[Redditolavoro] La resistenza dei militanti del DIP colpiti dal regime di Erdogan

Partito Comunista dei Lavoratori pclavoratoribologna at gmail.com
Thu Nov 17 12:26:12 CET 2016


La resistenza dei militanti del DIP colpiti dal regime di Erdogan
Si inasprisce la repressione contro i rivoluzionari in Turchia
14 Novembre 2016

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Il regime di stato di emergenza instaurato da Tayyip Erdogan e dall'AKP
inasprisce la sua persecuzione contro la classe lavoratrice e contro
l’opposizione curda. Due dirigenti principali della giovane generazione del
Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (Devrimci Isçi Partisi, DIP) sono
caduti vittima di questa repressione: tra i contestatori all’università che
sono stati cacciati dai loro posti per decreto governativo, ci sono Levent
Dölek, vicesegretario del partito e docente alla Facoltà di Economia
dell’Università di Istanbul, e Mert Kükre, responsabile della sezione di
Ankara del partito, assistente-ricercatore e candidato al dottorato della
Middle East Technical University di Ankara, contro il quale si sono di
nuovo rivolte le minacce di espulsione da parte dell’amministrazione
dell’università, che approfitta strumentalmente dello stato di emergenza in
vigore dall’alba dello sventato golpe del 15 luglio.


*ERDOGAN VARA UN DECRETO-LEGGE CHE SOLLEVA LEVENT E COLLEGHI DAL PROPRIO
INCARICO *

Levent Dölek e i suoi colleghi sono stati licenziati per mezzo di un
decreto-legge emesso nientemeno che dall’assemblea del Consiglio dei
Ministri, sotto la vigile presidenza di Tayyip Erdogan. Si sono ritrovati
accusati del reato di una presunta relazione con organizzazioni
terroristiche. Ma la ragione di questo provvedimento è trasparente a
chiunque conosca la situazione all’Università di Istanbul. Levent è uno dei
più importanti dirigenti di un vero movimento militante che dal 2008/2009
lotta per la sicurezza lavorativa degli assistenti-ricercatori. A un certo
livello dello scontro, il movimento si era proposto di occupare, durante la
notte, un’aula di lettura nell’edificio della Facoltà di Scienze. E
prevedeva, di lì a poco, la stessa azione per l’ufficio del rettore
dell’università.

È una lotta che vince grazie alla forza di un movimento di massa
organizzato. Molti altri membri dei cosiddetti “comitati dei
rappresentanti”, organismi che si sono generati democraticamente in seno al
movimento stesso e mediante i quali era dato ad ogni rappresentante di
agire come portavoce degli assistenti-ricercatori dei vari dipartimenti
universitari, sono stati ora pubblicamente licenziati.

Ma la lotta di Levent non si è tenuta confinata entro i limiti di questi
episodi particolari. Tanto meno si è limitata alla specifica lotta della
propria categoria professionale. Oltre alla sua indefessa militanza nel
partito, Levent è stato membro quotidianamente attivo nella commissione
università del Sindacato dei lavoratori dell’Istruzione, l’unico sindacato
progressista di dipendenti pubblici nelle istituzioni scolastiche in tutto
il Paese. Sempre partecipe ai picchetti, quando i lavoratori subappaltati
dell’università continuavano a lavorare in condizione di precarietà estrema
e salari da fame, battendosi per i diritti di tutti.

Al tempo stesso, si mobilitava costantemente da una parte all’altra delle
aree industriali del Paese, da Bursa a Manisa e da Kocaeli a Düzce, per
aiutare gli operai industriali a organizzarsi e combattere. È stato
presente durante tutti i più importanti episodi della recente storia della
lotta di classe turca, assumendo un ruolo importantissimo nello sciopero a
oltranza dei metalmeccanici al quale aderirono decine di migliaia di operai
dalle maggiori fabbriche automobilistiche e da altri settori metallurgici,
nella primavera e nell’estate del 2015.
Né la sua attività militante si esauriva nella lotta di classe nel senso
stretto del termine. È stato dalla parte degli studenti durante ogni
recente manifestazione svoltasi sotto il regime iperrepressivo
dell’università, e sempre al loro fianco mentre questi cercavano di
proteggersi dai feroci attacchi delle guardie di sicurezza e dalle cariche
dei celerini.
Solo qualche tempo fa è stato in prima linea con due suoi colleghi
(anch’essi licenziati, ovviamente) a denunciare la violenza della polizia
contro gli studenti dell’Università di Istanbul che tentavano di metter su
un corteo di protesta dopo l’anniversario dell’attentato kamikaze ad Ankara
(10 ottobre 2015) sferrato contro una manifestazione sindacale, in cui
persero la vita più di un centinaio di persone.
Crimine organizzato dall’ISIS sotto lo sguardo benevolo del governo
dell’AKP.

Tutto questo non poteva sfuggire all’attenzione né dell’amministrazione
universitaria né del governo.

Il governo ha usato i suoi adesso più che mai illimitati poteri per
promulgare decreti-legge per mezzo dei quali radiare dal pubblico impiego
decine di migliaia di presunti adepti della confraternita di Gulen,
additati come i responsabili del fallito golpe del 15 luglio.
In tempi brevissimi, questa oggi è diventata la norma da estendere a tutti
i dipendenti pubblici che si sospettano affini al movimento curdo, solo per
aver partecipato agli scioperi indetti dai sindacati del pubblico impiego
ed aver protestato contro la palese violazione dei diritti umani nella
regione curda.

Più di recente, nomi di militanti di sinistra o di semplici attivisti
sociali hanno iniziato a intrecciarsi nella fitta rete dei migliaia di nomi
degli epigoni di Gulen. Levent e i suoi colleghi sono stati oggetto di
questa ripugnante strategia che mischia, in un amalgama surreale, religiosi
della confraternita conservatrice di Gulen (peraltro ex-alleati del
governo!) ed atei marxisti che combattono Gulen non meno di quanto
combattano i reazionari dell’AKP.
Il tutto è tanto più grottesco, in quanto il rettore dell’università e la
sua cricca, i compilatori, con ogni probabilità, della lista dei comunisti
da cacciare, sono ora sospetti essi stessi di “gulenismo”!

Ma si sa che non è affatto facile tappare la bocca a un marxista che lotta
per la propria causa. Così, il decreto di espulsione ha fallito nel suo
intento. Dopo soli tre o quattro giorni dal licenziamento, Levent e i suoi
colleghi sono venuti alle luci della ribalta grazie ad interviste in tv e
giornali e a milioni di visite sui loro account internet, sortendo
l’effetto contrario: un immenso entusiasmo per la strenua tenacia con la
quale Levent resiste al governo e all’instaurazione del suo regime fascista
sotto la maschera dello stato di emergenza.
Il 3 novembre, alcuni giorni dopo l’emissione del decreto, la Gazzetta
Ufficiale ha pubblicato la notizia di una immensa manifestazione indetta
dal corpo studentesco e da un gran numero di organizzazioni di massa che si
è tenuta nella piazza di fronte al campus universitario, in cui Levent ed
una studentessa militante nelle fila del DIP sono stati due dei tre
agitatori.

Levent, con il supporto dell’intero DIP, sta lottando per spiegare ai
lavoratori, gran parte dei quali sostenitori di Erdogan per le ragioni che
abbiamo visto altrove, come lo stato d’emergenza sia il pretesto, di giorno
in giorno, per la restaurazione di una dittatura furiosa che ha tra i
principali obiettivi proprio la guerra alla classe operaia.
Il governo caldeggiava già mesi prima del tentativo di golpe l’iniziativa
di privatizzare le miniere di carbone dello Zonguldak. Non importa quanto
fosse scandaloso questo progetto in un Paese che ha conosciuto la tragedia
di Soma, nella quale 303 minatori di un’azienda di carbone privata morirono
in un “incidente” sul lavoro o, come è più giusto dire, in un eccidio in
nome del profitto.
Questo nemmeno due anni fa! Era infatti questa strage che i minatori dello
Zonguldak ricordavano al governo il 14 luglio, cioè solo un giorno prima
del fallito colpo di Stato, marciando uniti in quella manifestazione
storica contro la privatizzazione.
Il decreto-legge si abbatte sul compagno Levent esattamente come sugli
operai e gli ingegneri in lotta, cioè su tutta l’avanguardia di classe
nelle miniere della regione.
Il terrorismo, se c'è, è la violenza di questo Stato capitalista contro il
proletariato!


*L’OPPORTUNISMO DELLO STATO D'EMERGENZA E LA RISPOSTA DI MERT *

Il caso che riguarda Mert Kükrer, il secondo dirigente del DIP
perseguitato, è in qualche modo più complesso. Rappresenta, però, in modo
emblematico, un altro aspetto della vicenda. Quello che il DIP chiama
“opportunismo dello stato d’emergenza”.
Anche per lui, come per Levent, le lancette della storia sembrano essere
tornate indietro.

Da diversi anni Mert è il segretario organizzativo della Commissione
Universitaria di Ankara del suddetto Sindacato dell’Istruzione (la ragione
per la quale quest’ultimo non si chiami “sindacato dei docenti” sta
semplicemente nel fatto che non è solo un sindacato categoriale, di
docenti; ma si prefigge orizzontalmente di raccogliere tutti i lavoratori
del settore).
Attraverso questa funzione, è stato il maggiore organizzatore di una
grandiosa agitazione di lavoratori in sciopero al Middle East Technical
University (METU), tenutasi nel dicembre 2014.
Uno sciopero che ha unito lavoratori di diverse categorie; insegnanti,
lavoratori della ristorazione, personale amministrativo, addetti alle
pulizie. Per ben tre giorni, oltre un migliaio di lavoratori si sono uniti
in sciopero contro le angherie economiche che colpiscono tutti questi
settori senza eccezione. È stato lo sciopero più riuscito e con la più alta
adesione che all’università si ricordi dai tempi oscuri della giunta
militare nel 1980.

L’amministrazione universitaria non ci ha pensato due volte a lanciare la
rappresaglia. Così, nella primavera del 2015, sono stati presi durissimi
provvedimenti disciplinari contro Mert e un suo collega, tecnico di
laboratorio. La pena è stata l’espulsione dal pubblico ufficio. Per la
precisione, per Levent la punizione ha già avuto valore esecutivo.
Punizione aggravata dal fatto che alla vittima non si è consentito di
svolgere nessun altro lavoro nel settore pubblico, neanche come bidello.
Perciò il compagno non può esercitare nemmeno da avvocato, poiché
quest’ultimo, in Turchia, si considera esercizio pubblico. Mert e i suoi
colleghi hanno deciso di passare al contrattacco con un picchetto davanti
all’ufficio del rettore. Si sono accampati trascorrendo 17 giorni e 17
notti in agitazione. E le azioni di supporto da parte dei docenti
universitari, personale amministrativo, operai, studenti, etc. nel corso di
quei giorni, sono state tantissime.

METU è divenuto un simbolo di resistenza per tutte le università della
Turchia, grazie a questi grandiosi giorni di lotta.
E a questo punto è diventato difficile per l’amministrazione – che da
sempre ama presentarsi come l’erede naturale della stagione di lotte degli
anni ’60 e ’70 – continuare per questa strada.

Il movimento ha toccato il suo momento più alto durante le cerimonie di
laurea: gli studenti impugnavano un’infinità di cartelli con su scritto
“Giù le mani dal mio insegnante!” e srotolavano striscioni giganteschi che
esprimevano solidarietà a Mert e agli altri scioperanti, mentre metà del
corpo studentesco voltava le spalle al discorso del rettore.
Non stupisce che l’amministrazione universitaria (e il Consiglio di
Educazione Superiore, un ente sovrauniversitario reazionario creato dalla
giunta militare del 1980 con competenze disciplinari) abbia dovuto fare
dietrofront. Il dossier è stato silenziosamente insabbiato. Peccato che
Mert sia stato ancora richiamato per sanzioni disciplinari venti giorni fa,
con la stessa minaccia di licenziamento dal settore pubblico.

È esattamente a questo che diamo il nome di “opportunismo da stato di
emergenza”: organismi della pubblica amministrazione, teoricamente
indipendenti dal governo, che usano l’atmosfera politica - nata da una
situazione eccezionale - a fini repressivi, in questioni che non sono in
alcun modo legate a chi è accusato (e punito) d’esser tra gli autori del
colpo di Stato.
Il ricorso strumentale, da parte del governo, ai poteri eccezionali che lo
stato d’emergenza gli conferisce per aggredire il movimento curdo o il
movimento operaio (dal momento che i due movimenti si trovano come
obiettivo accomunati dalla stessa strategia di Erdogan di rastrellamento
degli oppositori) col colpo di Stato non ha niente a che vedere.
L’amministrazione del METU ha atteso un anno e mezzo in totale stasi prima
di portare la questione di Mert all’ordine del giorno semplicemente perché
lo stato d'emergenza (e non attraverso metodi legali, ma in forma forma
politico-psicologica) adesso è a suo favore, in un’atmosfera ancor più
repressiva.
E questi rispettabili “dottori” si dichiarano contrari alle mire
assolutistiche di Erdogan e alla distruzione della laicità! Quando si
tratta di schiacciare il proletariato, però, tutti rinnovano la lealtà al
sultano.

Mert e i compagni di Ankara hanno deciso di rafforzare le barricate con più
picchetti all’ufficio del rettore universitario. E questa azione adesso
vince, dopo una lunga notte di lotta. La direzione universitaria, in quella
che già si profilava come una discussione accesa, si è rifiutata di
approvare la richiesta dell’amministrazione di licenziare Mert. Vittoria!
Vittoria che premia indubbiamente la resistenza di Mert che per 33 lunghi
giorni è rimasto accampato in una tenda dinanzi all’ufficio del presidente
dell’università, come nell’estate 2015.
È stato d'aiuto anche il sostegno di molti noti accademici e intellettuali
dai diversi angoli del mondo che hanno lanciato appelli e firmato
petizioni, influendo in maniera determinante sull’amministrazione METU che
sa d’avere, da tradizione, una reputazione da difendere agli occhi del
mondo.
È stato vitale il contributo dei nostri compagni greci e italiani.

Anche Mert, come Levent, si è trovato in prima linea nelle innumerevoli
lotte dei lavoratori.
Ad Ankara, ha sempre partecipato e collaborato a picchetti e occupazioni,
di posto di lavoro in posto di lavoro, contro tutti gli attacchi della
classe padronale.
Ricordiamo ancora la sua vigorosa attività durante i 72 giorni della
“Comune di Sakarya”, come il DIP chiama la tendopoli allestita nel cuore di
Ankara tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 dagli operai della Tekel,
manifattura di tabacchi e alcolici allora statale, oggi privatizzata.
Mert era in contatto costante con i diversi accampamenti delle regioni, ha
coordinato l’attività dei militanti del DIP, inviati per l’occasione dalle
proprie città ad Ankara per dar sostegno ai lavoratori, rafforzando la
protesta, presidiando con loro; ha curato una ventina di volantini di
partito da distribuire tra gli occupanti, analizzando gli sviluppi della
lotta, spiegando quale fosse la linea da tenere, in linguaggio
comprensibile a tutti.

Fa da sempre chiaramente parte delle politiche dello Stato turco la
repressione degli intellettuali dissidenti. La borghesia sa bene che
l’unità tra il pensiero marxista e la classe operaia è la più grossa
minaccia che essa possa avere.
Levent e Mert pagano ciascuno le proprie conseguenze del maccartismo
ottomano, così come i compagni di qualche generazione fa hanno subito la
medesima persecuzione dai colonnelli dei primi anni ’80. Oggi non
assistiamo che alla rivelazione fascista di una restaurazione che affonda
le sue radici in quegli anni e che, pezzo per pezzo, ricostruisce un vero e
proprio regime sotto le mentite spoglie di un parlamento democratico.
Ma sono stati soprattutto dei quadri e dei dirigenti, delle avanguardie del
movimento curdo, le teste sulle quali, per decenni, si è abbattuta la scure
della repressione, denudati e massacrati. Adesso sono le nuove generazioni
di marxisti a vedersi puntare addosso i cannoni della borghesia che
disintegra il proletariato rivoluzionario.

https://youtu.be/SrDHeKtL0OI

SVILUPPI SPASMODICI

Il governo è ora in guerra con chiunque. Non solo con i gulenisti, veri o
presunti, ma con qualsiasi opposizione possibile.
Il giornale Cumhuriyet, che si potrebbe descrivere come l'equivalente di un
Le Monde, Guardian o Corriere della Sera, è interamente sabotato e i suoi
giornalisti vengono arrestati. Si contano ben 130 redazioni chiuse. E lo
scenario si incupisce di giorno in giorno. Senza dimenticare la guerra
contro il Medio Oriente e la posta in gioco che si alza sia in Siria che in
Iraq.

Dopo il colpo di Stato, Erdogan si è ritrovato isolato a livello
internazionale, privato dell’appoggio di tutti gli organi repressivi dello
stesso Stato turco. Ma ancora una volta, come già nel 2013 quando la
leadrship di Erdogan ebbe uno scossone da parte dei sommovimenti delle
rivolte popolari di Gezi Park e dagli scandali di corruzione, o nel 2015
quando avrebbe perso le elezioni di giugno di fronte a tutte le accuse di
corruzione, i suoi ex nemici nelle file della borghesia gli sono corsi in
aiuto.
Il cosiddetto "consenso nazionale" dei partiti, messo su proprio per
difendere la democrazia da qualche tentativo di golpe (!) ha cementato
l’unione dell’AKP non solo con il fascista MHP, ma persino con il partito
di Ataturk, il CHP, il quale gli ha restituito nuova linfa vitale. Tre mesi
dopo, una volta consolidato il potere e smesso di traballare, sulla scia
delle misure securitarie scaturite dal colpo di Stato, Erdogan si appresta
a liquidare la vecchia alleanza con il CHP, rimpiazzandolo con il fascista
MHP in funzione nazionalista e anticurda. Così la sua stella splende di
nuovo. E questa nuova alleanza può guadagnargli la tanto agognata riforma
presidenzale, che nei fatti ha sempre esercitato da quando, nel 2014, si
arrogò la carica istituzionale.

Il così chiamato rabiismo di Erdogan e dei suoi neofascisti, progetto
sunnita panturco di dominio sul mondo arabo (e oltre), ha la strada
spianata, e apre spazi per il rais in Medio Oriente. Ma gli ostacoli non
mancano. Erdogan, in Siria e in Iraq, sta giocando col fuoco. Lo Stato
parassita saudita getta benzina su una possibile guerra con l’Iran che si
tradurrebbe in una fratricidio islamico tra sunniti e sciiti. Per quanto
riguarda la politica nazionale, invece, ragioni e mandanti del colpo di
Stato sono sospesi in un alone di mistero. Ci sono fonti che dicono che il
colpo di Stato potrebbe esser stato sostenuto da Erdogan stesso, ma che
quest’ultimo, poi, si sia tirato indietro all’ultimo momento. E ciò
dimostrerebbe che non passa gran differenza da come Erdogan gestisce le
questioni nazionali e quelle internazionali. Tra i motivi principali del
sostegno di rilevanti settori della classe operaia ad Erdogan c’è la
costante crescita dell’economia, fino agli ultimi tempi. Ma adesso incombe
lo spettro della recessione all’orizzonte. I recenti licenziamenti
potrebbero rianimare la rabbia popolare latente a fronte di questa politica
di distruzione sistematica delle conquiste e dei diritti dei lavoratori,
soprattutto per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro già minacciata per
decenni, dalla giunta militare fino al governo dell’AKP.

Ci aspettano delle battaglie determinanti per il futuro. Bisogna tenersi
pronti a fronte a una rapida evoluzione delle circostanze.
Ne "La III Internazionale dopo Lenin", Trotsky ha parlato di queste fasi di
transizione politica su scala mondiale, e della rapida successione da una
fase all’altra. Secondo lui, questo “sviluppo spasmodico” è la regola, e
non l’eccezione:

«La peculiarità esplosiva di questa nuova epoca, con le sue variazioni
brusche di flussi e riflussi politici, con la sua lotta di classe
altalenante tra fascismo e comunismo, è data dal fatto che il sistema
capitalista internazionale si è già condannato a morte e non è più in grado
di garantire progressi nel suo sviluppo. (…)
Il carattere rivoluzionario della nostra epoca non sta in ciò che permette
il compimento della rivoluzione, che è la presa del potere da parte del
proletariato quale che sia il momento in cui avviene; bensì consiste in
profonde e nitide fluttuazioni e brusche e frequenti transizioni da una
situazione immediatamente rivoluzionaria (quando il partito comunista si
trova nelle condizioni di tentare la presa del potere) alla vittoria della
controrivoluzione fascista o semifascista, e da quest’ultima verso
l’instaurazione di un regime moderato provvisorio (il “blocco di sinstra”,
l’inclusione della socialdemocrazia all’interno della coalizione, la
consegna della staffetta del potere al partito di MacDonald, e così via),
per subito dopo spingere gli antagonismi a scontrarsi ancora e ravvivare
così la questione del potere ulteriormente.»

La Turchia, oggi, sta concretamente sperimentando questa “fase spasmodica”
di sviluppo.
La rivolta di Gezi Park e lo scandalo della corruzione a ridosso del 2013
sono stati seguiti dalla vittoria elettorale dell’AKP nelle elezioni locali
di marzo e in quelle presidenziali dell’agosto 2014. Ma la serhildan
(“rivolta”, in lingua curda) a Kobanê nell’ottobre dello stesso anno ha
cambiato la situazione ancora una volta. A questa è seguita lo sciopero ad
oltranza dei metalmeccanici e la sconfitta alle urne di Erdogan nel giugno
2015. Tuttavia, a causa degli errori politici commessi dal movimento curdo
e dalla stessa sinistra, la situazione è cambiata e sono state indette le
elezioni anticipate di novembre, in cui l’AKP ha riconquistato l’egemonia.
Il colpo di Stato fallito di luglio si può dire sia stato un “incidente”
che però ha portato Erdogan sull’orlo del precipizio. E adesso, come
l’araba fenice, il presidente e il suo partito risorgono dalle proprie
ceneri, ancora!

Alla luce di questo alterarsi di alti e bassi, come sulle montagne russe,
il DIP si sta preparando ad ogni tipo di lotta, dalla resistenza alla
repressione al contrattacco, laddove si aprano spazi per l’ascesa della
lotta di classe. Siamo politicamente e psicologicamente pronti a rispondere
a ulteriori pressioni. Non ci rassegniamo alla disperazione come fa tanta
sinistra che continua a gemere e a lamentarsi, ma ci prepariamo a reagire!
Contrattacchiamo non solo negli ambienti condizionati dal sentimento
piccolo-borghese laico in cui tutti, a parole, si dichiarano avversari di
Erdogan. Ci assumiamo un compito ben più arduo: fare del nostro meglio per
distruggere le infatuazioni residue nella classe operaia verso il
tradizionalismo e l'identitarismo nazionalista di cui il Sultano si fa
paladino contro l’avanzata dei poteri forti della globalizzazione, solo
oggi dopo decenni.
Mentre Erdogan e la sua cricca si rifanno a califfi e sultani, i comunisti
rivendicano la tradizione della lotta di classe, della ribellione che si
accendeva in Anatolia e in Tracia sotto l’Impero ottomano, e
dell’affermazione di un’identità non nazionale, ma di classe!
Mentre gli ideologi dell’AKP straparlano, come i pupazzi manovrati dal
ventriloquo, criticando USA e UE, noi che chiamiamo le cose col loro nome
gridiamo forte e chiaro: “Fuori la Turchia dalla NATO!”. Chiediamo che la
base di Incirlik sia chiusa, che agli Stati Uniti si requisiscano le
testate nucleari ivi confinate e che si smantelli il cosiddetto “scudo
antimissile” costruito nella Turchia orientale contro l’Iran.

Ma soprattutto, combatteremo per mostrare agli operai che il governo
dell’AKP aggredisce il proletariato per fare gli interessi della sola
borghesia.
A dispetto delle modeste dimensioni, il DIP si sta preparando con coscienza
e sistematicità per affrontare le epocali lotte che lo attendono. Ha
costruito un’organizzazione che è capace di flessibilità tattica in ogni
circostanza. E la giovane generazione dei suoi dirigenti ne impugna già le
redini; Levent e Mert non sono che la punta dell’iceberg.
Sungur Savran (DIP)

​

http://gercekgazetesi.net/

Fonte:
www.pclavoratori.it  -  info a pclavoratori.it
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