
gli </I>chocs<I> metropolitanti di cui parlava Benjamin, la
proliferazione di giochi linguistici, la variazione ininterrotta delle
regole e delle tecniche, a costituire la palestra in cui si forgiano
doti e requisiti che, solo in seguito, diventeranno doti e requisiti
«professionali». A guardar bene, la socializzazione extralavorativa (che
poi, però, confluisce nel «mansionario» postfordista) consiste in
esperienze e sentimenti in cui la grande filosofia e la grande
sociologia dell'ultimo secolo, da Heidegger a Simmel in poi, ha
riconosciuto i tratti distintivi del «nichilismo». Nichilistica è una
prassi che non gode più di un solido fondamento, di strutture ricorsive
su cui far conto, di abitudini protettive. Durante il Novecento il
nichilismo è sembrato un contrappunto collaterale ai processi di
razionalizzazione della produzione e dello Stato. Come dire: da una
parte il lavoro, dall'altra la precarietà e la mutevolezza della vita
metropolitana. Ora, invece, il nichilismo (abitudine a non avere
abitudini, ecc.) entra in produzione, diventa requisito professionale, è
</I>messo al lavoro<I>. Solo colui che è pratico nell'aleatoria
mutevolezza delle forme di vita metropolitane sa come comportarsi nelle
fabbriche del </I>just in time.</I><BR><I>È quasi inutile aggiungere
che, in tal modo, va in pezzi lo schemino mediante il quale tanta parte
della tradizione sociologica e filosofica si è raffigurata i processi di
«modernizzazione». Secondo tale schemino, l'innovazione (tecnologica,
emotiva, etica) sconvolge società tradizionali, in cui prevalevano
consuetudini ripetitive. Filemone e Bauci, i pacifici contadini che
Goethe descrive nel </I>Faust<I>, sono sradicati dall'imprenditore
moderno. Niente di tutto questo, oggi. Non si può più parlare di
«modernizzazione» laddove l'innovazione interviene, peraltro con
periodicità sempre più contratta, su una scena già completamente
caratterizzata dallo sradicamento, dall'aleatorietà, dall'anonimia ecc.
Il punto cruciale è che l'attuale sommovimento produttivo si giova, come
della sua più pregevole risorsa, di tutto ciò che lo schemino della
modernizzazione annovera invece tra i suoi effetti: incertezza di
aspettative, contingenza delle collocazioni, fragili identità, valori
sempre mutevoli. Le tecnologie avanzate non provocano uno «spaesamento»,
tale da dissipare una pregressa «familiarità», ma riducono a </I>profilo
professionale<I> la stessa esperienza dello spaesamento più radicale. Il
nichilismo, dapprima lato in ombra della potenza tecnico-produttiva, ne
diviene poi un ingrediente fondamentale, dote tenuta in gran conto nel
mercato del lavoro.»</I> - da Paolo Virno, Grammatica della moltitudine.
Per una analisi delle forme di vita contemporanee.</H10>
<DIV></DIV>
<DIV><BR><BR> </DIV>
<P align=justify>Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese, e per essere un
comunista degli anni cinquanta, era già molto avanti nella sua critica
ad una delle pietre angolari del pensiero marxista. Ma senza lavoro non
si mangia. E questo assioma del triste senso comune è tanto più vero di
questi tempi di quanto non lo fosse anni fa, in quell'inversione di
passo a cui assistiamo ogni volta che oggi come oggi si tocca
l'argomento del nostro futuro. Già, il nostro futuro. Perché il tema del
futuro sembra sia stato espunto da qualsiasi considerazione relativa al
lavoro. Ed il perché di questa sottrazione, di questo occultamento, ha
le sue ragioni profonde, molto più sottili e molto più raffinate del
semplice controllo sociale di cui il lavoro è palesemente uno strumento,
ragioni che riguardano le forme della nostra stessa
esistenza.<BR><BR>Esiste un'intera gamma di pensieri, ormai così
intrinsecamente intessuti al nostro vissuto da essere in pratica
prepolitici, la cui stessa espressione è divenuta problematica, i cui
nessi logici sono saltati, o sono divenuti così stretti, così prossimi
uno all'altro nel tempo, nel restringere lo spazio fra causa ed effetto,
da fondersi e scomparire. Il lavoro, l'orizzonte ideale, esistenziale,
personale, banalmente vitale del futuro come dimensione in cui pensarci
non esclusivamente come individui soli, in cui proiettare il valore di
quanto facciamo qui ed ora affinché non sia un agire privo di senso,
sono divenuti liquidi, informi, irriconoscibili ai limiti della
scomparsa. Dire futuro però, in questo senso, è dire condivisione. E se
scompare il futuro, scompare la possibilità di condividere. Ed ecco il
perché dell'urgenza del tema lavoro e della sua ridefinizione in
relazione alla dimensione personale, sociale ed esistenziale del
futuro.<BR><BR>Nel secolo scorso tutte le battaglie sociali relative al
lavoro erano state portate avanti in nome dell'emancipazione dalla
miseria e dalla povertà, e per condizioni di vita più dignitose; il
famoso "otto ore per lavorare, otto ore per riposare, otto ore per
studiare" era stato però declinato, sempre, come valore collettivo e
condiviso. Raggiunto quel certo grado di emancipazione e dignità, il
lavoro era stato lo strumento di costruzione di una società del
benessere, giusta e laboriosa, sempre, ancora una volta, però, con un
fine futuro collettivo. Ed in questo spicchio temporale era nata e
fiorita la socialdemocrazia, ad esempio. Ma il lavoro, anche una volta
esaurito il suo ruolo, era rimasto comunque un luogo di rilevanti
contraddizioni, capace di mobilitare non solo il senso, ma le persone
nella loro interezza di soggetti. Paradigmatici di questo periodo in cui
il lavoro andava esaurendo il suo potenziale ideologico, sono stati gli
anni settanta, in particolare in Italia, in cui il confronto su questo
tema ha assunto le forme più durature e violente rispetto a tutti gli
altri paesi cosiddetti sviluppati. Ma la fine di questa capacità di
risvegliare le contraddizioni, tipica del lavoro della modernità, è
venuta meno.<BR><BR>A determinare questo mutamento non sono state nuove
politiche dell'impiego o semplicemente la risoluzione dei conflitti
collegati al lavoro. Il fattore decisivo nel mutamento delle condizioni
di confronto ed aspettative rispetto al lavoro ed al futuro, è stato
senza dubbio la trasformazione profonda, potremmo dire la mutazione,
della natura stessa del capitalismo. La mutazione a cui si accenna è
quella del passaggio da un'economia della tarda modernità a quella di un
regime produttivo di tipo postmoderno. Sul principio, questa mutazione è
stata accolta da una grande euforia, quasi si parlasse di una nuova età
dell'oro. Esemplificano quell'atteggiamento gli entusiasmi criminali
dell'economia yuppie, come le lodi sperticate e speculative che vennero
fatte alla cosiddetta new economy, in una fase invero ormai consolidata
di questo processo. In versione casareccia, lo sbrilluccichìo
consumistico dell'era craxiana era un sottoprodotto italico di
quell'entusiasmo. Altro segnale distintivo dell'inaugurarsi di quell'era
furono la liberalizzazione thatcheriana del mercato borsistico
londinese, così come la crisi finanziaria di wall Street del 19 ottobre
1987. La finanza iniziava a sperimentare gli infarti monetari con cui
spingere se stessa oltre i limiti imposti dall'economia
reale.<BR><BR>Questa mutazione, compiutamente realizzata, è oggi sotto
gli occhi di tutti: prevalenza delle attività di consumo e di fornitura
dei servizi rispetto a quelle della vecchia produzione industriale,
sganciamento totale ed ormai irreversibile delle dinamiche dell'economia
reale propriamente detta, dalle attività finanziarie nel loro complesso,
da cui anzi iniziano a dipendere in maniera sostanziale. La mutazione ha
prodotto un capitalismo che vive e prospera sull'estensione indefinita
dei consumi e sul ricorso alla finanza come processo astratto di
creazione o distruzione reale di capitali. E questo assetto
capitalistico, per le sue intrinseche caratteristiche, capaci di rendere
mercificabili, per la loro immaterialità così affine ai giochi di borsa,
le stesse emozioni, il tempo libero, l'identità personale e in sostanza
tutto ciò che era esterno al dominio del lavoro, ha sviluppato una
pervasività mai conosciuta prima dal vecchio capitale industriale. La
possibilità di una messa in produzione della stessa vita risiede
esattamente nella creazione di ricchezza a partire da valori astratti.
Il carattere concreto del profitto come era stato declinato
dall'economia reale, assumeva ora le caratterstiche emotive ed illogiche
dell'economia finanziaria.<BR><BR>Questo processo investe non solo le
strutture economiche, ma azzera lo stesso limite che divideva lo spazio
di ciò che era merce da ciò che non lo era, lo spazio del lavoro da
quello della vita, ed è parallelo ad un altro processo, che sebbene non
rientri strettamente nel tema del lavoro, ha però contribuito a
ridefinire lo scenario in cui i soggetti possono o non possono
immaginare il proprio futuro. L'altro grande mutamento è infatti il
passaggio dal regime dello spettacolo - quello che Guy Debord descrisse
anche troppo bene negli anni sessanta - a quello dell'informazione, che
corrisponde al passaggio epocale dall'era degli strumenti di
comunicazione analogici a quelli digitali.<BR><BR>Questo passaggio ha
comportato una deflagrazione delle modalità con cui i soggetti
percepiscono. Una deflagrazione fatta del proliferare abnorme di dati,
informazioni, fonti, canali, modi di comunicare, interattività spinta,
definitiva abolizione delle distanze e del tempo (il famoso "villaggio
globale" preiconizzato da Marshall McLuhan), virtualità. L'insieme di
queste pratiche e di questi fenomeni può essere definito regime
informazionale, ed è il regime tipico di una società compiutamente
postmoderna, fluida, in cui la tecnologia digitale ha pervaso tutto il
percepibile ed inizia ad infiltrarsi nelle stesse modalità di
percezione. L'immaginario legato a questa condizione in cui percepiamo,
è un immaginario incapace di sedimentare immagini, di consolidare
figure, di fissare momenti. Un immaginario potentemente
individualistico, sebbene in grado di enucleare stereotpi di tipo
frattale, per quanto questo possa sembrare in sé contraddittorio, ed
anzi lo sia. Si tratta di un immaginario costitutivamente fissato sullo
scorrere ininterrotto. In un vecchio medium come la televisione, si
passa dal palinsesto alla tv di flusso. Nel lavoro, si passa dalla
catena di montaggio, all'organizzazione rizomatica del lavoro, in cui le
caratteristiche esistenziali e caratteriali delle persone, costituiscono
elementi di valutazione e responsabilizzazione. Si tratta del primo
passo verso un condizione senza precedenti dove l'immaginazione come
pensiero di ciò che ancora non c'è, è sottoposta ad una costante messa
in produzione secondo certi parametri. Alla colonizzazione dei corpi
tipica della modernità, subentra la colonizzazione dell'immaginario, una
delle pratiche di controllo della postmodernità<BR><BR>La tecnologia
digitale, fra le altre cose, è stato il catalizzatore tecnologico e
percettivo che ha permesso al capitalismo finanziario di muoversi in
maniera nomade, slegando l'orizzonte dei profitti dalle regolamentazioni
territoriali degli stati, e permettendogli una libertà d'azione
sostanzialmente incontrastata, capace di esercitarsi su praticamente
ogni aspetto della vita umana, non solo a quelli legati alla sfera della
produzione e della valutazione delle merci. Questo ha permesso al
capitale astratto-emotivo ed immateriale di avere un potenziale
decisionale ed un potenza mobilitatrice enormemente più grande dei
singoli stati, la cui forza è imbelle difronte a dinamiche che sono
ormai compiutamente globali. E la stessa potenza che ha permesso alle
dinamiche del capitale - la cui concretizzazione è il regime del mercato
- di infrangere le barriere dei confini statali (uno dei costrutti
identitari collettivi del Novecento nazionalista), ha permesso di
abbattere le modalità con cui gli individui costruivano la loro identità
individuale, e di rendere strutturale l'incertezza, valorizzando al
massimo grado le doti di flessibilità e di mancanza di speranza - dunque
di cinismo ed opportunismo - come qualità.<BR><BR>Tutta una serie
d'interazioni e di attività che possedevano un carattere di
individuabilità territoriale e di descrittività temporale - stavano in
un certo luogo e duravano un certo tempo - sono andate incontro a
mutazioni profonde. Il lavoro, un tempo attività produttiva descrivibile
come individuale e protratta nel tempo, è divenuto una merce, vendibile,
acquistabile e sostanzialmente indifferente rispetto al mero agente
esecutore o realizzatore, cioè il lavoratore. Alla stessa stregua del
lavoro, una gamma vastissima di socialità è stata mercificata in maniera
compulsiva - che è l'equivalente della dinamica seriale della vecchia
società industriale. Ma questa mercificabilità ha la sua genesi proprio
nell'insieme di caratteristiche della vita così come organizzata dalla
tarda modernità: stati nazionali, metropoli come centri
economico-burocratici, massificazione dei consumi, strutturazione dei
bisogni su scala sempre più estesa e con un'incidenza quantitativa
sempre più rilevante. Come diceva McLuhan, l'intensificazione, o
surriscaldamento di un medium, porta al suo capovolgimento. La massima
intensità dell'organizzazione moderna del capitale, coincide con la sua
mutazione. Nessun aspetto della vita, in questo senso, le sfugge.
Semplicemente non esiste più alcuna barriera, alcun limite, nulla che
non possa essere messo in produzione. <BR><BR>Lavorare stancava ai tempi
dell'economia fordista e stanca anche oggi. All'epoca come oggi senza
lavoro non si mangia. Ma se all'epoca il lavoro era un'attività, oggi è
un mero prodotto. E questo ha conseguenze enormi. Perché chi lavora si
trova nella posizione di dover vedere subordinati i suoi diritti come
persona a quelli dell'economia, e dunque vedere subordinato il legittimo
desiderio di pianificare il proprio futuro a logiche astratte sui cui né
i sindacati, né gli stati possono intervenire più di un tot. E qui si
ferma la critica più forte e più radicale che la sinistra oggi riesce a
fare nel nostro paese. Una critica incapace di cogliere proprio la
natura ultima dell'attuale scenario in cui il lavoro non è affatto
quanto si ostinano a dirci, cioè un'attività che ci nobilita e ci offre
gli strumenti per costruire il nostro futuro, bensì un prodotto forgiato
con le nostre paure e le nostre incertezze, la cui qualità è tanto
maggiore quanto più noi siamo disperati, soli, incapaci di condividere
problemi, sofferenze, ingiustizie. Un prodotto il cui valore non ci
riguarda, la cui ricchezza finisce altrove rispetto alle nostre tasche e
di cui noi, con le nostre residuali identità, con i nostri sogni, le
nostre speranze, siamo solo un aggravio, un problema, un costo.
<BR><BR>Nessuno dei paladini sinistrorsi del lavoro, infatti, osa
spingere la critica al cuore del problema. Ed il problema, oggi come
ieri, è quello del controllo delle vite. Ma non solo del noto controllo
fatto di sottrazione del tempo, di governo dei corpi e di disciplina del
comportamento - tutte strategie ben individuate da quella che Foucault
chiamava la biopolitica - bensì proprio dell'attitudine esistenziale
della vita dei singoli individui. Se i vecchi agenti delle strategie di
controllo della biopolitica, ovvero le cosiddette istituzioni totali
(carceri, scuole, ospedali, fabbriche, etc.), ancora sono all'opera,
sostanzialmente però l'area d'intervento sulle nostre vite è più
immateriale, ma molto più potente. Il nichilismo, infatti, è la
filosofia e l'attitudine esistenziale che costituisce il punto di
valore, l'eccellenza nell'adattamento all'attuale regime lavorativo. Non
solo dunque una sottrazione brutale del futuro, sottrazione che
all'interno stesso dei luoghi di lavoro - altro concetto dissolto nella
sua identificabilità spaziale e temporale - poteva innescare quelle
contraddizioni che erano parte costitutiva della stessa politica volta
alla sovversione dell'ordine costituito, no. Non si tratta più dunque di
un'azione portata avanti da soggetti individuabili - padroni,
governanti, militari, fascisti di varia risma, clericali, riformisti,
ecc. - contro la quale procedere nell'elaborazione di una strategia
eversiva o anche più semplicemente di lotta politica volta ad affermare
i valori dell'uguaglianza, della solidarietà e della qualità
esistenziale della vita, delle dimensioni gratuite come la felicità,
l'amore, la pace. Ci troviamo invece difronte a processi impersonali in
cui lo stesso sentimento di incertezza, la stessa paura, la stessa
umiliazione personale e le strategie di rappresentarcela come capacità
di adattamento, come impulso alla sopravvivenza (che è la natura
dell'intraprendenza richiesta per non essere meri esecutori...), sono
nobilitati dall'essere doti morali, marche esistenziali che ci
distinguono dai rifiuti sociali, dai conservatori del vecchio ordine,
dai terroristi, dai disadattati. Non è solo darwinismo sociale, ma
esattamente il processo con cui si stabiliscono le caratteristiche
stesse volte a definire chi è adatto alla semplice esistenza sociale - o
meglio: di mercato - e chi no. E gli adatti sono coloro che sono
disposti a mettere in produzione il proprio sentimento disperante della
perdita del futuro, della vita come eterno presente gaudente,
dell'abolizione del futuro e del suo incombente senso di colpa - ma
anche di speranza - del disprezzo di qualsiasi forma d'immaginazione che
si spinga, eticamente, a collegare al presente un futuro
possibile.<BR><BR>Queste "doti" di mancanza d'immaginazione - e dunque
anche di smemoratezza - sono per altro tipiche di chi vive nel mondo
contemporaneo, di là dal lavoro. Occorre essere reattivi, costantemente
pronti, disposti ad affrontare mutamenti improvvisi, attenti e incalzati
dalla paura di poterci fare male, essere feriti od uccisi. Queste sono
le banali caratteristiche che occorrono per adeguarsi, ad esempio, alla
vita metropolitana. A fronte di una sempre nuova promessa di occasioni,
che se non vengono colte è perché non ci si è annullati abbastanza
nell'unico scopo degno: il successo, peraltro mai raggiunto
stabilmente... La novità, diciamo così, sta nel loro essere messe in
produzione, scavalcando i concetti moderni di professionalità,
preparazione, competenza. Chi non ha speranza vive nel costante
mutamento, senza nessun tipo di aspirazione verso il consolidamento di
condizioni di vita stabili, considerate, ancor prima che impossibili,
non desiderabili. Tutto il potenziale umano va impegnato qui ed ora,
nell'attimo corrente, senza esitazioni, senza reticenze percepite sempre
come sintomi di inadeguatezza, di contraddizione, di ostacolo. Il lavoro
rende liberi quando è finalizzato alla scomparsa di ogni aspettativa e
di ogni memoria, quando la nostra stessa disperazione costituisce un
requisito curriculare.<BR><BR>Difronte a questo scenario, occorre
ripensare proprio le modalità di riappropriazione delle forme di vita e
di futuro, oltre che di memoria, che non passino attraverso il lavoro,
ma che contro le sue forme attuali - forme tutte improntate alla nota di
fondo del nichilismo - affermino nuovi paradigmi esistenziali, nuove
forme in cui mettere in azione il potenziale vitale, nuove forme capaci
di restituirci la possibilità di immaginare il futuro e di ricordare il
passato, di là dalla disperazione. Perché non farlo significa non solo
rassegnarci a vedere mercificato lo stesso dolore e la stessa
disperazione di milioni di persone come noi, ma anche abiurare al nostro
presente.<BR><BR><I>«La nostra vita è un assassinio attraverso il
lavoro, ci fanno penzolare appesi alla corda per 60 anni e ci dimeniamo,
ma noi ci libereremo».</I> Georg Büchner - da <I>La morte di
Danton</I>.<BR><BR><I>«In fondo, [...] si sente oggi che il lavoro come
tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a
impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del
desiderio d'indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran
quantità d'energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo
scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all' amare, all'odiare».</I>
Friedrich Nietzsche da <I>Aurora</I>.
<DIV></DIV>
<DIV><BR> </DIV></TD></TR></TBODY></TABLE><BR>
<P>
<HR>
<P></P>_______________________________________________<BR>Redditolavoro
mailing
list<BR>Redditolavoro@lists.ecn.org<BR>http://lists.ecn.org/mailman/listinfo/redditolavoro<BR></BLOCKQUOTE></BODY></HTML>