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<DIV><BR></DIV>
<DIV>
<DIV class=titoloPrima>La presa di posizione dell'Ordine dei medici di Roma
contro il pacchetto sicurezza e un intervento di Sandro Mezzadra.</DIV>
<DIV class=titoloPrima> </DIV>
<DIV class=titoloPrima>e</DIV>
<DIV class=titoloPrima> </DIV>
<DIV class=titoloPrima><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV class=titoloPrima><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV class=titoloPrima><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV>
<DIV class=titoloPrima> </DIV>
<DIV class=titoloPrima><FONT color=#800080 size=6><STRONG>«Pronti a deferire i
medici che denunciano gli immigrati»</STRONG></FONT></DIV>
<DIV class=titoloPrima><STRONG><FONT color=#800080
size=6></FONT></STRONG> </DIV>
<DIV class=titoloPrima><STRONG><FONT color=#800080
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<DIV class=titoloPrima><STRONG><FONT color=#800080
size=6></FONT></STRONG> </DIV>
<DIV class=titoloPrima><FONT face=Arial size=2></FONT> </DIV><SPAN
class=firma></SPAN>
<DIV class=separatore></DIV>
<P>Contrario alle leggi deontologiche, teso ad aumentare i costi economici dei
pazienti, e causa di una maggiore diffusione delle malattie. Se ci saranno
effetti dell'emendamento della Lega al Ddl sicurezza che elimina il divieto di
denuncia da parte dei medici degli immigrati clandestini assistiti dal Ssn,
approvato dal Senato, saranno questi. Lo sostengono i medici romani, che sul web
hanno avviato una campagna di protesta.<BR><BR>A lanciare l'iniziativa Mario
Falconi, presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Roma, a
margine della visita del sindaco capitolino, Gianni Alemanno, all'Irccs
Fondazione Santa Lucia. «È un provvedimento pazzesco. Per questo motivo
organizzerò una protesta sul sito dell'Ordine dei medici di Roma. Basterà
spingere un pulsante per inviare al Senato, alla Camera e al Consiglio dei
ministri un messaggio molto semplice: 'Medici spie no grazie'». <BR><BR>Poi
aggiunge: «Se vengo a sapere che qualche medico di Roma ha denunciato un
immigrato irregolare lo mando al consiglio di disciplina». Il punto è chiaro e
fermo: «Capisco che in Italia c'è il problema immigrazione- prosegue Falconi- ma
non lo si può certo affrontare costringendo noi medici a fare le
spie».<BR><BR>Da ciò la certezza perentoria che «l'emendamento non ha alcun
senso. Per questo motivo mi auguro che possa essere ritirato». Secondo il
presidente dei medici romani, la decisione di eliminare il divieto di denuncia
da parte dei medici «non porta alcun beneficio perché contrasta con le logiche
deontologiche del nostro lavoro, aumenta i costi economici dei pazienti che
assistiamo e ingrandisce il rischio di diffusione di malattie in quei
clandestini che preferiscono non farsi curare». La decisione di avviare la
protesta online, secondo Falconi, «interesserà tutti i 40 mila medici di Roma.
Se vedessi almeno un effetto benefico generato da questa norma, capirei -
conclude - ma a mio modo di vedere non ci sono risvolti
positivi».<BR><BR><BR>«In questo modo - ha spiegato Mario Falconi - la protesta
arriverà direttamente alla presidenza del Senato, alla presidenza della Camera e
alla presidenza del Consiglio. In questa proposta non c'è un solo aspetto
positivo. L'idea che un clandestino rischi a farsi visitare da un medico è
pazzesca - ha continuato il presidente dell'Ordine - immagino un immigrato
affetto da tubercolosi che, anziché venire da me, se ne andrà al supermercato,
in giro e poi cadrà a terra, finendo al pronto soccorso, tra l'altro con costi
altissimi», ha concluso Falconi. <BR><BR>In questa norma - conclude il
presidente dell'Ordine - non c'è un solo aspetto positivo.</P>
<P> </P>
<P><FONT face=Arial size=2></FONT><FONT face=Arial size=2></FONT><BR
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<DIV class=data><FONT size=1>11 febbraio
2009 </FONT><A
href="http://www.unita.it/news/81437/immigrazione_medici_romani_protestano_sul_web"><FONT
size=1>http://www.unita.it/news/81437/immigrazione_medici_romani_protestano_sul_web</FONT></A></DIV>
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<DIV class=data><FONT size=1></FONT> </DIV>
<H1 class=data dir=ltr style="TEXT-ALIGN: left"><FONT color=#800080
size=5>Prolungamento dei tempi di detenzione - La forma campo come governo
flessibile dell’esubero</FONT></H1>
<DIV class=data dir=ltr style="TEXT-ALIGN: left"><FONT face=Arial
size=2></FONT> </DIV>
<DIV class=data dir=ltr style="TEXT-ALIGN: left"><FONT face=Arial
size=2></FONT> </DIV>
<DIV class=data dir=ltr style="TEXT-ALIGN: left"><FONT face=Arial
size=2></FONT> </DIV>
<H2 class=data dir=ltr style="TEXT-ALIGN: left"><FONT size=4>Intervento del
Prof. Sandro Mezzadra pubblicato su «La Revue Internationale des Livres &
des Idées» (RiLi), n. 9 (janvier-février 2009)</FONT></H2>
<DIV class=arttesto dir=ltr>
<P class=spip>Nel pacchetto sicurezza approvato dal Senato in questi giorni sono
molte le norme che inaspriscono le condizioni di vita dei migranti dentro uno
scenario di crisi epocale destinato a consolidarsi come qualcosa di
paradigmatico, strutturale. Ma tra i tanti provvedimenti restrittivi, a
sorpresa, il governo è stato battuto con voto sfavorevole su uno dei punti
definiti più qualificanti dallo stesso Ministro dell’Interno Roberto Maroni, il
prolungamento fino a 18 mesi dei tempi di detenzione all’interno dei centri di
identificazione ed espulsione (come previsto dalla direttiva europea sui
rimpatri). Il Viminale ha già annunciato l’intenzione di ripresentare la
proposta all’interno della discussione del ddl 733 alla Camera. Si prefigura
quindi la possibilità che il provvedimento torni al vaglio del Senato una volta
modificato dall’altra aula del Parlamento. <BR>Può l’esecutivo rinunciare a
questo strumenti di governo dei movimenti migratori dentro a questa fase di
crisi caratterizzata dall’esubero, dall’espulsione dal mercato del lavoro di
moltissimi migranti e quindi dalla presenza di un esercito <I class=spip>sociale
più che industriale</I> di riserva precario, disponibile, pronto ad essere
utilizzato nel quadro di flessibilizzazione e precarizzazione del
lavoro?<BR>Ovvio che la questione del prolungamento ha anche e soprattutto un
alto valore simbolico e retorico nella costruzione della figura del migrante
come nemico, come pericolo. Non di meno, l’utilizzo del campo, è anche qualcosa
che ha a che vedere con la necessità di flessibilizzare le possibilità di
detenzione in funzione dell’utilizzo politico delle tanto acclamate espulsioni.
La questione non è di facile soluzione, anzi, quello che abbiamo all’orizzonte è
un quadro caratterizzato dall’impossibilità di definire conclusioni certe.
Piuttosto, all’ordine del giorno, si pone il problema dell’inchiesta, della
comprensione, dell’interrogativo permanente. Per questo vi proponiamo questo
articolo (e due ricche bibliografie commentate) scritto dal <STRONG
class=spip>Prof, Sandro Mezzadra</STRONG>, docente presso la facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Bologna, autore del saggio "Diritto di fuga" e
promotore della rete Uninomade.</P>
<P class=spip> </P>
<P class=spip><FONT face=Arial size=2></FONT> </P>
<P class=spip><I class=spip>Il testo:</I></P>
<P class=spip><EM></EM><BR>18 mesi: è questo il tempo massimo di permanenza dei
migranti nei centri di detenzione amministrativa fissato dalla direttiva europea
sui rimpatri (giugno 2008). A tutti gli effetti la detenzione amministrativa è
così riconosciuta come una pietra angolare delle politiche migratorie europee.
Nel cuore del territorio della UE, ai suoi confini e al di là di essi i centri
di detenzione, nelle molteplici forme giuridiche e organizzative in cui si
presentano, si sono moltiplicati negli ultimi anni: è un’altra geografia
dell’Europa quella che così prende forma, che si sovrappone a quella della
«cittadinanza europea» senza coincidere con essa e mostrando piuttosto il
carattere strutturalmente instabile di quest’ultima. I centri di detenzione sono
uno dei dispositivi fondamentali attraverso cui i confini dell’Europa si
insinuano all’interno del suo stesso territorio e si flettono fino a raggiungere
quei paesi più o meno vicini (dal Marocco alla Libia all’Ucraina) in cui
esistono centri di detenzione finanziati e in parte gestiti dall’Unione europea.
È la stessa secca alternativa tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione,
a essere messa in discussione da questi istituti, che esibiscono così – lo ha
brillantemente mostrato Federico Rahola in un saggio recente(1) – una continuità
essenziale con la <I class=spip>forma-campo</I>.<BR>Attorno al tema del campo,
della sua genealogia e della sua diffusione contemporanea, si è andata
accumulando una gran mole di letteratura – storica, antropologica, filosofica –
negli ultimi anni. La parola stessa non è oggi più legata a doppio filo
all’esperienza dei “totalitarismi” novecenteschi, non richiama più
immediatamente l’«universo concentrazionario» nazista: essa indica piuttosto un
dispositivo (una forma, appunto) che ha conosciuto un gran numero di
manifestazioni in particolare nella storia coloniale moderna, ma anche nei
territori metropolitani europei. A tutti gli effetti, il campo rientra tra gli
istituti caratteristici dello Stato moderno. E si presta anzi a offrire un punto
di vista affatto specifico, e tuttavia rivelatore, a partire dal quale rileggere
la storia di quest’ultimo. È questo il punto di partenza del libro di Marc
Bernardot (<I class=spip>Camps d’étrangers, Bellecombe-en-Bauges, Éditions du
Croquant</I> [Collection TERRA], 2008, pp. 223, 18, 50 euro), professore di
sociologia alla Université du Havre, che si sofferma su un tipo particolare di
campo – il «campo per stranieri», appunto – proponendone una definizione
precisa: «un regroupement imposé et arbitraire de civils enfermés sans jugement
en dehors du système pénitentiaire, visant à les isoler, les expulser, les
rééduquer ou les faire travailler».</P>
<P class=spip>Il libro è organizzato in tre parti, che ruotano attorno ai tre
assi della sociostoria di una parola, di una tecnica e delle popolazioni
internate. Ed è il caso di osservare preliminarmente che nell’arco storico
analizzato da Bernardot, soprattutto in riferimento al caso francese, è lo
stesso significato del termine “stranieri” ad assumere significati diversi, a
cui corrispondono mutamenti significativi nelle funzioni e nella natura dei
campi. Con l’inizio della prima guerra mondiale, il campo si presenta sulla
scena come spazio di internamento per i cittadini dei Paesi nemici. Ma la fine
della guerra non coincide con la fine dei campi: «un ensemble de lieux
potentiels d’internement», scrive piuttosto Bernardot, «sera dorénavant
disponible de même qu’un corpus de textes et de règles». A popolare questi
luoghi saranno in particolare profughi e soggetti coloniali presenti nello
spazio metropolitano, due categorie di soggetti che occupano una posizione del
tutto anomala rispetto all’opposizione secca tra cittadini e stranieri, di cui
mostrano anzi le incrinature e l’incipiente crisi. I campi per gli stranieri
giocano un ruolo essenziale precisamente nel governo e nel controllo di questa
crisi: la sociologia storica dello Stato proposta da Bernardot attraverso lo
studio di questi campi finisce così per offrire, ed è forse questa la ragione di
maggior fascino del libro, uno sguardo liminale, una ricostruzione della vicenda
dello Stato moderno a partire dal suo <I class=spip>confine interno</I>. Posto a
presidio di questo confine, il campo per stranieri è del resto tutt’altro che
uno spazio “marginale”: nella prospettiva di Bernardot, che integra sociologia
storica dello Stato, sociologia delle migrazioni e sociologia urbana, esso
costituisce piuttosto una lente che permette di analizzare le grandi cesure che
segnano sia le politiche migratorie sia l’organizzazione degli spazi
metropolitani.</P>
<P class=spip><STRONG class=spip>Il dispositivo del campo</STRONG></P>
<P class=spip><STRONG></STRONG><BR>Il campo analizzato da Bernardot ha dunque
uno statuto per definizione ambiguo, costituendosi nel punto di incrocio tra una
logica essenzialmente <I class=spip>repressiva</I> e una logica umanitaria, di
<I class=spip>protezione</I>. Se da una parte sorge per <I
class=spip>separare</I> dallo spazio della cittadinanza gruppi di popolazione
presentati come pericolosi, dall’altra esso è lo spazio in cui lo Stato si fa
carico della presenza sul suo territorio di popolazioni bisognose di assistenza.
<I class=spip>Mise à l’ecart</I> e messa sotto tutela si intrecciano, fino a
confondersi, nella definizione del «campo per stranieri».<BR>Non solo: il campo
per stranieri pone in discussione ogni immagine lineare, evolutiva, della storia
dello Stato moderno. <BR>Disciplina, biopolitica e controllo, tre termini che
secondo un diffuso senso comune “foucaultiano” si presterebbero a indicare tre
fasi successive nello sviluppo dei moderni regimi di potere, definiscono qui
modalità e logiche di funzionamento dell’istituto contemporaneamente presenti.
Il campo per stranieri combina infatti processi di organizzazione disciplinare –
su un modello essenzialmente militare – con minuziose procedure di presa in
carico della “vita” degli internati, la cui stessa soggettività appare sospesa
tra i due poli del nemico pubblico e della vittima potenziale. Considerati lungo
l’intero arco della loro storia novecentesca, del resto, i campi esibiscono
caratteri di aleatorietà nella gestione dei «flussi» di popolazioni straniere
che anticipano alcuni elementi costitutivi della società di controllo.</P>
<P class=spip><STRONG class=spip>Non cittadini nello spazio politico
nazionale</STRONG></P>
<P class=spip><STRONG></STRONG><BR>Sotto il profilo storiografico, uno degli
elementi maggiormente originali del lavoro di Bernardot consiste nel mostrare la
funzione essenziale dei campi nella gestione della presenza nel territorio
metropolitano dei “sudditi coloniali”, come lavoratori o come soldati, a partire
dalla prima guerra mondiale. L’elemento di segregazione spaziale, di separazione
di questi soggetti dai cittadini metropolitani, consente da questo punto di
vista di ricostruire un continuum di misure di sorveglianza e controllo che ha
nel campo la propria matrice ma che si distende nei territori circostanti,
assegnando a spazi abitativi segregati i lavoratori coloniali nei bacini
industriali e prefigurando la specificità francese dei «foyers de travailleurs
migrants».<BR>Ma al tempo stesso il campo, Bernardot lo mostra in modo
particolarmente efficace a proposito del caso di Larzac negli anni della guerra
di Algeria, si presta a essere analizzato come un vero e proprio «spazio
politico», in cui la mobilitazione degli internati sovverte continuamente le
linee di divisione attorno a cui si organizza il controllo delle autorità e
anticipa comportamenti e rivendicazioni che sarebbero stati al centro delle
lotte urbane e industriali dei migranti negli anni Sessanta e Settanta. Si
tratta certo, al di là del caso specifico di Larzac e del contesto della guerra
di Algeria, di mobilitazioni che incontrano difficoltà enormi, che scontano la
“debolezza” dei soggetti internati e i problemi derivanti dal fatto che «les
mobilisations de non-citoyens sont structurellement impensables dans l’espace
politique national». E tuttavia i campi non sono mai stati, e non sono oggi,
spazi pacificati: mi pare un’ulteriore indicazione preziosa di Bernardot, che ci
mette implicitamente in guardia dal considerare come mere “vittime” i soggetti
che li abitano, secondo una retorica condivisa sia da molte organizzazioni
umanitarie che partecipano alla gestione dei campi sia da una parte degli
attivisti che si battono contro di essi.</P>
<P class=spip><STRONG class=spip>Plasticità della forma-campo e metamorfosi
della questione sociale</STRONG></P>
<P class=spip><STRONG></STRONG><BR>Nel suo complesso, proprio grazie alla
prospettiva di lungo periodo assunta dall’autore, l’analisi di Marc Bernardot
presenta il campo per stranieri come «une hypostase d’institution sociale en
recomposition permanente en fonction des circonstances sans se fixer dans une
forme définitive». È proprio l’insistenza sul carattere proteiforme e flessibile
del campo l’aspetto più importante del libro. Internamento e segregazione degli
«stranieri» ne costituiscono indubbiamente caratteri strutturali, con il carico
di violenza che ciò comporta. Ma per comprendere – e per criticare efficacemente
– le funzioni svolte dal campo per stranieri non è sufficiente soffermarsi su
questi aspetti. È piuttosto lo statuto ambiguo dell’istituto, su cui ci siamo in
precedenza soffermati, a renderlo straordinariamente flessibile e adattabile al
mutare delle circostanze storiche (e dunque non riducibile a un generale e
generico «paradigma biopolitico della modernità», per riprendere la tesi di
Giorgio Agamben). Legato a doppio filo alle politiche migratorie, il campo ne
asseconda gli imperativi di controllo, selezione e protezione, ponendosi come
una sorta di garanzia in ultima istanza dell’equilibrio – strutturalmente
instabile – tra di essi. <BR>Esemplare, in questo senso, è il rapporto
ambivalente che il campo intrattiene con il lavoro. «Pour les migrants en
général», scrive Bernardot, «et plus particulièrement pour les populations en
provenance des (ex) colonies, le travail constitue à la fois une justification
centrale de la présence sur le sol du pays d’accueil et une manière de le rendre
invisible»: il campo interviene precisamente, con la smobilitazione degli
algerini nella regione di Parigi alla fine della prima guerra mondiale così come
dopo i grandi scioperi degli anni Settanta, nel momento in cui la perdita del
lavoro rende la presenza dei lavoratori coloniali o dei migranti al tempo stesso
illegittima e visibile.<BR>Può costituire così uno spazio di contenimento di una
riserva di forza lavoro da impiegare in modo flessibile (in formazione
permanente attraverso l’organizzazione del lavoro all’interno del campo stesso)
così come l’anticamera dell’espulsione: e si presta dunque a funzionare in modo
particolarmente efficace come camera di decompressione delle tensioni che si
accumulano su un mercato del lavoro quale quello contemporaneo, riorganizzato
all’insegna di una domanda di lavoro <I class=spip>just in time</I>.<BR></P>
<P class=spip>Nel contesto contemporaneo, caratterizzato dalla «crisi
dell’asilo», dalla «militarizzazione della questione sociale» e dall’«emergenza»
dell’immigrazione irregolare, il libro di Bernardot richiama così la nostra
attenzione sulla diffusione pervasiva (sulla «plasticità» e sulla
«miniaturizzazione») della forma-campo. La stessa tendenza, evidente in tutta
Europa, all’allungamento dei tempi di detenzione e all’aumento delle «capacités
d’enfermement», più che delineare un unico modello di detenzione in funzione
della chiusura ermetica dello spazio europeo ai profughi e ai migranti, sembra
allora incrementare i margini di arbitrarietà (e di plasticità) nella gestione
del «campo per stranieri». <BR>E una volta di più l’analisi dei campi, e la
lotta contro di essi, non possono prescindere da una comprensione dei modi
molteplici in cui essi si inseriscono all’interno di un processo di più generale
trasformazione della geografia sociale e produttiva in Francia come nel resto
d’Europa.<BR>Già lo si accennava a proposito della riorganizzazione del mercato
del lavoro all’insegna della “flessibilità”: i migranti che abitano lo spazio
dei campi vivono ed esprimono – in forme drammatiche – una condizione <I
class=spip>liminale</I>, sospesa tra dentro e fuori, tra inclusione ed
esclusione, che il capitalismo contemporaneo tende a riprodurre per una
pluralità di soggetti, mettendo radicalmente in discussione l’immagine (e la
realtà materiale) di una cittadinanza costruita sulla piena integrazione
all’interno di quello che Etienne Balibar ha definito lo «Stato sociale
nazionale»(2). Pur collocati fisicamente ai margini della nostra esperienza
quotidiana, i «campi per stranieri» si confermano così luoghi privilegiati
a partire dai quali leggere criticamente i conflitti e le tensioni che vivono al
cuore del nostro presente.</P>
<P class=spip><STRONG><I class=spip>di Sandro Mezzadra</I></STRONG></P>
<P class=spip><STRONG><EM></EM><BR> </P></STRONG>
<P class=spip><I class=spip>Note:<BR>(1) - La forme-camp. Pour une généalogie
des lieux de transit et d’internement contemporaine, in «Cultures &
Conflits», n° 68, hiver 2007.<BR>(2) - É. Balibar, Droit de cité. Culture et
politique en démocratie, l’Aube, La Tour d’Aigue 1998.</I></P>
<P class=spip><EM></EM> </P>
<P class=spip><EM></EM> </P>
<P class=spip>vedi anche: <BR><IMG class=spip_puce alt=-
src="http://www.meltingpot.org/puce.gif"> <A class=spip_in
href="http://www.meltingpot.org/articolo13974.html">Pacchetto sicurezza - Il
controllo sulla vita. La vera emergenza è il razzismo</A></P>
<P class=spip><FONT face=Arial size=2></FONT> </P>
<P class=spip><FONT face=Arial size=2></FONT> </P>
<P class=spip><FONT face=Arial size=2></FONT> </P>
<P class=spip><STRONG class=spip>Bibliografia commentata sui campi</STRONG></P>
<P class=spip><STRONG></STRONG> </P>
<P class=spip><STRONG></STRONG><BR>Un ruolo molto importante nell’avvio di una
nuova stagione di studi sulla “forma campo” è stato svolto dalla pubblicazione
del libro di G. Agamben, <I class=spip>Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda
vita,</I> Torino, Einaudi, 1995, seguito tre anni dopo da <I class=spip>Quel che
resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone</I>, Torino, Bollati Boringhieri,
1998. Le tesi di Agamben, secondo cui il campo costituisce il paradigma politico
della modernità, hanno esercitato una grande influenza sia nel dibattito sul
post-11 settembre sia all’interno degli studi sulle migrazioni e in particolare
sui rifugiati, soprattutto in ambito anglosassone: si vedano ad esempio S.
Perera, <I class=spip>What is a Camp?,</I> in «<A class=spip_out
href="http://www.borderlands.net.au/vol1no1_2002/perera_camp.html">Borderlands
e-journal», 1, 2002</A> e P. Nyers, <I class=spip>Rethinking Refugees. Beyond
States of Emergency</I>, New York – London, Routledge, 2006. È il caso poi di
segnalare almeno due opere generali dedicate alla storia dei campi: A. Kaminski,
<I class=spip>I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni,
tipologia</I>, Torino, Bollati-Boringhieri, 1997 e J. Kotek, P. Rigoulot P., <I
class=spip>Le Siècle des camps. Détention, concentration, extermination, cent
ans de mal absolu</I>, Paris, J.-CLattès, 2000, a cui si possono utilmente
aggiungere la prima parte del libro di F. Rahola, <I class=spip>Zone
definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso</I>, Verona, Ombre
corte, 2003, che sottolinea in particolare l’origine coloniale del campo di
concentramento e il recentissimo volume di J. Brunati, <I class=spip>De
l’esclavage des Noirs à celui des camps nazis</I>, Paris, L’Harmattan, 2008. Un
lavoro molto importante sul sistema concentrazionario nazista, ampiamente
ripreso nel dibattito successivo, è quello di W. Sofski, <I class=spip>Die
Ordnung des Terrors. Das Konzentrationslager</I>, Frankfurt a.M., Fischer, 1993,
mentre è appena uscito l’ottavo volume dell’opera curata da Wolgang Benz e
Barbara Distel, <I class=spip>Der Ort des Terrors. Geschichte der
Nazionalsozialistischen Konzentrationslager</I>, München, Beck, 2008. Per quel
che riguarda i centri di detenzione per migranti in Europa, si possono vedere,
all’interno di una letteratura molto ampia, i seguenti volumi, ricchi di
riferimenti al dibattito sulla «forma campo»: M.-C. Caloz-Tschopp, <I
class=spip>Les Etrangers aux frontières de l’Europe et le spectre des camps</I>,
Paris, La Dispute, 2004, «Cultures & Conflits», n° 57, printemps 2005
(numero monografico dedicato a <I class=spip>L’Europe des camps</I>), «Conflitti
globali», 4, 2006 (numero monografico dedicato a <I class=spip>Internamenti: CPT
e altri campi</I>), H. Courau, <I class=spip>Ethnologie de la Forme-camp de
Sangatte: De l’exception à la régulation</I>, Paris, Archives contemporaines
Editions, 2007, O. Le Cour Grandmaison – G. Luhilier – J. Valluy (eds), <I
class=spip>Le retour des camps? Sangatte, Lampedusa, Guantanamo</I>…, Paris,
Editions Autrement, 2007, F. Sossi, <I class=spip>Autobiografie negate.
Immigrati nei Lager del presente</I>, Roma, Manifestolibri, 2002, M. Rovelli,
Lager italiani, Milano, Rizzoli, 2006 e T. Pieper, <I class=spip>Die Gegenwart
der Lager: Zur Mikrophysik der Herrschaft in der deutschen Flüchtlingspolitik,
Münster, Westfälisches</I> Dampfboot, 2008, M. Agier, <I class=spip>Gérer les
indésirables. Des camps de réfugiés au gouvernement humanitaire</I>, Paris,
Flammarion, 2008. Ricco di riferimenti alla funzione dei centri di detenzione è
infine il volume curato da N. De Genova e N. Peutz, <I class=spip>The
Deportation Regime: Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement</I>, Durham,
NC, Duke University Press, 2009.</P>
<P class=spip> </P>
<P class=spip><FONT face=Arial size=2></FONT> </P>
<P class=spip><STRONG class=spip>Bibliografia commentata su frontiere,
cittadinanza e migrazioni</STRONG></P><STRONG></STRONG></DIV>
<DIV class=arttesto dir=ltr> </DIV>
<DIV class=arttesto dir=ltr>
<P class=spip><BR>A lungo, nel corso del secondo dopoguerra, è prevalsa nel
dibattito teorico occidentale un’immagine della cittadinanza che ne sottolineava
i caratteri di inclusione e di integrazione, secondo la lezione del grande
sociologo britannico T.H. Marshall (<I class=spip>Cittadinanza e classe
sociale</I>, ed. or. 1950, ed. it. a c. di S. Mezzadra, Roma – Bari, Laterza,
2002). È a partire dagli anni Ottanta, con il manifestarsi della crisi dello
Stato sociale e con le nuove sfide portate dalle migrazioni transnazionali, che
la funzione esclusiva della cittadinanza è stata riscoperta ed è divenuta
centrale all’interno delle scienze sociali, giuridiche e politiche. Un libro di
notevole importanza, da questo punto di vista, è ad esempio quello di R.
Brubaker, <I class=spip>Citizenship and Nationhood in France and Germany</I>,
Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1992. Il rapporto tra cittadinanza e
migrazioni è stato conseguentemente analizzato da molti autori ponendo in
evidenza l’esclusione dei migranti dallo spazio della cittadinanza: emblematico,
in questo senso, è il libro di A. Dal Lago, <I class=spip>Non persone.
L’esclusione dei migranti nella società globale</I>, Milano, Feltrinelli,
1999.<BR>Sotto il profilo della riflessione sulla categoria di cittadinanza, il
suo rapporto costitutivo con l’“alterità” è stato al centro dell’ambiziosa
ricostruzione genealogica proposta da E.F. Isin, <I class=spip>Being Political:
Genealogies of Citizenship</I>, Minneapolis – London, University of Minnesota
Press, 2002. Per seguire lo sviluppo del dibattito internazionale sul tema della
cittadinanza, uno strumento essenziale è la rivista «Citizenship Studies»: si
segnala inoltre il recente volume uscito in occasione del decennale della
rivista, a cura di E.I. Isin, P. Nyers e B.S. Turner, <I class=spip>Citizenship
between Past and Present</I>, London – New York, Routledge, 2008. Molto utile è
anche l’<I class=spip>Handbook of Citizenship Studies</I>, a cura di E.I. Isin e
B.S. Turner, London, Sage, 2003. <BR>Specificamente sul rapporto tra migrazioni
e cittadinanza, da un punto di vista filosofico-politico, si possono vedere i
seguenti volumi: Schwartz, W.F. (ed.), <I class=spip>Justice in Immigration</I>,
Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1995, Ph. Cole, <I
class=spip>Philosophies of Exclusion. Liberal Political Theory and
Immigration</I>, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2000 e S. Benhabib, <I
class=spip>The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens</I>, Cambridge –
New York, Cambridge University Press, 2004. Molto utili sono i due volumi curati
da M.-C. Tschopp e P. Dasen, <I class=spip>Mondialisation, migration et droits
de l’homme: un nuveau paradigme pour la recherche et la citoyenneté /
Globalization, migration, human rights: a new paradigm for research and
citizenship</I>, Bruxelles, Bruylant, 2007.<BR>Il rapporto tra cittadinanza e
confini è stato studiato in modo innovativo negli ultimi due decenni, a partire
dai lavori di Étienne Balibar, di cui si ricordano qui <I class=spip>Les
frontières de la démocratie</I>, Paris, La Découverte, 1992 e Nous, <I
class=spip>citoyens d’Europe: les frontières, l’état, le peuple</I>, Paris, La
Découverte, 2001. Da questo punto di vista, il dibattito sulla cittadinanza e
sul suo rapporto con le migrazioni, si è intrecciato con lo sviluppo dei
cosiddetti border studies, un settore di ricerca interdisciplinare che è molto
cresciuto a partire dall’inizio degli anni Novanta (si veda ad esempio <A
class=spip_out href="http://www.absborderlands.org)/">il sito della “Association
for Borderlands Studies”</A> Di grande rilievo, in questo senso, sono stati una
serie di studi sul confine tra Stati uniti e Messico, a partire dall’innovativo
lavoro di G. Anzaldúa, <I class=spip>Borderlands, the New Mestiza/La
frontera</I>, San Francisco, Spinsters/Aunt Lute, 1987. Tra i libri più
interessanti in proposito si ricordano P. Vila, <I class=spip>Borders,
Reinforcing Borders: Social Categories, Metaphors, and Narrative Identities on
the U.S.-Mexico Frontier</I>, Austin, University of Texas Press, 2000 e N.P. De
Genova, <I class=spip>Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in
Mexican Chicago</I>, Durham, NC – London, Duke University Press, 2006. Un volume
uscito di recente, che consente di fare il punto sullo sviluppo dei border
studies, presentando al tempo stesso numerosi studi di caso, è P.K. Rajaram – C.
Grundy-Warr (eds), <I class=spip>Borderscapes. Hidden Geographies and Politics
at Territory’s Edge</I>, Minneapolis – London, University of Minnesota Press,
2007. <BR>L’insieme di questi studi ha condotto a un’immagine più complessa del
rapporto tra cittadinanza e immigrazione, ponendo in evidenza gli effetti di
selezione (di “inclusione differenziale”) determinati dall’azione dei
dispositivi di confine, che tendono sempre più a prolungarsi all’interno di
spazi politici formalmente unificati e a proiettarsi al di là della linea che in
teoria dovrebbe segnarne il margine. Tra i numerosi studi che negli ultimi anni
hanno posto al centro dell’attenzione queste trasformazioni dell’istituto del
confine in riferimento al caso europeo, si ricordano: D. Bigo – E. Guild, 2003,
<I class=spip>Le visa Schengen: expression d’une stratégie de «police» à
distance</I>, «Cultures & Conflits», numero speciale «Le mise à l’écart des
ètrangers: la logique du Visa Schengen», 49-50 (2003), D. Bigo – E. Guild (eds),
<I class=spip>Controlling Frontiers: Free Movement Into and Within Europe</I>,
Aldershot, Ashgate, 2005, P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a c. di), <I
class=spip>Migrazioni, frontiere, diritti</I>, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 2006, AA.VV., <I class=spip>Externalisation de l’asile et de
l’immigration: Après Ceuta et Melilla, les stratégies de l’Union européenne</I>,
Paris, Gisti, 2006, P. Cuttitta, <I class=spip>Segnali di confine. Il controllo
dell’immigrazione nel mondo-frontiera</I>, Milano, Mimesis, 2007, E. Rigo, <I
class=spip>Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione
allargata</I>, Roma, Meltemi, 2007, Transit Migration Forschungsgruppe (ed), <I
class=spip>Turbulente Ränder. Neue Perspektiven auf Migration an den Grenzen
Europas</I>, Bielefeld, Transcript Verlag, 2007, <I class=spip>Nouvelle Europe,
nouvelles migrations: Frontières, intégration, mondialisation</I>, Paris,
Éditions du Félin, 2007. Un libro recente che denuncia efficacemente la
formazione di un consenso trasversale agli schieramenti politici sulla necessità
di irrigidire i controlli ai confini e tenta di proporre politiche alternative è
quello di C. Rodier, <I class=spip>Immigration, fantasmes et réalités: Pour une
alternative à le fermeture des frontières</I>, Paris, La Découverte, 2008. Due
buoni siti per di controinformazione su quanto accade ai confini europei sono i
seguenti: <A class=spip_out href="http://fortresseurope.blogspot.com/">Fortress
Europe</A> e <A class=spip_out href="http://www.noborder.org/">No
border</A>.<BR>Al tempo stesso, negli ultimi anni, una serie di studi hanno
posto in evidenza come i migranti, lungi dall’essere semplici “vittime” dei
dispositivi di confine, sfidino quotidianamente questi ultimi con le loro
pratiche e con i loro movimenti: si vedano in questo senso, ad esempio, i
contributi raccolti in «Multitudes», 19 (dicembre 2004), S. Mezzadra, <I
class=spip>Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione</I>,
Verona, ombre corte, 2006, D. Papadopoulos – N. Stephenson – V. Tsianos, <I
class=spip>Escape Routes. Control and Subversion in the 21st Century</I>,
London, Pluto Press, 2008 e L. Suárez-Navaz et al (eds.), <I class=spip>Las
luchas de los sin papeles y la extensión de la ciudadanía. Perspectivas críticas
desde Europa y Estados Unidos</I>, Madrid, Traficantes de Sueños, 2008.</P>
<P class=spip><FONT face=Arial size=2></FONT> </P>
<P class=spip> </P>
<P class=spip> <A href="http://www.meltingpot.org/articolo13985.html"><FONT
size=1>http://www.meltingpot.org/articolo13985.html</FONT></A> </P></DIV></DIV></BODY></HTML>